Lucrezia: l’Eroina Romana da cui nacque la Repubblica

509 a.C: a Roma nasce la Repubblica. Finisce un’epoca, quella della fondazione di una città che secoli dopo avrebbe conquistato gran parte del mondo conosciuto. La monarchia cade al momento giusto, almeno secondo lo storico Tito Livio (59 a.C-17 d.C.), principale fonte ufficiale sulla leggendaria nascita della città.

Tito Livio

Livio riconosce a Lucio Giunio Bruto, fondatore della Res publica, il merito di aver rovesciato la monarchia quando a Roma l’accozzaglia di pastori, di schiavi fuggitivi e di ladri impuniti accolti nel “recinto inviolabile di un tempio”, aveva ormai maturato quei sentimenti che rendono gli abitanti di un luogo un popolo. Sentimenti che, secondo Livio, sono “l’amore coniugale, l’amore paterno e l’attaccamento alla terra stessa”.

Lucio Giunio Bruto

Ma nella narrazione della storia di Roma, il racconto degli eventi, soprattutto quelli più lontani, ha la funzione di veicolare messaggi politici e morali esemplari. Livio quindi racconta la caduta della monarchia a Roma non come conseguenza (o almeno non solo) di conflitti interni tra l’oligarchia e il Rex, quel Tarquinio il Superbo, oltretutto di origine etrusca, che aveva assolutizzato il potere reale, inimicandosi sia la plebe sia i patrizi.

Tarquinio il superbo

Lo storico fa nascere la ribellione da un casus belli nel quale, non a caso, la protagonista è una donna: Lucrezia, che di fatto (indipendentemente dalla sua reale esistenza) diventa la figura leggendaria da cui nasce la Repubblica.

Nell’antica Roma le donne non partecipavano alla res publica, confinate tra mure domestiche e doveri familiari, seppur con maggior libertà delle donne greche. Ecco che allora, rendere Lucrezia protagonista di un cambiamento epocale come il passaggio da monarchia a repubblica, rivela, per contrasto, quanto grande fosse la tensione alla base dell’evento.

Tito Livio racconta dell’assedio romano alla città di Ardea, al quale partecipava lo stesso Tarquinio il Superbo, i princeps suoi figli, e Collatino, loro parente e marito di Lucrezia. Per trascorrere al meglio il noioso tempo dell’assedio, i nobili si lasciavano andare al piacere del cibo e soprattutto del vino. In una serata durante la quale gli effetti del vino si fecero sentire più del solito, i principi e Collatino iniziarono a discutere su chi avesse in sposa la donna più virtuosa.

Discorsi da uomini (che forse non sono cambiati poi molto nel corso dei secoli) che si conclusero con una decisione evidentemente dettata dai fumi dell’alcol: uscire di nascosto dal Campo e andare a verificare di persona cosa stessero facendo le mogli rimaste a casa.
Le mogli dei principi si stavano spensieratamente divertendo con lussuosi banchetti, e solo la virtuosa Lucrezia venne “sorpresa” mentre filava la lana insieme alle sue ancelle, nella sua casa a Collatia. Una così evidente prova di modestia, fedeltà e integrità ebbe su Sesto Tarquinio, uno dei principi, un effetto non prevedibile:

Decise che quella donna doveva essere sua

Sesto Tarquinio e Lucrezia

Di lì a qualche giorno il principe si allontana nuovamente di nascosto dall’accampamento, e si presenta a casa di Lucrezia. La donna lo accoglie secondo il dovere dell’ospitalità, ma l’uomo la ripaga con una cattiva moneta: durante la notte va nella sua stanza e, tra dichiarazioni d’amore e minacce vuole dare sfogo alla sua passione.

Lucrezia chiudi la bocca! Sono Sesto Tarquinio e ho una spada in mano. Una sola parola e sei morta

Ma Lucrezia è ben decisa a non sottomettersi alle voglie di Sesto, pur sapendo di rischiare la morte. A quel punto il principe la ricatta in un altro modo. Se non avesse ceduto, non solo avrebbe perso la vita, ma anche l’onore: dopo averla uccisa le avrebbe messo accanto il corpo nudo di un servo da lui stesso accoltellato, a simulare un incontro adulterino finito nel sangue.

Alla povera Lucrezia non resta che sottostare alle voglie di Sesto, ma quando il princeps riparte, si riappropria di quella facoltà che lui le aveva negato: usare la parola.

La donna richiama a Collatia il marito, impegnato nell’assedio di Ardea, e il padre Spurio Lucrezio, che a Roma faceva le funzioni del Re, chiedendo a entrambi di farsi accompagnare da un amico. Ai quattro uomini Lucrezia racconta la violenza subita e pretende da Collatino un giuramento: il marito doveva impegnarsi, alla presenza di testimoni – richiesti dalla donna proprio per rendere il momento più solenne – a vendicare il suo onore irrimediabilmente sporcato. Tutti e quattro le assicurano che avrà la sua vendetta, e cercano di consolarla:

Lei non ha peccato, la colpa ricade solo su Sesto, autore del gesto

“Cercano quindi di consolarla con questi argomenti: in primo luogo la colpa ricadeva solo sull’autore di quell’azione abominevole e non su di lei che ne era stata la vittima; poi non è il corpo che pecca ma la mente e quindi, se manca l’intenzione, non si può parlare di colpa. Ma lei replica: “Sta a voi stabilire quel che si merita. Quanto a me, anche se mi assolvo dalla colpa, non significa che non avrò una punizione. E da oggi in poi, più nessuna donna, dopo l’esempio di Lucrezia, vivrà nel disonore!” Afferrato il coltello che teneva nascosto sotto la veste, se lo piantò nel cuore e, piegandosi sulla ferita, cadde a terra esanime tra le urla del marito e del padre.”

Lucrezia quindi, pur riconoscendosi vittima, vuole pagare per una colpa che non ha, perché? La risposta è tutta nell’ultima frase da lei pronunciata: dopo il suo gesto nessuna donna “impura” avrebbe potuto prendere lei ad esempio.

Tutto qui (e non è poco):

Il valore dell’esempio e il suo contrario

Il suicidio di Lucrezia raffigurato nel 18° secolo

Immagine via Wikimedia Commons – licenza CC BY-SA 4.0

Un cattivo esempio crea un precedente, che può pericolosamente diffondere comportamenti immorali. Lucrezia non può sopportare l’idea che il suo corpo (e solo quello, perché la mente non era consenziente) diventi un elemento di disordine. E il suo sacrificio acquista quindi immediatamente il sapore di un anelito alla libertà: solo la sua morte rende lecito il rovesciamento di un potere violento e non rispettoso delle leggi morali di un popolo.

Uno dei testimoni, Lucio Giunio Bruto, estraendo il pugnale dal petto di Lucrezia si accolla il dovere di ribellarsi a quel potere:

“Per questo sangue, castissimo prima dell’oltraggio regio, io giuro e vi chiamo a testimoni, o dèi, che da questo momento perseguiterò Lucio Tarquinio Superbo, assieme alla sua scellerata consorte e a tutta la stirpe dei suoi figli, con il ferro, con il fuoco, con qualsiasi mezzo io possa, e che non tollererò che essi né alcun altro regni a Roma”.

Il Giuramento di Bruto

Ecco che con queste parole, di Tito Livio in realtà, nasce il grande tabù: la monarchia da allora fu vista a Roma come il male assoluto, talmente pericolosa da giustificare l’assassinio di un eroe come Giulio Cesare, accusato di volersi trasformare in tiranno.

E non sarà un caso che Tito Livio fa compiere a Marco Giunio Bruto, lontano discendente di Lucio, un gesto simile: è lui che alza verso gli dèi il pugnale sporco del sangue di Cesare, il giorno delle Idi di Marzo del 44 a.C. Il parallelismo, e l’anelito alla libertà che evoca, giustifica in un certo modo quell’atto dal sapore sacrilego.

Lo storico, repubblicano (e conservatore) convinto, scrive sì durante l’impero di Augusto, che però non si sogna nemmeno di farsi chiamare “Rex”.

Lui è il princeps, ovvero “cittadino preminente” che si è assunto il compito di rifondare la res publica

Quella Repubblica nata da uno stupro, da una violenza che innesca una reazione non prevista dal violentatore: l’assoluta volontà di una donna di avere giustizia.


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