Nell’ultimo giorno dell’anno del Signore 1501 le stanze del Vaticano echeggiano di gaie voci e di suoni festanti: Cesare e Lucrezia, in mezzo al salone, ballano una danza spagnola, e paiono disegnare, con le flessuose movenze dei loro corpi, sanguigni arabeschi.
Lei è una fiamma con quell’abito cremisi e la fronte circondata da una fila di rubini, granellini infuocati che si accendono alla luce tremula delle torce e le imporporano il viso. Sono belli, mentre ballano ridenti, falene inebriate di luce, ignari del loro precoce commiato dalla vita, di quella vita che altro non fu se non una grandiosa e fiammeggiante celebrazione del peccato.
Sono belli, conturbanti, fatali: sono i Borgia

Stirpe dannata e magnifica, di concupiscente carnalità e di appuntita crudeltà, illuminata da una luce baluginante e sinistra, ma non unica in quello smagliante Rinascimento in cui le corti italiane rappresentavano una luminosa vetrina di fasti e magnificenza, ciascuna com’era crogiuolo di artisti e fucina di cultura e raffinatezza, ma anche ambientazione ideale per vicende delittuose, usurpazioni e lotte fratricide, soprusi e violenze, alleanze sconfessate e assassini politici.
In questo scenario cupo e fastoso i Borgia si stagliarono come la famiglia più dissoluta e spietata. Lucrezia nacque nella rocca di Subiaco, vicino Roma, il 18 aprile 1480, terzogenita del cardinale spagnolo Rodrigo de Borja (poi italianizzato in Borgia) e di Vannozza Catanei, una bella e gioviale mantovana dalle forme polpute, che gestiva locande equivoche nella Città Eterna. Da lei aveva avuto anche Cesare, nato nel 1475, il primogenito (ma sulla sua progenitura alcuni storici avanzano dubbi), tigrino e crudele, poi Juan, venuto alla luce l’anno successivo, bello e vanesio e infine Jofré, docile e scevro della ferina baldanza dei fratelli maggiori: tutti e quattro perversi e lussuriosi, tutti e quattro segnati da un destino dapprima sfolgorante e poi nefasto, tutti e quattro strappati troppo presto alla vita.

Era una bambina gioiosa e soavissima, Lucrezia, dall’incarnato alabastrino e l’incantevole chioma bionda, folta e lucente, suo vanto e suo tormento, così pesante che, crescendo, le procurerà spesso violente emicranie.
Valenti precettori privati le impartirono l’apprendimento delle lingue (parlava correntemente italiano, francese, spagnolo, latino e greco), ma anche pittura, musica, danza e l’arte del verseggiare, sì che la poesia resterà sempre uno dei suoi piaceri intellettuali più intensi.

Aveva undici anni quando appare il primo pretendente alla sua mano: Juan Cherubin de Centelles, signore di Val d’Ayora, aristocratico del Regno di Valencia. Rodrigo accetta il patto di fidanzamento con quel bel giovane spagnolo, ma due mesi dopo provvede a scioglierlo a favore di Gasparo da Procida, figlio del conte di Aversa e di Almenara, per poi liquidare anche quest’ultimo con un lauto indennizzo. Lucrezia non lo sa ancora, ma è già diventata docile e inconsapevole strumento della sua famiglia, che se ne servirà in maniera sempre più tragica e fosca.
Nel luglio del 1492 muore papa Innocenzo VIII e si apre il conclave: le contrattazioni per l’elezione del nuovo pontefice sono febbrili, i condizionamenti pressanti, le promesse allettanti. Su tutti la spunta il cardinale Rodrigo Borgia il quale, astutamente, stringe alleanze, complotta accordi, convince i più reticenti, e, grazie a questo traffico simoniaco, l’11 agosto 1492 viene eletto Papa con il nome di Alessandro VI.
Lucrezia in quell’anno è ancora un’acerba fanciullina di dodici anni, ma è la figlia del Papa e le famiglie nobiliari la guardano con grande interesse quale moglie ideale per i loro rampolli: per questo il cardinale Ascanio Sforza, fratello di Ludovico il Moro, briga di dare in moglie la piccola Lucrezia a suo cugino Giovanni Sforza, signore di Pesaro e Gradara, che di anni ne aveva ventisei.

Ci riesce e il matrimonio, quel 12 giugno 1493, fu sontuoso ed opulento: Lucrezia, sposa-bambina di appena tredici anni, abbigliata con un vestito in damasco di solare chiarità e accompagnata da un corteo di 150 dame, colpì per la soavità dei modi e la maestosità dell’incedere.
Intanto gli anni passavano e la famiglia dei Borgia diventava sempre più temuta, sinistra e torva, e nelle stanze del Vaticano furono pianificati e attuati intrighi inquietanti e assassini efferati.
Il 15 Giugno 1497 la rete di un pescatore trasse dalle acque del Tevere il corpo di Juan, fratello amatissimo di Lucrezia, martoriato da nove colpi di lama; le mani erano legate, la gola squarciata. Non aveva che 21 anni.

Le urla di dolore di Alessandro VI ammutolirono Roma. «Voglio il colpevole!» gridò.
Pochi mesi dopo una luce fosca e baluginante squarciò come una sciabolata il mistero dell’assassinio di Juan; il nome del suo mandante cominciò a serpeggiare anche nelle missive e nei conciliaboli, dapprima in modo sommesso e poi, via via, sempre più assordante: Cesare Borgia, ma lui respingerà sempre con forza l’accusa di fratricidio.
Pochi giorni dopo la ferocia di quest’ultimo si abbatté contro Pedro Calderòn, detto Perotto, accusato di adulterina tresca con Lucrezia. Gelosissimo di sua sorella alla quale lo legava un rapporto morboso e malato, Cesare, incontrato Perotto nelle stanze vaticane, lo rincorse fino alla Sala del Trono; il ragazzo atterrito, si nascose sotto il manto papale, ma Cesare, senza indugio, lo trafisse.
Schizzi di sangue imporporarono il viso del Papa, il quale, ribollente di sdegno, riuscì a fermare la mano omicida di suo figlio, ma poche ore dopo il corpo di Pedro fu rinvenuto senza vita, anche lui, nelle gelide acque del Tevere.
Intanto Giovanni Sforza, marito di Lucrezia, era caduto in disgrazia agli occhi dei Borgia che volevano l’annullamento del vincolo matrimoniale con lo Sforzino (come con sarcasmo il signore di Pesaro era da loro appellato), per farne contrarre un altro a Lucrezia, più vantaggioso per loro. Montarono allora una campagna denigratoria incentrata su una sua presunta impotenza sessuale che gli avrebbe impedito di consumare il matrimonio con sua moglie Lucrezia e, nonostante Giovanni sbraitava di «haverla cognosciuta infinite volte», alla fine fu costretto a firmare e il matrimonio fu sciolto.

Per diradare i miasmi morbosi che attanagliavano l’intera famiglia, i Borgia utilizzarono ancora Lucrezia come pedina per consolidare una strategica alleanza con la casa aragonese attraverso un nuovo matrimonio: il prescelto era il bellissimo Alfonso, signore e duca di Bisceglie e figlio illegittimo del Re di Napoli Alfonso II. Gli sposi, ambedue diciottenni, ambedue incantevoli, riusciranno da subito a trasformare un’unione aridamente progettata a tavolino in un’appassionata storia d’amore. Il matrimonio fu celebrato il 21 Luglio del 1498 e sarà allietato da un maschietto cui sarà imposto il nome di Rodrigo, in onore del nonno materno, ma la felicità per la giovane coppia durò solo due anni.
Alfonso, infatti, è diventato già inviso a Cesare che, in quell’ingarbugliato scacchiere che era la politica di allora, era diventato paladino della politica filo-francese a discapito degli Aragonesi ( famiglia di appartenenza di Alfonso di Bisceglie). Il 15 Luglio 1500 Alfonso viene assalito di notte da un nugolo di figuri mascherati. La sua strenua difesa, la sua abilità con le armi e il provvidenziale intervento della Guardia Pontificia costrinsero gli assalitori alla fuga.
Vegliato con amore da Lucrezia giorno e notte, si riprese, migliorò, sorrise.
Cesare andò a trovarlo, seguito da due dei suoi sgherri, e, mentre il sinistro Miguel appoggiato ad una parete giocherellava col nastro viola della sua garrota, si avvicinò all’infermo e con la bocca attaccata al suo orecchio, gli sibilò: «Ciò che non si è fatto a desinar si farà a cena», famigerato motto della sua trista vita. Un mese dopo il duca di Bisceglie fu ritrovato strangolato, gli occhi sbarrati nel vuoto.
Lucrezia, alla vista dell’amato marito, ebbe un collasso. Non urlò, non inveì: disperata vedova di vent’anni, si chiuse nelle sue stanze rifiutando cibo e compagnia, trascorrendo ore a stringere a sé e a cullare il piccolo Rodrigo, frutto luminoso di quel tragico amore. Ma la ragion di Stato prevalse ancora una volta sulla sua volontà: non poteva morire, non doveva morire, fu deciso. Ed ella, docilmente, ancora una volta disse sì.
Suo padre e suo fratello decisero che era giunto il tempo per Lucrezia di uscire fuori dallo stato di vedovanza e contrarre un nuovo vincolo matrimoniale, dacché per i Borgia era necessario stipulare una nuova intesa con un’altra potente famiglia.
Per Lucrezia, insomma, pedina sottomessa, talvolta vittima innocente, tal altra complice acquiescente delle loro infamie, erano pronte nuove nozze.
Il prescelto era un altro Alfonso, appartenente ad una delle più rifulgenti dinastie italiane, gli Estensi di Ferrara. Febbrili, lunghe e puntigliose contrattazioni si svolsero tra le due famiglie, ma a convincere sia il futuro marito che il di lui padre, il taccagno Ercole che governava la città estense, fu la dote che Lucrezia portava in dono: le città di Cento e di Pieve, il porto di Recanati, centomila ducati in contanti, l’abolizione del censo annuo che Ferrara tributava al Papa, nonché l’Arcipresbiteriato di San Pietro per uno dei fratelli di Alfonso, Ippolito, il famoso cardinale d’Este, cui l’Ariosto dedicherà l’Orlando Furioso. E inoltre gioielli magnifici, purosangue dai preziosissimi finimenti, quadri e sculture di pregiatissima fattura, pezze intere di tela d’oro, 50 abiti di broccato e di velluto, altrettanti di seta e 70 di morbidissima lana. Quando Lucrezia arrivò a Ferrara, la seguivano 200 cavalieri, decine di variopinte e leggiadre damigelle di corte e 150 carri contenenti bagagli e suppellettili.
Diventata duchessa di quella nobile città, assurse al ruolo di una delle donne più famose ed influenti del nostro Rinascimento. In quella raffinata corte si contornò di letterati e poeti (Ercole Strozzi e Ludovico Ariosto erano di casa), intrecciò versi leggiadri e sguardi d’amore con Pietro Bembo, il più soave dei verseggiatori, s’accese di una insana e pericolosa passione per suo cognato Francesco Gonzaga, signore di Mantova e marito della vendicativa Isabella (sorella di suo marito Alfonso), ma subì poco a poco una trasformazione vistosa e meravigliosa.

La nascita di ben sei figli (Alessandro morto un mese dopo la nascita, Ercole, che succederà al padre, Ippolito, il cardinale che farà costruire la splendida Villa d’Este a Tivoli, e poi un altro Alessandro perito a due anni, Eleonora e Francesco), la serenità raggiunta accanto al marito Alfonso, le letture umanistiche e mistiche cui assiduamente si dedicò, la trasmutarono in una creatura profonda, sensibile e irradiante una luminosa spiritualità.
Si iscrisse al terzo ordine francescano e la sua maturità di donna fu connotata dalla frequenza assidua di monasteri, da una fede intensamente vissuta, da riconosciute opere pie, e c’è chi parla di una vera e sentita conversione.

Nel giugno 1519 Lucrezia partorisce una bambina prematura e gracile che viene battezzata in fretta con il nome di Isabella e che muore poco dopo la nascita. Anche Lucrezia sta male. Appare prostrata, respira a fatica: quel parto (il nono complessivo per lei) è stato difficile più di tutti i precedenti e l’ha sfinita. E la fine avanza strisciando: perde prima la vista e la capacità di intendere, poi l’udito. Alfonso le è accanto, disperato.
Lucrezia Borgia, duchessa di Ferrara, morì in quel luminescente 24 giugno 1519, a trentanove anni, senza un gemito, senza un fremito, come se la sua dipartita in punta di piedi volesse bilanciare la sua vita, sgargiante e gridata.
Sotto le vesti le fu trovato il cilicio.
Il racconto dell’autrice dell’articolo è tratto dal suo libro “Le Magnifiche”, pubblicato per Piemme-Mondadori disponibile su Amazon: