È l’Epifania dell’anno 1537. Cala l’oscurità; i letti di Firenze si popolano. In via Larga numero 3 (oggi via Cavour), nel Palazzo de’ Medici, riecheggia il silenzio e Alessandro, signore della città, dorme in quella che sembra una notte come tante, ma non è così. Dall’uscio compaiono due ombre che gli si avvicinano, lo svegliano e lo aggrediscono. Uno di loro estrae un pugnale, l’altro la spada. Alessandro lotta, si dimena, prova a reagire a quel rapido susseguirsi di affondi. In una fredda notte di gennaio, infine, il suo cadavere giace inerme fra lenzuola intrise di sangue.
Il tiranno è morto; giustizia è fatta
Ma chi sono i due uomini che hanno aggredito e ucciso Alessandro? Per svelare il mistero, partiamo da principio.

Il contesto storico
Nella prima metà del Cinquecento, la famiglia de’ Medici fu protagonista di una serie di eventi legati alla figura di Clemente VII de’ Medici, figlio del Giuliano assassinato durante la Congiura dei Pazzi e pontefice dal 1523. Il suo mandato ecclesiastico fu molto controverso. Dapprincipio, si oppose a Enrico VIII, desideroso di annullare il matrimonio con Caterina d’Aragona per sposare Anna Bolena – evento che, di fatto, sancì lo Scisma anglicano – poi interferì senza successo nella faida tra Francesco I di Francia e Carlo V d’Asburgo, imperatore del Sacro Romano Impero.

Nei suoi piani, il papa desiderava la fine delle ostilità fra i regnanti cristiani per favorire la coesione europea contro la crescente minaccia ottomana di Solimano il Magnifico. Convincerli a seppellire l’ascia di guerra e far fronte comune si rivelò un compito più arduo del previsto e, nella speranza di spingere Carlo a trattare con Francesco, si schierò al fianco di quest’ultimo nella Guerra della Lega di Cognac.

Nonostante l’opposizione papale, Carlo fece orecchie da mercante e le schermaglie sul suolo italico proseguirono senza sosta, finché, il 5 maggio del 1527, l’esercito del Sacro Romano Impero, ormai fiaccato da una campagna protrattasi troppo a lungo, giunse alle porte di Roma. A causa delle tante battaglie affrontate e in virtù di una fine che sembrava non arrivare, ogni gerarchia militare era stata stravolta e fra i soldati vigeva l’anarchia. Le milizie più pericolose dell’esercito imperiale erano i Lanzichenecchi, mercenari di fanteria di fede luterana che, desiderosi di accelerare il ritorno a casa e senza alcun ordine dall’alto, procedettero a una grande offensiva nei confronti di Roma, simbolo di quella Chiesa Cattolica che tanto avversavano. Con Carlo all’oscuro di tutto, l’attacco ebbe inizio il 6 maggio e fu un evento di singolare crudeltà. I Lanzichenecchi non si limitarono a conquistare la città, ma si resero protagonisti di oltraggiosi episodi di violenze e razzie.

Inizialmente, Clemente riuscì a nascondersi e a sottrarsi alla furia dei mercenari, ma il successivo 5 giugno fu fatto prigioniero e costretto a trattare la resa. Con la fine delle ostilità, Carlo cercò di fare ammenda e guadagnarsi il perdono del pontefice, ferito nell’orgoglio dalla gravità dell’evento. La Pace di Barcellona, del 29 giugno del 1529, sancì la riconciliazione e il papa sollevò il sovrano dalla responsabilità dell’episodio. In virtù degli accordi stabiliti, Carlo fu ufficialmente incoronato a Bologna il 24 febbraio del 1530; in cambio, su richiesta di Clemente, spedì il suo esercito a Firenze, dove l’istituzione della Repubblica aveva, di fatto, esautorato la famiglia de’ Medici dagli affari politici.

L’assedio durò fino al 12 agosto, quando i rappresentanti delle due fazioni firmarono la resa e Alessandro de’ Medici, detto il Moro per via della sua carnagione olivastra, fu posto a capo della città.

Alessandro de’ Medici
Nato il 22 luglio del 1510, il nuovo signore di Firenze era il figlio illegittimo, poi riconosciuto, di Lorenzo II de’ Medici, nipote del Magnifico, ma, già all’epoca, in molti ipotizzavano che, in realtà, suo padre non fosse altri che Clemente VII. Quando gli fu consegnata, de iure, Firenze era ancora una repubblica; de facto, Alessandro non disdegnò di scavalcare le istituzioni e governare da despota, guadagnandosi la fama di tiranno assetato di sangue. Negli anni della sua signoria, la città divenne il teatro di soprusi e sregolatezze e vide l’esodo di tutti i repubblicani che, per sottrarsi alle feroci persecuzioni dei dissidenti politici, migrarono altrove e organizzarono un movimento anti-mediceo. Le ambizioni degli esuli fiorentini si concretizzarono nella notte fra il 6 e il 7 gennaio del 1537, quando Lorenzino de’ Medici assassinò suo cugino Alessandro; tuttavia, la città passò nelle mani di Cosimo I, un tiranno ancora più spietato.

I primi anni di Lorenzino
Lorenzo de’ Medici, soprannominato Lorenzino per via del suo fisico mingherlino, nacque a Firenze il 22 marzo del 1514, da Pierfrancesco il Giovane e Maria Soderini. In quanto esponente del ramo popolano della nobile famiglia toscana, crebbe con sua madre, il fratello minore e le due sorelle nella villa del Trebbio, una storica dimora sita nella provincia fiorentina.

Quando morì, nel 1525, suo padre lasciò in eredità un patrimonio dilapidato e una situazione economica instabile, elementi che contribuirono a rendere l’infanzia del figlio travagliata. Lorenzino fu posto sotto la custodia di Clemente VII, all’epoca capofamiglia dei Medici, che gli garantì un’ottima istruzione. Un anno prima del Sacco di Roma, tutti i rampolli dei Medici furono allontanati da Firenze, per prevenire eventuali attacchi dei Lanzichenecchi, e il giovane si trasferì prima a Venezia, poi a Roma nel 1530. Pur godendo della protezione dell’illustre zio pontefice, nella capitale iniziò a palesare il suo carattere ribelle e irrequieto quando, nel 1534, si rese protagonista di un grave atto di vandalismo: mutilò alcune teste delle statue antiche dell’Arco di Costantino. L’episodio scatenò l’ira del papa, che ordinò di trovare il colpevole e impiccarlo senza processo. Lorenzino fu presto scoperto, ma l’intervento di suo cugino Ippolito de’ Medici, cardinale e altro membro influente della famiglia, lo salvò dalla forca.

Le motivazioni del gesto sono tutt’oggi sconosciute. Lorenzino, all’epoca ventenne, era un ragazzo colto, amante della filosofia e degli eroi antichi; perciò si potrebbe dedurre che fu mosso dal desiderio di impossessarsi di una parte di quelle opere antiche o, in un eccesso di mitomania, che volesse emulare il gesto di Alcibiade, a cui era stata attribuita la mutilazione di alcune statue alla viglia della spedizione ateniese in Sicilia nel IV secolo a.C. A queste ipotesi vanno aggiunte quelle di natura personale, che vedono Lorenzino, un de’ Medici popolano il cui padre aveva sperperato tutti i loro soldi, invidioso delle ricchezze e del prestigio del papa.

Dopo l’atto vandalico, la sua notorietà crebbe a dismisura e si guadagnò il soprannome poco lusinghiero di Lorenzaccio. Nel frattempo, l’intercessione di Ippolito aveva placato la furia di Clemente, ma il gesto gli valse comunque una disonorevole cacciata da Roma. Nel 1534, quindi, si recò a Firenze, al cospetto di suo cugino Alessandro.

La congiura
I due rampolli medicei legarono subito e divennero compagni di scorribande amorose, rendendosi protagonisti di innumerevoli episodi libertini. Mentre le case e le donne fiorentine erano testimoni delle loro avventure “galanti”, Alessandro rafforzò il proprio legame con Carlo V e ne sposò la figlia Margherita il 13 giugno del 1536.

Nello stesso anno, il genero dell’imperatore si schierò contro il cugino in un’annosa lite patrimoniale creatasi fra i discendenti di Pierfrancesco il Vecchio, suo bisnonno, e gli procurò un ingente danno economico.

Non sappiamo se l’episodio fomentò o meno la congiura, ma pochi mesi dopo, la sera del 6 gennaio del 1537, Lorenzino attirò Alessandro nei suoi alloggi privati e si allontanò con la promessa di tornare in compagnia di una giovane fanciulla che gli avrebbe allietato la serata. Alessandro obbedì, congedò le guardie personali e attese, ma, al calar della notte, si addormentò sul letto del cugino, che, intuendo il momento propizio, fece irruzione con un suo servitore, tale Piero di Giovannabate, e procedette all’aggressione.
Così come Bruto con Cesare, anche Lorenzino offrì ad Alessandro le sue Idi di Marzo

I possibili moventi
Pochi giorni dopo il delitto, Lorenzino scrisse l’Apologia, un testo in cui rivendicò le ragioni del suo gesto, proclamandosi fautore della Repubblica fiorentina e nemico di Alessandro, descritto come un tiranno avverso agli ideali di libertà e giustizia. Nonostante ciò, il movente alla base della congiura è tutt’oggi fonte di dibattito. Non è chiaro l’esatto momento in cui Lorenzino abbia iniziato a maturare l’astio nei confronti di Alessandro e l’unico attrito fra i due di cui abbiamo notizia è la questione della disputa patrimoniale. Dall’Apologia, il giovane de’ Medici palesa una sorta di vena mitomane, già nota ai tempi della mutilazione delle statue romane, e lascia trasparire la sua volontà di ergersi al di sopra della natura popolana del suo sangue fino a entrare nelle pagine di storia, emulando, appunto, la congiura di Bruto ai danni di Cesare.

Secondo alcuni storici, Lorenzino odiava Alessandro fin dal principio e si era finto suo amico al solo scopo di ucciderlo. Se da un lato vi è la premeditazione di stampo politico, ovvero l’evoluzione naturale dei suoi sentimenti repubblicani e antimedicei, rafforzati dal diniego di quell’interferenza straniera che aveva portato Alessandro al potere attraverso Carlo V, altri studiosi hanno ipotizzato che la congiura fu ordita all’indomani della morte di Ippolito. Appena venticinquenne, il giovane cardinale fu stroncato dalla malaria nel 1535, ma la sua scomparsa destò grandi sospetti. Prima del Sacco di Roma, lui e Alessandro erano i probabili candidati alla signoria di Firenze; tuttavia, gli accordi fra Carlo e Clemente lo avevano esautorato dalla corsa alla successione. In virtù di ciò, Ippolito era avverso ad Alessandro e, dando adito alle voci dell’epoca, in realtà, fu quest’ultimo a farlo assassinare. Proprio come Lorenzino, anche Ippolito era a favorevole alla Repubblica fiorentina e alla cacciata del ramo principale dei Medici; perciò non è da escludere che la sua morte possa aver quantomeno incoraggiato la messa in atto della congiura.

Tralasciando l’impossibilità di stabilire con esattezza i retroscena dell’omicidio, Alessandro era visto come un tiranno e Lorenzino compì un gesto che, almeno in teoria, riuscì a liberare Firenze e perorare la causa repubblicana. Nei fatti, la sua morte non sortì l’effetto sperato. Con la scomparsa di Clemente VII nel 1534 prima, e quella di Alessandro poi, il ramo principale dei Medici si estinse e salì al potere Cosimo I, che governò con un pugno di ferro molto più serrato di quello del suo predecessore.

La fuga e la morte
A omicidio compiuto, Lorenzino montò a cavallo, abbandonò Firenze insieme al suo complice e fuggì a Venezia, dove Filippo Strozzi lo accolse in trionfo. Strozzi era un ricchissimo banchiere fiorentino giunto nella Serenissima dopo essersi auto-esiliato in seguito all’insediamento di Alessandro. In quanto leader degli esuli fiorenti, si accollò la responsabilità di salvaguardare la vita di Lorenzino e lo istruì su come sottrarsi a eventuali rappresaglie. Seguendone i consigli, il giovane de’ Medici si spostò nella provincia di Modena, nella dimora di Galeotto II Pico, signore di Mirandola, dopodiché abbandonò l’Italia e salpò per Costantinopoli il 16 febbraio del 1537.

In Oriente, svolse un ruolo diplomatico presso la corte di Solimano il Magnifico per conto di Francesco I, ma, nel frattempo, in Italia il suo gesto aveva infervorato gli animi degli antimedicei, che, desiderosi di ristabilire la democrazia a Firenze, decisero di passare all’azione. Spalleggiato dalla corte di Parigi, il cui sovrano sperava di poter imporre la propria influenza sulla capitale toscana, Strozzi radunò un esercito a spese degli esuli e marciò su Firenze. La lotta fra le due fazioni culminò nella Battaglia di Montemurlo, che il 2 agosto del 1537 vide la vittoria delle truppe di Cosimo I.

Strozzi fu fatto prigioniero e il rivale non mancò di torturarlo per piegarne l’animo rivoluzionario. In via ufficiale, morì suicida il 18 dicembre del 1538, nella fortezza fiorentina di San Giovanni Battista, ma non è da escludere che, in realtà, furono i sicari di Cosimo I a porre fine alla sua esistenza, se non lui stesso. Con l’uscita di scena del banchiere, tutte le speranze dei repubblicani sfumarono e Lorenzino rimase senza il suo influente protettore. Nel tentativo di eludere la caccia all’uomo ordinata da Carlo e Cosimo, si recò in Francia come ospite di Francesco I. Proprio come ai tempi del Sacco di Roma, il monarca era ancora ostile all’imperatore, alleato della Firenze medicea, e sfruttò il giovane come inviato diplomatico in Italia.

Da febbraio a luglio del 1542, viaggiò più volte nella penisola, per fare da tramite con ciò che restava degli esuli repubblicani e informarli sull’eventualità di una futura spedizione militare contro Firenze. Nel 1544, tornò in pianta stabile a Venezia, ma, rispetto al suo precedente soggiorno, la città lagunare straripava di spie al soldo di Cosimo I e Carlo V. All’alba del 1547, la situazione si complicò ulteriormente e tutti gli esuli fiorentini dovettero abbandonare l’Italia per rifugiarsi in Francia. Lorenzino non seguì l’esempio dei compagni e, il 26 febbraio del 1548, due sicari gli tesero un’imboscata.

All’epoca, l’attentato fu attribuito a Cosimo I, intenzionato a sbarazzarsi di quello scomodo consanguineo che si era innalzato a eroe dei repubblicani, ma recenti studi condotti dal professor Stefano Dall’Aglio, ricercatore presso l’Università di Venezia, hanno palesato la sua estraneità dalla vicenda e fatto luce sul vero mandante. In realtà, furono le spie imperiali a rintracciare Lorenzino e informare Carlo, che, per vendicare la morte del genero, commissionò l’attentato a Juan Hurtado de Mendoza, suo ambasciatore a Venezia.

Dopo aver tradito la sua famiglia, assassinato un parente e aver perorato la causa repubblicana di Firenze, la storia di Lorenzino, detto Lorenzaccio, finì nello stesso modo in cui anni addietro era iniziata la sua fama da tirannicida.

Siamo nel campo di San Giovanni e Paolo. Due sicari escono dall’ombra, estraggono i pugnali e a sangue freddo uccidono l’obiettivo dell’agguato, che giace con gli occhi spalancati in una pozza di sangue.
