Lo strano caso di Sarah e Sally Metyard: madre e figlia Assassine

Uno dei più appassionanti romanzi che il lettore in cerca contemporaneamente di emozioni forti e di buona narrativa può leggere in questo periodo è sicuramente “Il filo avvelenato”. È un’opera di Laura Purcell, l’ex libraia inglese dall’aspetto dolce e mite che si è rivelata una straordinaria autrice di opere dalla robusta ambientazione storica (per di più ottocentesca), puntualmente incentrate su vicende che si muovono sul filo tra giallo e horror.

Contrariamente a quanto sostengono tutti quelli che vorrebbero far passare la propria ristrettezza di vedute per una forma di raffinatezza, spesso questi romanzi “di genere” considerati di “puro intrattenimento” hanno il coraggio di affrontare temi che nessun altro si sognerebbe mai di proporre a un lettore generico, non precedentemente selezionato. Come afferma Piero Dorfles in “Il lavoro del lettore”, un tempo si leggevano questi libri per evadere dalla realtà, mentre oggi sono pressoché gli unici a metterti davanti alla realtà.

“Il filo avvelenato” ne è un esempio paradigmatico perché, intorno alle vicende (che non racconteremo, perché è un libro da leggere e il gusto della sua lettura non va guastato con troppi spoiler) della benintenzionata signorina Dorothea Truelove che si ingegna in tutti i modi a salvare almeno l’anima della torva criminale adolescente Ruth Butterham, si muove un mondo ricostruito con chirurgica precisione, quello dell’Inghilterra tra il 1830 e il 1840, nel pieno della Rivoluzione Industriale, quando il concetto di “diritti” era molto diverso da quello attuale e il più feroce classismo dominava in tutti i rapporti tra gli individui, determinando situazioni di abominevole sopruso, che avrebbero dovuto aspettere ancora qualche decennio, prima di essere denunciate con veemenza da Marx e Engels (nel “Capitale” ci sono precisi riferimenti alle stesse situazioni descritte nel romanzo).

Nella postfazione, la Purcell racconta di aver preso spunto, per almeno una parte della trama, da una vicenda criminale particolarmente atroce, risalente però al secolo precedente. Questa è una tipica (e, anzi, per certi versi raccomandabile) tecnica narrativa, quella di partire da un fatto realmente accaduto e di costruirci sopra una trama assolutamente indipendente. Così sono nati capolavori della Letteratura universale come “Madame Bovary”, “Anna Karenina”, “Effi Briest”, “L’affare dell’alfiere Elaghin”, classici del giallo come “L’enorme ingranaggio” o “Il processo Bellamy” e anche opere che fanno parte a pieno titolo di entrambe le categorie, come “Quer pasticciaccio brutto de via Merulana”.

Di questa vicenda criminale scrisse, molto tempo fa, in “Coppie assassine”, anche Cinzia Tani e chi ha letto questo libro può averla facilmente riconosciuta nella trama della Purcell, per la presenza di alcuni cognomi che non lasciano adito a dubbi, sono delle vere e proprie citazioni.

Per chi non l’ha letto, la ricostruiamo adesso.

Siamo nell’East End di Londra, ossia nell’area più malfamata tra quelle a ridosso della City. Tuttavia, è il 1758 e la pessima fama dell’East End non ha ancora raggiunto i livelli che toccherà nel secolo successivo. In una casa di Bruton Street abitano due donne piuttosto benestanti, madre e figlia, che si assomigliano quasi come due gocce d’acqua, entrambe bionde, di carnagione chiarissima e corporatura snella.

La madre, Sarah Metyard, nata nel 1718, è la vedova di un commerciante di stoffe, Samuel, che nella primavera del 1750 è morto improvvisamente in circostanze che, di questi tempi, farebbero sorgere più di un sospetto, ma non allora, quando era dato per scontato che la gente potesse andarsene da un momento all’altro per le più svariate ragioni.

Sarah Metyard si è sposata per essere mantenuta e viziata dal marito, che finché è vissuto lo ha sempre fatto, il che non le ha impedito di prendersi tutti gli amanti che voleva. Pare infatti che il marito sia morto per un colpo apoplettico che gli è preso proprio sorprendendola a letto con il lattaio. Una delle cose che danno più fastidio a Sarah è doversi occupare dell’unica figlia, Sarah Morgan Metyard, detta Sally, nata nel 1743. La bambina ha solo sette anni quando muore il padre (e probabilmente assiste alla scena): la madre, ora che è costretta a lavorare per mantenersi, anziché preoccuparsi di far subire alla figlia il minimo contraccolpo possibile, la ritira dalla scuola e la obbliga ad aiutarla.

Poiché si intende parecchio di sartoria e il marito le ha lasciato un negozio di stoffe ben avviato, Sarah apre un’attività di modista che ha un buon successo. Siamo infatti in tempi in cui è ancora frequente che le donne benestanti si mantengano tramite un’attività imprenditoriale. Solo più tardi, man mano che procede la Rivoluzione Industriale, la donna borghese diventerà uno status symbol, l’“angelo del focolare”, e il suo ruolo nella vita civile sarà drasticamente ridimensionato, come afferma la studiosa femminista Sheila Rowbotham nel libro “Esclusa dalla Storia”.

Però questo significa anche che Sally è costretta a passare tutte le sue giornate cucendo e ricamando, presa a cinghiate per la minima mancanza e senza nessuna possibilità di avere amicizie o una vita propria. A forza di subire questo trattamento, crescendo, Sally diventa dura e cinica quasi quanto la madre.

Sono tempi in cui non esistono servizi pubblici che si occupino dei poveri, degli orfani e degli invalidi. Ci sarebbe la carità privata, molto incoraggiata dai pulpiti religiosi, ma praticata sempre in modo peloso e ipocrita. Ogni “benefattore” ha sempre un doppio fine e, anche quando la carità è davvero disinteressata, passa attraverso intermediari voracissimi e privi del minimo scrupolo. Qualche decennio dopo, Charlotte Brontë racconterà la sua agghiacciante esperienza diretta in una scuola sovvenzionata da donazioni filantropiche, nei primi, strazianti capitoli di “Jane Eyre”. Soprattutto i bambini degli orfanotrofi e dei brefotrofi, quei pochi che sopravvivono alle terribili condizioni in cui sono tenuti, appena raggiungono l’età per essere abili a svolgere un qualsiasi lavoro, diventano una merce di scambio estremamente ambita. Da un lato c’è la mentalità ottusa e retrograda per cui il giovane va educato all’obbedienza e tenuto occupato per tutto il tempo perché non gliene resti per dedicarsi ai “vizi”. Dall’altro, c’è la rapacità di “imprenditori” che non perdono occasione di procurarsi, in modi leciti o illeciti, nuovi schiavi da sfruttare senza nemmeno l’impegno di pagarli. Quando Balzac, tempo dopo, scriverà una frase memorabile, “Dietro ogni grande fortuna, c’è un crimine”, la sua sarà un’approssimazione per difetto: la regola è che ogni grande fortuna nasconda molti crimini.

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Eppure questi bambini spremuti come limoni che non di rado muoiono di inedia o di sfruttamento non sono neanche i più sfortunati. Quelli che sfuggono a questo sistema e diventano vagabondi rischiano la vita ogni momento. Il vagabondaggio è un grave illecito penale e gli sceriffi (non esiste ancora un vero servizio di polizia, quello di Scotland Yard che farà da modello agli altri risale al 1827) possono tranquillamente uccidere i vagabondi senza alcuna conseguenza. Oppure arrestarli, il che è lo stesso, visto che vengono sistematicamente processati per furto, reato che a quel tempo prevede la pena capitale se il valore della refurtiva supera i 40 pence (il costo di un fazzoletto). Arthur Koestler, nelle sue “Riflessioni sull’impiccagione”, citerà cronache settecentesche che parlano di bambini di sette anni in fila davanti alla forca per essere impiccati.

Dunque, è probabile che Sarah Metyard si senta addirittura una benefattrice, una donna virtuosissima, quando nel 1758 accetta di prendere in casa cinque ragazze adolescenti come apprendiste. Gliele ha mandate l’orfanotrofio, e il fatto che non siano tanto piccole lascia aperta la possibilità che non siano state sempre orfane o che siano state abbandonate dai genitori costretti a darsi alla macchia per evitare di essere incarcerati per debiti. Perché, quando non si è benestanti, esiste anche questo pericolo: le carceri in cui sono rinchiusi i debitori insolventi sono inferni dai quali raramente si esce vivi.

A quali condizioni lavoravano le apprendiste di quel tempo? Dure, durissime. Se fossero state costrette solo a sgobbare dall’alba al tramonto la cosa avrebbe avuto anche un senso. In realtà cominciavano prima dell’alba e finivano, quando finivano, ben oltre il tramonto. Svolgevano gran parte del lavoro, che richiedeva un occhio particolare, in condizioni di luce piuttosto scarsa, per lo più illuminate da lampade su cui c’era una candela circondata da ampolle piene d’acqua, che avrebbero dovuto amplificare la luce. Spesso sviluppavano problemi di vista. A forza di stare chine sul lavoro soffrivano moltissimo con la schiena. Mangiavano poco e male. Riposavano, quel poco che potevano, in seminterrati umidi e gelidi o in soffitte che a seconda della stagione potevano essere gelide o arroventate. Le padrone avevano la massima libertà nello stabilire le punizioni da infliggere in caso di errori o mancanze: bastonature, frustate e altre torture erano all’ordine del giorno.

Il peggiore incubo per le apprendiste si materializzava quando c’era da preparare il corredo per una sposa o gli abiti per un ballo di debuttanti, perché significava svolgere un lavoro molto complesso in pochissimo tempo. Dietro la facciata delle cerimonie sfarzose e del lusso senza fine c’era sempre lo sfruttamento e la sofferenza di chi aveva dovuto realizzare materialmente ogni singolo oggetto. Le signorine benestanti che in negozio facevano i capricci perché questa o quella sfumatura di tessuto alla moda non era quella che pretendevano loro, ignoravano o fingevano di ignorare quanto accadeva nel retrobottega.

Sono riportati casi documentati di apprendiste morte per la fatica di approntare gli abiti per un ballo di debuttanti. Più apprendiste per un solo ballo. Del resto, erano ragazze senza famiglia, di cui non importava nulla a nessuno. Secondo i moralisti, anzi, era meglio che morissero così, ancora “pure”, senza essere state “toccate dal vizio”. Le padrone non avevano mai problemi a rimpiazzarle.

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A soffrirne maggiormente, peraltro, erano le più fragili, quelle fisicamente meno adatte a un tale regime di sfruttamento.

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Avviene così anche tra le orfanelle affidate a Sarah Metyard. Tra loro ci sono due sorelle, Susan e Anne Naylor. La minore, Anne, è una ragazza gracile, di salute malferma, che non riesce a mantenere gli stessi ritmi che la padrona impone alle altre. Per Sarah Metyard la debolezza di Anne è un affronto personale: non gliene fa passare liscia nessuna, ogni scusa è buona per frustarla, bastonarla, chiuderla in uno sgabuzzino, negarle il cibo. Se qualcuno le fa notare che forse sta esagerando, risponde che la ragazza è una ribelle e lei ha il dovere di “domarla”.

La situazione precipita improvvisamente quando la sorella maggiore, Susan, compie ventun anni e si ritrova libera di andarsene, cosa che fa senza perdere tempo. Prima di essere condotta (o costretta) a fare l’apprendista dalla Metyard, aveva un ragazzo. Torna da lui e si sposano.

Susan è fuori, ma per Anne l’inferno diventa insopportabile, ora che non c’è nemmeno la sorella a darle conforto. Un giorno la disperazione la induce a un gesto estremo. Finge di essersi ferita e di avere bisogno di lavarsi le mani. Mentre tutte le altre, comprese le Metyard, sono impegnate nel lavoro, nessuna si accorge che Anne, anziché infilarsi nell’interno, è andata dal lato della casa dove si apre il negozio. In quel momento, non ci sono clienti e la porta non è chiusa a chiave. Anne esce all’esterno e scappa via.

Non fa molta strada, anche perché non sa dove andare. Ingenuamente, vedendo un uomo dall’aspetto vagamente familiare, si rivolge a lui chiedendo aiuto. L’uomo è un lattaio, lo stesso che rifornisce casa Metyard e che era a letto con Sarah Metyard quando Samuel li sorprese… e poi morì. Il lattaio resta immobile, come se non capisse ciò che sta spiegando Anne. Intanto, però, arriva anche Sally, che si è accorta della scomparsa di Anne ed è uscita a cercarla. Mentre l’uomo continua a guardare senza fare nulla, Sally afferra Anne e la trascina a forza verso la casa.

Sarah Metyard sta aspettando furiosa la piccola “ribelle”. Appena entrata, la porta in uno stanzino. Qui, madre e figlia picchiano la ragazza con dei manici di scopa, finché Anne perde conoscenza.

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Prima che si riprenda, le legano le mani dietro la schiena. Appena si riprende, la attaccano per i polsi alla maniglia di una porta, in una posizione tale che non può stare né in piedi, né seduta.

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Resterà legata così per tre giorni, durante i quali non riceverà nulla da mangiare né da bere. Le altre apprendiste, che lavorano dall’altro lato della porta, la sentono lamentarsi e piangere ma non fanno nulla perché temono di subire lo stesso trattamento.

Alla fine del terzo giorno, quando le altre sono già andate a dormire in soffitta, Anne viene finalmente liberata. Sarah Metyard le ordina di raggiungere le altre a letto.

Invece, all’alba del giorno seguente, scendendo per cominciare la giornata, le altre la trovano esanime in mezzo alle scale. Chiamano Sally, che la prende a calci, ma Anne non reagisce. Allora Sarah le manda al lavoro e dice che ci penserà lei a farla rinvenire.

Purtroppo l’unico che sarebbe in grado di farla rinvenire è finito inchiodato a una croce oltre diciassette secoli prima. Anne è morta e Sarah lo sa benissimo, ma ha bisogno che non ci siano testimoni, ora che deve far sparire il corpo. Inizialmente lei e la figlia lo lasciano in un ripostiglio del solaio. Dicono alle altre ragazze che Anne è ancora in punizione. Per tre giorni fingono di portarle i pasti mentre le altre lavorano. Però il corpo comincia a decomporsi e a puzzare, così lo chiudono in un baule. La sera stessa mandano una delle altre ragazze a chiamarla per la cena. Quando la ragazza torna giù dicendo di non averla vista, indicano la porta che hanno lasciato socchiusa e gridano che è scappata di nuovo.

Questa sarà la versione ufficiale.

Ma le cose si complicano inaspettatamente. Susan, la sorella di Anne, si è sistemata e vuole andare a riprendersela. Quando si presenta, Sally le risponde che Anne è scappata via e non sanno dove sia.

Susan non ci crede, anche perché la sorella, in caso di fuga, sarebbe andata da lei. Chiede ai vicini, e questi riferiscono che sì, una volta è scappata, ma poi Sally l’ha riportata a forza dentro.

Susan non demorde. Aspetta un giorno che le due Metyard vadano a fare la spesa al mercato e si ripresenta. Le apre una delle apprendiste che la riconosce subito. Susan dice di aver dimenticato qualcosa l’altra volta che è venuta e la fanno entrare senza problemi.

Quando arriva nella stanza in cui dormiva la sorella, nel solaio, capisce subito che qualcosa non va. In un angolo ci sono l’abito e le scarpe di Anne. Ora, in una casa come quella, piena di abiti, è anche possibile che Anne ne abbia preso un migliore prima di andarsene: ma che senso avrebbe avuto, scappare lasciando lì il proprio unico paio di scarpe?

Susan aspetta il ritorno delle Metyard e le affronta a muso duro. Le due donne non si scompongono e le rispondono che possono darle qualsiasi spiegazione, se le accompagna nella stanza di Anne. Ossia lontano dagli occhi delle apprendiste, ma Susan non si rende conto di questa implicazione e le segue.

La scena che segue, al lettore moderno, sa tanto di déjà vu. Qualcosa che già ha visto succedere altre volte. Per esempio, ad Avetrana il 26 agosto 2010.

Appena si sono chiuse la porta alle spalle, mentre Susan indica loro le scarpe della sorella, Sally le va dietro e le immobilizza le braccia, mentre Sarah le salta al collo e la strangola.

Il corpo di Susan finisce nello stesso baule in cui è già quello di Anne. Per fortuna delle Metyard, Susan si è mossa in gran segreto e, anche quando ne viene segnalata la scomparsa, nessuno va a cercarla lì. Ma due cadaveri puzzano più di uno e non è più possibile tenerli in casa.

Nella notte di Natale del 1758, messe a letto le apprendiste, madre e figlia tagliano i corpi a pezzi e cercano di bruciarli nel camino. Però la puzza di carne bruciata è ancora più forte di quella di carne putrefatta, allora cambiano sistema. Infilano i resti sanguinolenti in grossi sacchi e li trascinano fino alla fogna più vicina. Non possono infilarceli dentro, dato che c’è un muretto davanti, quindi si limitano a lanciarli, senza rendersi conto che resteranno bloccati dalla grata che sta davanti alla fogna.

Infatti, poco dopo che sono andate via, un guardiano notturno di passaggio nota i sacchi sulla grata e va a vedere cosa contengano. Riconosce dei resti umani e corre a chiamare il poliziotto di ronda. Questo esamina sommariamente i resti, stabilisce che si tratta di cadaveri rubati al cimitero per venderli a qualche chirurgo o a qualche studente (una prassi molto comune a quel tempo) e, senza scomodare altra gente, dispone che vengano seppelliti di nuovo.

Le Metyard l’hanno fatta franca, ma non durerà a lungo.

Ai primi del 1762, Sarah Metyard prende in casa un giovane ma facoltoso pensionante, Charles Rooker, che però dopo qualche mese decide di tornare a vivere dai genitori. La ragione è che non sopporta più il modo in cui Sarah brutalizza sia le apprendiste sia la figlia. Poiché le apprendiste sono abbrutite dalle privazioni e dalla miseria, a colpirlo è stata più di tutte Sally, che gli appare come una vittima di quella megera della madre. Andando via, Charles propone a Sally di seguirlo per diventare la sua cameriera. Sally accetta subito e lascia la madre, ignorando le minacce e le aggressioni di questa, che continua a percuoterla finché la ragazza non è finalmente fuori casa.

Da quel momento Sarah sembra non avere pace. Si presenta davanti casa dei Rooker pretendendo di vedere la figlia e, poiché i Rooker non si sognano neanche di aprirle, resta a lungo in strada gridando ogni sorta di insulti.

Intanto, Sally è diventata l’amante di Charles, al quale non va più di infliggere la presenza di Sarah ai propri genitori. Quindi Charles prende Sally e se la porta a vivere a Ealing, una decina di km più a Ovest. Saranno tre ore a piedi da Bruton Street, ma Sarah scopre lo stesso il nuovo indirizzo della figlia e riprende a presentarsi e a gridargliene di tutti i colori.

Finché, approfittando di un’assenza di Charles, Sarah riesce a entrare in casa. Quando si ritira, Charles sorprende madre e figlia che si accapigliano e si gridano minacce terribili, contenenti riferimenti a degli assassinii. Per di più, le due tacciono di colpo appena lo vedono, anzi Sarah va subito via.

Insospettito, Charles chiede insistentemente a Sally cosa significassero quei discorsi che ha sentito. La ragazza cede e gli racconta tutto.

Charles è una persona perbene e non può restare con le mani in mano in una situazione come questa. Sally lo scongiura di non denunciarle, perché anche lei potrebbe essere punita come complice, ma Charles è irremovibile. Anne e Susan Naylor meritano giustizia.

In realtà, Charles è convinto che Sally non sarà punita, o che al massimo riceverà una pena molto blanda. Al tempo dei fatti era solo una ragazzina, completamente dominata dalla figura della madre. Anzi, per dimostrare la propria innocenza, la cosa migliore è che sia proprio Sally a denunciare Sarah.

Sally, sfinita, ubbidisce. Sarah viene arrestata. Ma mentre si istruisce il processo, sono chiamate a testimoniare anche le apprendiste superstiti. Le quali non accusano solo Sarah, ma anche Sally. Così, anche Sally viene arrestata.

Nel processo, le due donne si accusano a vicenda di tutto. Sally sostiene che il padre morì perché ebbe un colpo lottando con la madre che lo aveva aggredito. Sarah sostiene che Sally provocò la morte del padre riempiendogli la testa di insinuazioni. Naturalmente, il grosso della questione è sulle morti delle sorelle Naylor.

In questo caso, sorprendentemente, la posizione di Sally si ritrova ad essere peggiore di quella della madre. Il lattaio la vide trascinare via Anne Naylor, le altre apprendiste la videro prendere a calci il corpo della ragazza per le scale, mentre a testimoniare le violenze di Sarah c’è solo lei.

La linea di difesa di Sarah è che i delitti sono stati premeditati da Sally e che lei ha solo cercato di proteggere la figlia.

La giuria non crede a nessuna delle due e le condanna entrambe a morte.

L’esecuzione non avverrà subito, perché ci sono di mezzo appelli e altri impedimenti. Uno di questi si deve anche al fatto che Sally si dichiara incinta di Charles, e ci vorranno mesi prima di capire che in realtà non lo è.

Il 19 luglio 1768 madre e figlia vengono trasportate dal carcere di Tyburn alla forca. Sarah ha una reazione isterica e deve essere trascinata a forza al patibolo. Sally piange per tutto il tragitto. I loro corpi, dopo l’esecuzione, vengono portati nella sede dell’associazione nazionale dei chirurghi, dove prima vengono esposti al pubblico e poi dissezionati.


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