Cominciamo con una domanda: cos’è un delitto della camera chiusa? Un delitto della camera chiusa è un tipo di delitto che deve avere due elementi specifici: un luogo circoscritto dal quale nessuno apparentemente può entrare o uscire e la presenza di un numero assai ristretto di persone e testimoni, compresa la vittima.
In questo luogo, con queste condizioni che potremmo dire “esclusive”, avviene un omicidio che, unito a pochi indizi, diventa subito un rompicapo difficile o impossibile da risolvere.
Sotto, una vignetta saritica che indica un fantomatico assassino a forma di Gorilla con un rasoio in mano:
Questo sottogenere giallo è stato sublimato da maestri della letteratura come Agatha Christie e Edgar Allan Poe. Maestri che hanno trovato ispirazione nell’enciclopedia più ricca che si possa consultare: la vita.
Sotto, copertina di una raccolta di “Delitti della Camera Chiusa”:
Siamo a Todi, in Umbria. È la notte tra il 14 e il 15 luglio 1993 e la città umbra sta dormendo. In via Angelo Cortesi, al numero 131, c’è un palazzotto di quattro piani. In uno degli appartamenti del palazzo, al quarto piano, c’è un corridoio buio. Sono le 3.45 del mattino. D’un tratto si schiude una porta e dopo pochi attimi si sentono dei passi incerti.
Sotto, panorama di Todi al tramonto, fotografia di Fabio Salvatelli condivisa con licenza CC BY-SA 3.0 via Wikipedia:
È una giovane donna, in reggiseno e mutandine, che entra nella camera da letto del padre e mormora flebilmente: “Babbo, guarda cosa mi hanno fatto…“. Poi cade a terra con il sangue che le scivola a rivoli scarlatti dal petto.
Un istante dopo l’urlo del padre squarcia il silenzio di quella notte d’estate
La donna si chiama Mara Calisti. Trentaseienne di Todi, dopo la maturità classica si iscrive alla facoltà di Giurisprudenza, che lascia dopo poco decidendo di trovare un impiego. In quell’estate del 1993 lavora come segretaria da un avvocato, e per arrotondare fa le pulizie in un altro condominio.
Mara è impegnata politicamente e da poco si è iscritta a un corso di arte all’Università della terza età. Una giovane donna normale, libera, con interessi e impegni, come tante altre.
Mara vive nel palazzo di via Cortesi con il padre, Mario; il resto della famiglia è in un paesino di campagna dove i Calisti hanno comperato una nuova casa e nella quale hanno già portato vari mobili. Mara e il papà sono rimasti ancora nel vecchio appartamento per degli impegni da svolgere l’indomani mattina. Mario Calisti infatti ha un appuntamento con il suo commercialista.
Giunti sul posto i carabinieri trovano in casa Calisti il padre disperato con in braccio la figlia; l’uomo è circondato da alcuni inquilini arrivati dopo aver sentito l’urlo del vicino. Mara è già morta. Una pugnalata al petto le ha reciso l’aorta: un solo colpo ma fatale con un’arma da taglio (forse anche un cacciavite) che non si trova. Non sembra un colpo inferto da una persona con l’intento di uccidere, ma un colpo sferrato quasi per sbaglio in un momento di ira.
I militari dell’arma controllano la porta e le finestre dell’appartamento non trovando alcun segno di effrazione. Chiunque sia stato a uccidere Mara doveva essere stato accolto in casa proprio dalla donna o comunque doveva già trovarsi lì.
Il caso si presenta subito assai complicato.
Ripercorriamo gli avvenimenti precedenti le 3.45, la tragica ora del delitto.
Quel 14 luglio 1993 Mario Calisti resta in casa tutto il giorno. Verso sera si appresta a preparare la cena in attesa della figlia Mara, che arriva intorno alle 20.30. I due cenano, e verso le 21.30 il padre esce per andare a far visita a una cognata, come usa fare spesso, mentre Mara chiama una vicina di casa per bere il caffè e scambiare qualche chiacchiera.
Sono le 23.00 circa: Mara e la vicina conversano piacevolmente quando arriva una telefonata. Mara va a rispondere: è una telefonata molto breve e la vicina non capisce né chiede chi fosse. Pochi minuti dopo fa ritorno Mario Calisti. Scambia due battute con la figlia e la vicina che guardano un film in tv e si ritira nella camera da letto.
Poco dopo va via anche la vicina di casa.
È la 1.30. Il signor Calisti si alza per bere un bicchiere d’acqua. Non sente alcun rumore: Mara sta dormendo. Probabilmente.
Intanto all’interno e fuori dello stabile di via Cortesi non tutti stanno dormendo. Tra le 2.30 e le 3.00 un paio di condomini sono svegli: la calura estiva è forte e il sonno leggero. Entrambe le persone però non sentono nulla di particolare nel silenzio della notte.
Sono le 3.40. Ci avviciniamo all’ora del delitto. Fuori dal palazzo c’è un giovanotto che fuma una sigaretta. Abita lì vicino e soffrendo di insonnia ha deciso di fare una passeggiata. Passano pochi minuti, l’inquilino del piano immediatamente inferiore a quello dei Calisti sente un tonfo: è il portone del palazzo che sbatte o il rumore proviene dal piano di sopra?
Il condominio è dotato di un portone pesante, uno di quei portoni a molla che devono essere accompagnati con la mano altrimenti sbattono con un gran rumore. Difficile capire però per l’inquilino cosa sia quel rumore secco tra le nebbie del dormiveglia. Sta di fatto che il tonfo lo sveglia definitivamente. L’uomo si alza e passano pochi secondi e sente le urla del signor Mario. Sale subito la rampa di scale che lo separa dall’appartamento dei Calisti, seguito da altri inquilini svegliati dal grido. L’urlo dell’uomo viene udito anche dal ragazzo che sta per strada a fumare. Il giovane si dirige verso la cabina telefonica più vicina e avverte il 118.
Come detto, i sanitari del 118 e le forze dell’ordine intervenute sul luogo non possono far altro che constatare il decesso e chiedere ai presenti cosa sia successo.
Sconvolto, il padre racconta dell’ingresso della figlia in camera sua, sanguinante e in fin di vita e di quella frase:
Babbo, guarda cosa mi hanno fatto
“Babbo, guarda cosa mi hanno fatto..”: ultime parole che danno una luce sinistra alla faccenda. “Cosa mi hanno fatto…”, al plurale. Mara intendeva forse che sono entrate più persone in camera sua?
Di altro il signor Calisti non ha né visto né sentito.
Anche gli altri condomini non sanno dire molto, se non l’inquilino del piano di sotto che riferisce di quel tonfo succeduto dalle urla di Mario Calisti. Un’altra inquilina, invece, afferma di essere stata svegliata dal suono del campanello di casa, appena un istante prima che il signor Calisti ridestasse tutto il palazzo con il suo grido disperato. Nessuno degli altri inquilini però ha suonato al campanello della signora. Che sia stato l’assassino di Mara che per sbaglio, durante la fuga, abbia premuto il campanello anziché l’interruttore della luce delle scale?
La notizia si sparge per tutta Todi; la cittadina è sconvolta dall’accaduto.
In casa Calisti giunge la polizia scientifica e trova delle tracce di sangue che conducono dalla camera di Mara a quella del papà e una serie di impronte; tutte però appartengono alla vittima.
Nell’appartamento non sembra essere entrato nessuno a parte la povera donna e il padre
Si analizza la ferita che ha portato alla morte la ragazza. Il magistrato, supportato dai referti medici, sostiene che Mara sia collassata al massimo un minuto dopo il colpo fatale e che quindi sia poco probabile che abbia fatto il tragitto da camera sua a quella del genitore. Inoltre perora l’ipotesi che Mara sia stata colpita con un cacciavite e la sua tesi pare trovare conferme quando nel cassetto degli attrezzi del signor Calisti viene trovata traccia di una goccia di sangue di Mara.
La donna dunque è stata colpita in stanza del padre o in prossimità? Così Mario Calisti diviene il primo indagato per la morte della figlia. La tesi sembra filare e lo scenario appare convincente se non fosse per la disposizione di quelle macchie di sangue nel corridoio.
Esse, infatti, tracciano una scia dall’uscio della camera di Mara a quella del padre, non dimentichiamolo. Dunque Mara è innegabilmente stata colpita in camera sua e, seppur con i secondi contati, ha fatto appena in tempo a fare ingresso nella camera da letto del papà prima di crollare al suolo.
O forse no?
È strana quella scia di sangue che traccia il percorso – stanza di Mara – stanza del padre. Dall’analisi si riscontra la particolarità di quelle macchie scarlatte: alcune sono assai leggere, come da gocciolamento, in forte contrasto con quelle più ampie e marcate che saltano prima all’occhio. Inoltre nella scia di sangue mancano impronte di piedi, come se Mara stesse volando o fosse particolarmente attenta a non calpestare il suo sangue, mentre moriva.
Si comincia a pensare che la giovane donna sia stata accompagnata, in braccio, dal suo aguzzino dinanzi la porta del padre e lì lasciata prima che l’assassino abbandonasse l’appartamento. Un’azione complessa, che va in contraddizione con lo scarsa quantità di tempo che intercorre tra il colpo al torace e l’ingresso di Mara in camera del padre e il seguente collasso.
Ma poi, gli inquirenti si chiedono, come ha fatto l’assassino a entrare e uscire da casa dei Calisti?
Forse aveva una copia della chiave o forse Mara aveva lasciato la porta aperta. La chiave di Mara infatti è in casa, al solito posto di sempre. Di certo la mano assassina era conosciuta dalla vittima e forse non era la prima volta che si trovava in quel palazzo.
Oppure, si avanza una nuova ipotesi, si tratta di un ladro estremamente fortunato che, dopo aver notato il trasloco di qualche giorno prima, decide di compiere un furto nell’appartamento, convinto di non trovare nessuno. Irrompe in casa nottetempo, ma con sorpresa scopre che in casa ci sono ancora due persone, viene scoperto da Mara, la uccide con un unico colpo sferrato quasi senza volontà di uccidere e poi, mantenendo un incredibile sangue freddo e con tutti i fattori del caso a suo favore, riesce a scappare non lasciando impronte e non venendo visto da nessuno. Un’ipotesi eccessivamente fantasiosa.
Oltre al padre altre persone vengono poste sotto l’osservazione degli inquirenti, come un medico della cittadina umbra del quale si sospetta fosse stato amante di Mara. Il professionista però è sposato, e la notte tra il 14 e il 15 luglio è tra le mura di casa con sua moglie e con degli amici. Alibi di ferro.
Alcune amiche riferiscono che negli ultimi periodi Mara Calisti parlava con timore di una persona con la quale aveva un rapporto, un ragazzo con i capelli ricci che però non è mai stato identificato. Nessun riferimento della persona tra le carte della giovane donna e la voce, sospinta dalle amiche e di sicuro interesse per gli inquirenti, viene dimenticata.
L’unico indagato resta il padre della vittima, Mario Calisti, colui che ha accolto tra le braccia l’ultimo sospiro della figlia
Ci vorranno anni perché la sua posizione venga chiarita. È il 2001 quando Mario Calisti viene definitivamente prosciolto dall’accusa di omicidio. L’uomo morirà nel 2005 senza conoscere il nome della persona che ha ucciso la figlia.
Un caso complicatissimo, compiuto in pochi minuti se non secondi. Una persona entra in casa di Mara, magari con la complicità della donna e comunque senza essere notata da qualcuno, dopo poco la colpisce con un oggetto appuntito, preso sul momento o portato da casa, fruga nel cassetto degli attrezzi lasciando una macchia di sangue di Mara, riesce ad aprire la porta senza far rumore e lasciare tracce. Scende le scale, anche questa volta non la nota nessuno, commette il piccolo errore di suonare un campanello invece che pigiare il tasto dell’illuminazione delle scale, esce dal palazzo facendo cura di non sbattere il pesante portone e si dilegua fuori dalla vista del ragazzo insonne che sta fumando sulla strada. Tutto in un minuto, forse due.
Un fantasma protagonista di un delitto impossibile, o semplicemente perfetto
Un delitto della camera chiusa, senza un movente, senza un’arma del delitto e senza un colpevole; un giallo irrisolto tra i più misteriosi degli anni novanta.
La storia del delitto di Mara è stata raccontata dalla sorella della vittima, Rita Calisti, che per anni si è battuta per dare un nome all’assassino della sorella, nel libro che reca il titolo Il delitto della porta chiusa (Ali&no). Il caso è presente nel libro Il sangue delle donne. Cronache di femminicidi in Umbria (Morlacchi Editore) di Alvaro Fiorucci.