La paura dei manoscritti e poi dei libri e in generale della cultura è sempre esistita e il caso letterario più emblematico incentrato su questo sentimento è rappresentato dal romanzo di Umberto Eco “Il nome della rosa”, il cui tema principale è proprio il rapporto conflittuale tra amanuensi e libri e l’urgenza delle classi dominanti di indirizzare le letture, vietandone altre che avrebbero potuto corrompere le morale religiosa dei lettori.
Strumento fondamentale per la censura ecclesiastica fu l’Indice dei libri proibiti in cui venivano annoverati tutti i testi contrari alla morale cattolica; una tagliola che durò per oltre quattro secoli, introdotta nella seconda metà del Cinquecento da papa Paolo IV e che oggi risulta poco conosciuta dai contemporanei.
Come nacque l’Indice?
L’Indice dei libri proibiti (Index librorum prohibitorum) dalla Chiesa cattolica trasse le origini da alcuni elenchi di letture proibite stilati in maniera autonoma da alcune università europee – Sorbona di Parigi, Lovanio e Salamanca su tutte – negli anni quaranta del Cinquecento per fronteggiare una preoccupante e sempre meno esclusiva divulgazione delle idee.
Fu attorno alla metà del secolo che l’idea prese forma anche in ambito clericale, resasi oramai necessaria dinanzi al pericolo scaturito dall’esplosione delle tipografie in Europa – successiva all’invenzione della stampa moderna, le cui insidie erano già state avvertite ed espresse tramite apposita bolla papale da Innocenzo VIII nel 1487 – e della più facile circolazione dei libri, non più sotto forma di intrasportabili incunaboli o quattrocentine in folio, ma tascabili – l’epocale trasformazione era avvenuta qualche decennio prima grazie al visionario editore Aldo Manuzio –, più accessibili alla massa e più semplici da portare con sé e far passare di mano in mano.
Aldo Manuzio
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Per la Chiesa si profilò quindi la necessità di prendere il controllo della situazione perché non fosse divulgato tutto il sapere, anche quello sconveniente.
Il primo autore dell’Indice dei libri proibiti fu Giovanni Della Casa, arcivescovo cattolico ma anche letterato, più noto per aver definito e pubblicato il “Galateo” (titolo originale “Galateo overo de’ costumi”), il manuale di buone maniere in cui “si ragiona de modi, che si debbono o tenere, o schifare nella comune conversatione”.
Il primo Indice stilato nel 1548 da monsignor Della Casa, contenente 149 opere letterarie etichettate come eretiche, passò un po’ in sordina, ottenendo la sperata autorità però pochi anni dopo, nel corso del Concilio di Trento (1545-1563), diciannovesimo concilio della Chiesa cattolica, principiato nell’intento di reagire alla dottrina di Martin Lutero che stava cominciando a diffondersi in tutto il continente e che avrebbe potuto mettere in serio pericolo il credo cattolico.
Giovanni Della Casa
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Fu quindi negli ultimi giorni del 1558 che Paolo IV, in pieno Concilio, sulla base di un accurato elenco redatto dai cardinali inquisitori che aveva sguinzagliato sul territorio, compilò il primo, ufficiale e rigido Indice dei libri “sospetti e pericolosi” per la Chiesa cattolica.
“Che nessuno osi ancora scrivere, pubblicare, stampare o far stampare, vendere, comprare, dare in prestito, in dono o con qualsiasi altro pretesto, ricevere, tenere con sé, conservare o far conservare qualsiasi dei libri scritti e elencati in questo Indice del Sant’Uffizio.”
Tale indice passò alla storia come Indice Paolino e fu alla base di tutti i seguenti aggiornamenti.
Papa Paolo IV
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Da quell’anno, infatti, l’Indice incrementò sempre più le sue pagine, non limitandosi alle opere di riconosciuti eretici, ma fagocitando trattati di teologia scritti in volgare, versioni ambigue o rivoluzionarie delle scritture sacre – si contarono ben 45 edizioni della Bibbia rigettate, oltre che innumerevoli versioni del sacro testo in lingue che non fossero in latino – e testi di carattere astrologico.
Dalla scienza alla letteratura, dalla storia alla filosofia, senza dimenticare chiaramente le opere religiose: centinaia furono i titoli, giudicati contrari alla dottrina e insidiosi per l’autorità temporale del papa, che piombarono nel gorgo del divieto cattolico nel corso dei quattro secoli successivi alla divulgazione del primo Indice Paolino.
Tra i più noti autori inseriti nell’elenco si segnalano giganti della letteratura, delle scienze e del pensiero come Cartesio, Giovanni Calvino, Dante Alighieri, Giovanni Boccaccio, Giordano Bruno, Baruch Spinoza, Galileo Galilei, Jean-Jacques Rousseau, Stendhal, Thomas Hobbes, Voltaire e Honoré de Balzac – di questi ultimi due fu bandita praticamente tutta la loro opera omnia.
Voltaire
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Anche moltissimi italiani, secolo dopo secolo, finirono nel registro delle letture vietate: Cesare Beccaria, Niccolò Machiavelli, Ugo Foscolo, Giacomo Leopardi, Benedetto Croce, Gabriele d’Annunzio, Alberto Moravia a Curzio Malaparte sono soltanto alcuni degli italiani celebri che dovettero fare i conti con la tagliola di stampo cattolico.
Curiosamente fu risucchiato nella voragine censoria addirittura un pontefice: fu papa Pio II (1405-1465), tra i più importanti pontefici del Quattrocento, che pagò i poco graditi – dai posteri – commentari sul Concilio di Basilea, Ferrara e Firenze svoltosi tra il 1431 e il 1445.
Per i primi decenni l’Indice godette di ottima salute e nel 1571 fu istituita anche la Congregazione dell’Indice, organo posto a tutela della Chiesa e al quale toccava la decisione circa quali opere potevano essere pubblicate, vendute, lette e tradotte e quali no, per quali autori poteva essere concesso l’imprimatur, l’autorizzazione alla stampa, e per quali autori, ma anche editori e lettori, invece, scattavano veto e pene severe.
Edizione del 1564
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L’azione censoria della Congregazione, chiaramente, ebbe però anche l’effetto di incuriosire e indirizzare il lettore proprio verso quei libri che la Chiesa marchiava come proscritti (il classico fascino del proibito). I censori ecclesiastici si trovarono perciò ad affrontare diverse indagini, processi e spesso a ritornare sulle proprie decisioni.
Un esempio tra i più famosi fu quello relativo alla libera circolazione o meno de “La capanna dello zio Tom”, romanzo contro la schiavitù degli afroamericani della scrittrice statunitense Harriet Beecher Stowe che, immediatamente tradotto in Italia, già nello stesso 1852 di pubblicazione, fu al centro di varie polemiche circa la liceità dei suoi contenuti che fecero scivolare la Chiesa cattolica sul terreno limaccioso del pregiudizio di natura razziale.
In quella seconda parte dell’Ottocento, però, il potere e l’intransigenza della Chiesa erano già di molto diminuiti rispetto ai secoli precedenti. Già nel Settecento papa Benedetto XIV aveva infatti alleggerito la morsa permettendo agli stessi autori di correggere o cancellare in autonomia i passi che non si confacevano alla morale cattolica, senza che si disturbasse la scrupolosa mano della Congregazione.
Nuovi inserimenti nell’Indice cominciarono ad avvenire sempre più di rado – seppur in maniera anche eccellente, come possiamo notare dagli autori ottocenteschi e novecenteschi citati in precedenza – e spesso i pochi ingressi davano vita a una serie di polemiche e processi che, sostenuti caldamente dall’opinione pubblica, capovolgevano quanto stabilito dalla Chiesa. Fu così che nel 1917, sotto gli ultimi colpi della Grande guerra, la Congregazione dell’Indice fu soppressa iniziando a essere conosciuta col nome assai meno aggressivo di Sant’Uffizio.
Palazzo del Sant’Uffizio
Fotografia di Jim McIntosh condivisa via Wikipedia con licenza CC BY 2.0
L’ultimo libro a fare il suo ingresso nell’oramai polveroso Indice fu nel giugno 1961 la “Vita di Gesù” di Jean Steinmann in cui l’autore, vicario di Notre-Dame di Parigi, scrisse che le vicende della giovinezza di Gesù Cristo, a ben leggerle, non avessero alcun valore storico.
Insomma, fu un’ultima condanna che la Chiesa non poté proprio evitare di decretare
L’Indice dei libri proibiti è stato abolito dal Sant’Uffizio – oggi, più propriamente, Congregazione per la dottrina della fede, l’organo per la tutela della dottrina della Chiesa cattolica nel mondo – nel 1966, dopo circa quaranta aggiornamenti succedutasi in oltre quattro secoli di vita, al termine del Concilio Vaticano II (1962-1965), l’ultimo concilio ecumenico della Chiesa cattolica, voluto da papa Giovanni XXIII e presieduto, oltre che dal cosiddetto papa Buono, da Paolo VI.
Apertura del Concilio Vaticano II
Fotografia di Peter Geymayer – opera propria di Pubblico dominio condivisa via Wikipedia
La Sacra Congregazione dopo essersi interfacciata col Santo Padre e confidando nella coscienza dei fedeli, degli educatori e degli editori, comunicò “che l’indice rimane moralmente impegnativo, in quanto ammonisce la coscienza dei cristiani a guardarsi, per una esigenza che scaturisce dallo stesso diritto naturale, da quegli scritti che possono mettere in pericolo la fede e i costumi; ma in pari tempo avverte che esso non ha più forza di legge ecclesiastica con le annesse censure”.
Così decretò il Sant’Uffizio in quel fatidico 1966, congelando l’Indice a mero “documento storico”, come ebbe ad apostrofarlo, amareggiato, il tradizionalista cardinale Alfredo Ottaviani.
Oggi i compiti della Congregazione per la dottrina della fede sono limitati all’approvazione delle sole pubblicazioni di carattere prettamente religioso e teologico.
Come la censura ecclesiastica, anche la Chiesa si fermò in quei turbolenti anni a cavallo tra i sessanta e i settanta, restando da quel momento in poi sempre un passo indietro rispetto alla storia che procedeva nel suo inarrestabile incedere.
Per approfondire la lunga storia dell’Index librorum prohibitorum si consiglia la lettura del testo “Storia dell’Indice. Il Vaticano e i libri proibiti” (Donzelli) dello storico della Chiesa Hubert Wolf.