L’Esperimento Carcerario di Stanford: effetto Lucifero di chi indossa la Divisa

15 agosto 1971 – La polizia locale viaggia a sirene spiegate sulle strade di Palo Alto, nella futura Silicon Valley, e nove studenti universitari incensurati finiscono in manette per furto con scasso e rapina a mano armata. Gli agenti li prelevano dalle rispettive abitazioni e li trasferiscono in caserma, dove prendono loro le impronte digitali e scattano le foto segnaletiche di rito. Nessuno di loro sa cosa stia accadendo e la situazione si fa ancora più strana quando gli agenti li bendano e li caricano di nuovo sulle volanti. Dopo alcuni minuti giungono in un luogo angusto e poco illuminato. Ad attenderli ci sono nove secondini, che, sotto gli sguardi impassibili del supervisore e del direttore del carcere, li spogliano, li lavano e li gettano nelle celle.

L’esperimento ha inizio

Palo Alto – Immagine di Finlay McWalter condivisa con licenza CC BY-SA 3.0 via Wikipedia

Finanziamenti e preparativi

Nei primi anni ’70, l’Office of Naval Research, un dipartimento della Marina statunitense, finanziò un esperimento di Philip Zimbardo, docente di psicologia presso l’Università di Stanford. Uno dei suoi obiettivi era scoprire da cosa derivasse la brutalità dei secondini nei confronti dei prigionieri; se da una predisposizione al sadismo o da un condizionamento inerente all’ambiente carcerario. Più in generale si voleva capire le dinamiche del comportamento umano in una società in cui la personalità dell’individuo è definita soltanto dal gruppo di appartenenza, e non da altri fattori come l’educazione, la famiglia, i valori e simili. In modo molto ancestrale: come si comporta l’uomo nel branco quando è definito solo dal gruppo stesso?

Logo dell’Office of Naval Research, l’ente che finanziò l’esperimento – Immagine di pubblico dominio via Wikipedia

Zimbardo ottenne l’approvazione dell’Università di Stanford, riunì uno staff di studenti e si avvalse della consulenza di Carlo Prescott, un ex detenuto afroamericano del carcere californiano di San Quintino, che gli spiegò alcune dinamiche della vita dietro le sbarre. A inizio agosto del 1971 pubblicò un annuncio sul Palo Alto Times e sul The Stanford Daily.

Cercasi studenti maschi per uno studio psicologico sulla vita carceraria. 15 dollari al giorno per una o due settimane a partire dal 14 agosto”.

Risposero in 75 e furono selezionati 24 candidati, tutti uomini bianchi della classe media, fisicamente sani e senza precedenti penali o psicologici. Attraverso un sorteggio li divise in 9 secondini, 9 prigionieri e 6 riservisti da chiamare in caso di necessità.

Ritaglio di giornale con l’annuncio (il secondo dall’alto verso il basso) – Immagine di Philip Zimbardo condivisa con licenza CC BY-SA 4.0 via Wikipedia

Sabato 14 agosto, Zimbardo e il suo staff tennero una piccola riunione di orientamento con i volontari e spiegarono i ruoli. L’unica raccomandazione fu per il gruppo delle guardie, cui chiese di non usare la violenza fisica e di limitarsi a mantenere l’ordine e la disciplina.

Philip Zimbardo e la fidanzata, Christina Maslach, nel 1972 – Immagine di Philip Zimbardo condivisa con licenza CC BY-SA 4.0 via Wikipedia

Giorno 1 – I finti arresti

Il giorno successivo l’esperimento ebbe inizio. Tutto doveva essere quanto più reale possibile e, senza avvisare gli psudo-criminali, tutti colti alla sprovvista, Zimbardo si avvalse dell’aiuto di veri agenti di polizia, che procedettero agli arresti.

Uno dei finti arresti – Immagine di Philip Zimbardo condivisa con licenza CC BY-SA 4.0 via Wikipedia

Quando i nove ragazzi giunsero nella finta-prigione li accolsero Zimbardo e il suo collaboratore, lo studente David Jaffe, rispettivamente il sovrintendente del carcere e il direttore. Il luogo designato per l’esperimento era un seminterrato dell’Università di Stanford, dove le porte di alcuni laboratori abbandonati erano state sostituite da sbarre di ferro. C’erano 3 celle di quasi due metri per tre, un piccolo corridoio che fungeva da cortile, una grande stanza ben illuminata, accessibile solo ai secondini, e un ripostiglio chiamato “il buco”, adibito a cella d’isolamento.

Panoramica dell’Università di Stanford – Immagine di King of Hearts condivisa con licenza CC BY-SA 3.0 via Wikipedia

Ogni guardia aveva con sé un manganello, un fischietto e delle manette; indossava un’uniforme color kaki e un paio di occhiali da sole con lenti a specchio che impedivano il contatto visivo con i prigionieri. Questi furono spogliati, allineati contro un muro e lavati con acqua fredda, ma i secondini iniziarono a deriderli e a fare battute sui loro genitali. A umiliazione finita ricevettero una grande tunica bianca, da indossare senza biancheria intima, e un numero identificativo stampato davanti e dietro sugli indumenti. Tutto questo era funzionale nel dar loro la sensazione di non essere più degli individui, delle cavie volontarie, ma dei veri e propri criminali che stavano scontando una pena. La cura dei dettagli fu maniacale e i secondini rinchiusero i prigionieri a gruppi di tre in altrettante celle, con ciascuno di loro incatenato ai piedi e una calza di nylon in testa, per simulare la rasatura dei capelli.

I prigionieri in fila contro un muro – Immagine di Philip Zimbardo condivisa con licenza CC BY-SA 4.0 via Wikipedia

Giorno 2 – La rivolta dei prigionieri

Il primo giorno non ci furono problemi, ma alle 14:30 di lunedì 16 agosto, quando le guardie provarono a scortare i criminali in cortile, dove avrebbero dovuto consumare il pranzo, questi si barricarono nelle celle e bloccarono gli ingressi con i materassi. I secondini reagirono: spruzzarono loro la schiuma di un estintore, sequestrarono i materassi e chiusero nel “buco” il capo-rivolta, Douglas Korpi, alias detenuto 8612. Verso sera le guardie tennero una riunione e discussero su come ristabilire l’ordine senza adottare la violenza fisica, come imposto da Zimbardo.

Scelsero la violenza psicologica

Le guardie che camminano nel “cortile” della finta prigione – Immagine di Philip Zimbardo condivisa con licenza CC BY-SA 4.0 via Wikipedia

Giorno 3 – La violenza psicologica dei secondini

Nella notte fra il 16 e il 17 agosto, svegliarono i detenuti e li costrinsero a fare flessioni e addominali, a pulire i bagni a mani nude e a defecare in un secchio. Per spezzare la leadership dei rivoltosi il mattino seguente si accanirono sul prigioniero 8612, che diede segni di esaurimento nervoso e iniziò a urlare:

Non posso sopportare un’altra notte! Non ce la faccio più!

Korpi si rivolse a Zimbardo e lo pregò di farlo uscire, ma lo psicologo non gli rispose come Philip Zimbardo, docente universitario e capo dell’esperimento: gli rispose come sovrintendente del carcere in cui si trovavano.

Prigionieri a letto in cella – Immagine di Philip Zimbardo condivisa con licenza CC BY-SA 4.0 via Wikipedia

Korpi incassò un no categorico – dopotutto era pur sempre un criminale con una condanna detentiva – ma Zimbardo gli propose di fare la spia in cambio di un trattamento migliore. 8612 tornò sconsolato dai compagni e, forse fraintendendo le parole del docente, sparse la voce che non si poteva scappare in nessun modo.

Si diffuse il panico, come se i ragazzi avessero davvero dimenticato che si trattava solo di un esperimento, e i secondini continuarono a mantenere l’ordine con la violenza psicologica. Il prigioniero 8612 ebbe una nuova crisi e Zimbardo decise di farlo uscire. La leadership passò nelle mani di 819, che inasprì i toni della rivolta. I secondini si fecero più furbi e, anziché punire il nuovo leader, lo lasciarono in cella e costrinsero gli altri a fare flessioni e a pulire i bagni. L’espediente funzionò e i compagni iniziarono a odiarlo.

Jaffe (a sinistra) e Zimbardo (a destra) durante un colloquio nel mezzo dell’esperimento – Immagine di Philip Zimbardo condivisa con licenza CC BY-SA 4.0 via Wikipedia

Giorno 4 – Il caos

All’alba di mercoledì 18 agosto il fronte dei detenuti non era più compatto come prima, e i secondini ne approfittarono per dividerli in due gruppi: quelli che avevano causato più problemi e quelli più mansueti. I primi restarono in celle inospitali, senza luce né letti; i secondi passarono in celle comode e piene di confort. Sembrava volessero far intendere che la buona condotta portasse a un premio, ma a metà giornata invertirono i ruoli. I mansueti finirono nelle celle inospitali e gli irrequieti in quelle confortevoli.

Si scatenò il caos

Nessuno si fidava più nessuno e, agli occhi di tutti, chiunque poteva essere una spia, altrimenti non si spiegava quell’improvviso cambio di rotta. L’unico malvisto da tutti, però, era 819, che i compagni canzonavano con il coro “l’819 è un cattivo prigioniero”.

Un prigioniero in lacrime – Immagine di Philip Zimbardo condivisa con licenza CC BY-SA 4.0 via Wikipedia

Anche lui perse la cognizione della realtà e si immedesimò così tanto nel ruolo che scoppiò in lacrime, perché credeva davvero di essere un pessimo prigioniero. A quel punto Zimbardo intervenne e lo lasciò andare. Mandò a chiamare uno dei riservisti e il prescelto, il detenuto 461, ricevette in giornata la visita dei poliziotti. Fu sottoposto al rito dell’arresto e quando giunse nel seminterrato di Stanford si trovò in una situazione ambigua, controllato da sadici secondini e compagno di prigionieri in evidente stato confusionale.

Della sua “accoglienza”, se così possiamo definirla, se ne occupò la guardia David Eshelman, anche detto John Wayne per la sua aria da duro. 461 ne scoprì il carattere autoritario non appena mise piede in prigione ed Eshelman lo bullizzò.

Un secondino passeggia nel corridoio della finta prigione – Immagine di Motatcho condivisa con licenza CC BY-SA 4.0 via Wikipedia

Giorno 5 – Un carcere vero e proprio

Il programma del 19 agosto, un giovedì, prevedeva il giorno di ricevimento, con le porte del finto carcere aperte a un massimo di due familiari. Alcuni genitori rimasero tanto scossi dalle condizioni dei figli che minacciarono l’intervento di un avvocato. Nel pomeriggio la situazione degenerò. I soprusi mentali dei secondini non diminuivano e il detenuto più in difficoltà era proprio il nuovo arrivato. 461 rispose alle umiliazioni di Eshelman con uno sciopero della fame, ma Zimbardo ricevette la visita della sua fidanzata, la dottoressa Christina Maslach, il cui intervento fu tempestivo.

Philip Zimbardo nel 2017 – Immagine di Elekes Andor condivisa con licenza CC BY-SA 4.0 via Wikipedia

Christina capì che lo stesso Zimbardo si era calato così tanto nel ruolo di supervisore da ignorare la realtà dei fatti

Quello che doveva essere un semplice esperimento era degenerato in una guerra psicologica fra secondini e prigionieri, con i primi che abusavano del loro potere e i secondi annichiliti e incapaci di accorgersi che si trattava solo di finzione. Per intenderci, le guardie si erano trasformate in vere guardie e i detenuti si erano trasformati in veri detenuti.

Christina Maslach – Immagine di Philip Zimbardo condivisa con licenza CC BY-SA 4.0 via Wikipedia

La Fine

Le proteste della donna fecero effetto e, venerdì 20 agosto, Zimbardo fermò l’esperimento. Tirando le somme, il suo studio aveva dato vita a quello che definiva “l’effetto Lucifero”, vale a dire la trasformazione in aguzzino di una persona qualunque che, senza alcuna predisposizione al sadismo, si era adeguata al contesto e alle azioni del gruppo di appartenenza. I secondini si erano immedesimati nell’istituzione carceraria e avevano messo da parte il loro io, con tanto di sentimenti, sensi di colpa ed empatia, per adeguarsi al contesto e ristabilire l’ordine con tattiche intimidatorie ritenute legittime per il solo fatto che erano ritenute consone al ruolo.

Riunione post esperimento – Immagine di Philip Zimbardo condivisa con licenza CC BY-SA 4.0 via Wikipedia

Le critiche all’esperimento

Dopo che l’esperimento fu reso noto la comunità scientifica si spaccò in due e seguì un lungo dibattito. Nel 2001, Alex Haslam e Steve Reicher replicarono un’esperienza simile senza ottenere gli stessi risultati. Nel BBC Prison Study, così chiamato perché la BBC lo filmò e lo mandò in diretta televisiva, i secondini non si adattarono al ruolo, e ciò implicava che certi comportamenti potevano prendere il sopravvento solo in presenza di una leadership ben definita, con una persona in particolare che stabiliva come risolvere le controversie.

Nel caso di Stanford secondo Haslam e Reicher, Zimbardo e Zaffe, nei ruoli di sovrintendente e direttore, avevano fatto valere la loro leadership e influenzato le azioni dei secondini. Zimbardo ribatté che i colleghi non avevano ripetuto bene l’esperimento, anzi, la presenza della BBC lo aveva reso una sorta di reality show, dove la consapevolezza delle telecamere aveva influenzato le neutralità delle cavie.

Riunione per la selezione dei candidati all’esperimento – Immagine di Philip Zimbardo condivisa con licenza CC BY-SA 4.0 via Wikipedia

Il ricercatore Thibault Le Texier, con il suo libro “Storia di una menzogna: inchiesta sull’esperimento di Stanford”, e il giornalista Ben Blum dissero che i risultati erano del tutto falsati, e lo stesso Zimbardo aveva omesso una serie di particolari. La loro argomentazione verteva su dettagli e testimonianze inedite, come, ad esempio, quella di Carlo Prescott, il consulente dell’esperimento. L’ex detenuto ammise di aver notato fin troppe somiglianze fra il comportamento dei finti secondini e i suoi racconti sulla vita carceraria. Secondo lui i ragazzi che avevano interpretato le guardie non potevano aver concepito da soli quel modo di agire, ed era stato Zimbardo a suggerir loro cosa fare.

Philip Zimbardo durante una conferenza – Immagine di Jdec condivisa con licenza CC BY-SA 4.0 via Wikipedia

Anche l’esaurimento nervoso di Korpi era un falso, e questi lo aveva simulato per tornare a casa a preparare un esame.

La domanda sorge spontanea:

Si poteva quindi lasciare l’esperimento?

Targa nel luogo dell’esperimento – Immagine di Eric. E. Castro condivisa con licenza CC DI 2.0 via Wikipedia

La risposta è sì e, nonostante sia Korpi sia un altro prigioniero, Richard Yacco, si lamentarono del contrario, Zimbardo chiarì che bastava dire una frase: “Lascio l’esperimento”. Una frase che, in effetti, nessuno dei due pronunciò e, con qualche fraintendimento di troppo, scatenò il panico del terzo giorno.

Locandina del film del 2015 Effetto Lucifero (titolo originale: The Stanford Prison Experiment) – Immagine condivisa con licenza Fair use via Wikipedia

Quanto a Jaffe, l’interprete del direttore del finto carcere, attraverso una relazione conservata negli archivi di Stanford, Blum scoprì che il ragazzo aveva interferito nell’esperimento e aveva dato suggerimenti ai secondini per renderli più sadici e autoritari. David Eshelman, invece, raccontò che aveva preso ispirazione dal film Nick mano fredda e, in un’intervista del 2011 rilasciò la seguente dichiarazione, che chiarisce ogni dubbio sul suo comportamento:

“Partecipai con un piano ben definito in testa, quello di provare a forzare la situazione, fare in modo che succedesse qualcosa, in modo che i ricercatori avessero qualcosa su cui lavorare”.

Una scena del film Nick mano fredda – Immagine di pubblico dominio via Wikipedia

L’esperimento di Stanford è stato condannato a più riprese da moltissimi, e non gode di riconoscimento unanime presso la comunità scientifica. Con la Seconda Guerra Mondiale e le azioni spregiudicate di alcuni nazisti la storia ha registrato eventi orribili, in gran parte dettati dalla famosa “banalità del male”. Difficile capire cosa succede nella mente di quelle persone che sanno mettere da parte i sensi di colpa e calpestare il prossimo. Insomma, mostri, criminali o delinquenti si nasce o si diventa? Non esiste una risposta definitiva, probabilmente colei che riuscì a sintetizzare meglio fu Hannah Arendt:

“Le azioni erano mostruose, ma chi le fece era pressoché normale”.


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