L’Eldorado di Percy Fawcett: nuovi sviluppi dalla Lara Croft italiana

Uno dei misteri del XX secolo: è così che recita la quarta di copertina di un volume di recente pubblicazione, scritto dalla giornalista italiana (in servizio presso la RAI di Bolzano) Margherita Detomas.

Un libro straordinario, ricco di informazioni, di immagini esclusive sia degli ultimi indios che ebbero la fortuna di avvistare Fawcett, sia degli straordinari reperti archeologici che, a dispetto di quanto afferma l’archeologia ufficiale, localizzerebbero nell’Amazzonia importanti e sviluppate città prima dell’arrivo degli europei.

Ecco il titolo completo del volume: Città invisibili. L’Eldorado di Percy H. Fawcett e Timothy Paterson (Roma, WriteUp Site 2019).

La storia dell’esploratore è salita di nuovo agli onori della cronaca dopo il film del 2017 “The Lost City Of Z” (Civiltà Perduta, in italiano), di seguito il link al trailer

Due sono al momento i libri che hanno raccontato la vicenda. Quello postumo a cura del figlio Brian, che raccoglie i diari del padre: Percy Harrison Fawcett, Esplorazione Fawcett, 1958 – Ed. Bompiani; e quello, più recente di David Grann, The Lost City of Z, 2009 – New York: Doubleday Publishing (dal quale è stato liberamente tratto il soggetto del film, prodotto tra gli altri dall’attore Brad Pitt).

La vicenda è nota: Percy Fawcett, esploratore di Sua Maestà britannica, partì per un’ultima spedizione nel Mato Grosso nel 1925, accompagnato dal figlio Jack e dal giovane amico di questi Rimmel.

Scopo della missione era rinvenire Z, così chiamava Fawcett la città che secondo lui era celata nel cuore più selvaggio del Brasile, il Mato Grosso, appunto. A fargli da guida, il Manoscritto n.512, attualmente custodito nella Biblioteca Nazionale di Rio de Janeiro, e una misteriosa statuina di basalto nero, sulla cui base erano incisi caratteri semi-alfabetici.

Dopo aver comunicato tre delle loro localizzazioni: Cuiabà,  Posto Bacairì e Campo Cavallo Morto, è un enigma capire le esatte coordinate dell’ultima, apparsa sulla stampa  solo il 4/07/1926, e quindi un anno dopo la scomparsa del gruppo, che da allora rimane avvolta dal più fitto mistero.

Che fine hanno fatto gli esploratori? Cosa cercavano veramente?

I lettori italiani rimarranno stupiti dal sapere che l’autrice ha avuto la fortuna di essere amica del pronipote dell’esploratore britannico, Timothy Paterson. La moglie di Fawcett, Nina Paterson, era infatti sua prozia materna.

Timothy, anch’egli ufficiale dell’esercito britannico, dopo lunghi anni di servizio si era trasferito in Italia, prima a Firenze e poi in provincia di Bolzano. In questo modo i due sono diventati amici.

Come scrive Margherita Detomas nell’introduzione del volume:

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Dopo averlo intervistato più volte, ho avuto il privilegio della sua amicizia e di accompagnarlo, dal 1996 in poi, negli ultimi viaggi in Brasile. Sono stata invitata a tenere una specie di diario di viaggio, e ciò mi ha dato l’occasione di avvicinarmi ai percorsi leggendari compiuti dall’esploratore britannico. […] Il mio ultimo viaggio con Timothy avvenne quando ormai era su una sedia a rotelle: un viaggio insolito e difficile per un esploratore, durante il quale ha potuto salutare tutti i suoi amici.

I primi articoli di Detomas sono apparsi a partire dal 2004, anno della scomparsa di Timothy, inizialmente sulla nota rivista Archeomisteri (direttore Roberto Pinotti). Ha poi presentato i risultati delle sue prime ricerche nella Repubblica di San Marino in una decina di edizioni del Simposio Mondiale sulle Origini Perdute delle Civiltà e gli Anacronismi Storico-Archeologici  dedicato alle “Eredità Perdute”. Naturale che a queste ricerche seguisse un libro, che si presenta ricco di informazioni, ed ha lo scopo, come più volte dichiarato dall’autrice, di aprire le porte del Mato Grosso all’archeologia accademica.

Il libro è un vero e proprio reportage giornalistico, ma avvincente e affascinante come un romanzo.

Una notizia Mondiale

L’autrice si preoccupa anzitutto di ricostruire la vicenda attraverso una attenta analisi della pubblicistica del tempo. Più che delle ricostruzioni sia del figlio, che degli oltre 100 esploratori che hanno seguito le orme di Fawcett alla sua rierca, decide di analizzare le informazioni che la compagnia trasmetteva di volta in volta alla stampa.

L’esclusiva del viaggio era stata venduta alla NANA (North American Newspaper Alliance) per Stati Uniti, Canada e Giappone, con copyright in Gran Bretagna
per il Daily News, in Germania per Verlag für Kultur Politik, in Australia per l’Australian Cable Service, in India, Ceylon e Sud Africa per la Reuter. I giornali brasiliani e il governo tutto erano in allerta e in grande agitazione per la spedizione: Fawcett era un professionista ben noto, e qualsiasi cosa avesse trovato (se l’avesse trovata…) doveva rimanere esclusivo appannaggio del Brasile.

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La prima novità del libro riguarda senza dubbio la localizzazione dell’ultima tappa nota. Brian indicava il luogo “Campo Cavallo Morto” a -11° 43’ di latitudine sud e -54° 35’ ovest. Ad altri, Fawcett avrebbe dato invece diverse e vaghe indicazioni, con la sua localizzazione posta a -13°-14° sud. Tra un punto e l’altro la distanza è enorme, soprattutto se si avanza a cavallo o a piedi.

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Secondo alcune prime ricostruzioni e poi secondo un lavoro di rilevamenti compiuti da esperti negli anni successivi alla sua scomparsa, che si sono avvalsi di aerei militari brasiliani confrontando i dati con le mappe, esisterebbero evidenti contraddizioni.

Come scrive Detomas:

Il luogo esatto da dove erano partiti i tre divenne, in quegli anni, un autentico rompicapo. L’esperto topografo inglese aveva dato indicazioni volutamente errate?

Secondo Timothy Paterson, la localizzazione a 13° gradi sud era la più plausibile. Lì infatti non vi è fitta foresta, ma ampi fiumi navigabili. Fawcett e i compagni sarebbero riusciti a raggiungere e ad attraversare il Rio Xingù e poi avrebbero proseguito verso il Rio Araguaia.

E proprio l’inaccessibile Xingù diventa il luogo di ricerca dell’autrice, la prima italiana a esserne entrata. Qui ha avuto modo di conoscere direttamente la tribù dei Kalapalo, secondo molti esploratori gli ultimi ad aver visto i tre britannici, e forse ad averne causato la morte. Ha trascorso con loro nella foresta mesi e mesi durante gli ultimi vent’anni, e continua tuttora a sostenere la loro lotta contro chi desidererebbe, oggi, farli semplicemente scomparire. La sua posizione è semplice: i Kalapalo sono una tribù forte e gentile, che ha accolto lei e gli altri esploratori con estrema cura e benevolenza, a patto di rispettarli nei loro usi e costumi. Così gli anziani raccontano a proposito di Fawcett:

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i vecchi del villaggio hanno sempre raccontato la stessa storia: molti anni fa, videro arrivare de barco (con la barca) dei caraibas (stranieri). Si fermarono nel villaggio per rifocillarsi e poi sparirono… Non furono uccisi dai Kalapalo e proseguirono il loro viaggio. Osservarono per alcuni giorni il fumo salire dal loro accampamento che era dall’altra parte del fiume e poi non lo videro più.

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«O segredo està no mato» (Il segreto è nella foresta), dicono nella loro lingua tradotta in portoghese. Infatti per l’autrice è molto più interessante cercare di rispondere alla domanda: cosa cercava Fawcett nella foresta?

La favolosa storia del manoscritto N°512: un mistero nella storia brasiliana

Tra le poche occidentali ad averne avuto la fortuna, Detomas ha potuto visionare di persona il Manoscritto n.512, conservato presso la Biblioteca Nazionale di Rio de Janeiro.

La vicenda narrate risale al 1753. Gli esploratori di origine portoghese, in cerca delle miniere di Muribeca, rinvenirono i resti di una misteriosa città. Il manoscritto, in portoghese, è stato interamente tradotto dall’autrice in italiano.

Videro un grande borgo, una città, che si estendeva per una lega e mezza […]Entrarono nella città all’alba con le armi in pugno, senza trovare uno che sbarrasse loro il passo. Trovarono tre archi di notevole altezza, quello centrale più grande e i due laterali più piccoli. Sul maggiore videro delle iscrizioni, ma non furono in grado di trascriverle perché poste troppo in alto. La strada che si apriva era ampia quanto i tre archi, e aveva su entrambi i lati delle case a due piani dalle facciate di pietra scolpita e oramai annerita. Per la loro regolarità sembravano far parte di un’unica proprietà, ma in realtà erano molte, alcune con terrazze scoperte, senza copertura […]Dopo aver percorso la lunga via, il gruppo giunse a una piazza regolare, al centro un’altissima colonna di pietra scura (basalto nero?), e sulla sommità la statua di un uomo con una mano sul fianco sinistro e “o braço direito estendido, mostrando com o dedo index o Polo do Norde” (col braccio destro teso e con l’indice a indicare il Polo Nord). In ogni angolo di questa piazza vi era una meridiana, che sembrava una di quelle usate dai romani. Sul la to destro vi era una dimora superba di qualche signore, e come ingresso un grande salone. Pieni di paura, non attraversarono tutte le stanze, che erano molte. Tantissimi erano anche i pipistrelli che si lanciavano sui loro volti. Sopra il portico principale, verso la strada, videro una figura un po’ in rilievo scolpita nella pietra, nuda dalla cintola in su, e con la testa cinta di alloro; rappresentava un giovane senza barba con indosso un gonnellino; sotto lo scudo di questa figura una specie di cartiglio con dei caratteri ormai rovinati dal tempo.

Ed ecco alcune trascrizioni delle incisioni riportate nel manoscritto, e riprodotte nel testo.

E’ stata questa lettura ad aver animato Fawcett nella sua esplorazione. L’autrice ricostruisce anche, in maniera molto bilanciata e senza inutili derive New Age, il contesto di idee in cui si muoveva Fawcett, per portare i lettori con garbo ed assennatezza a pensare in maniera diversa alla vicenda di Atlantide.

La famiglia Fawcett era naturalmente cosmopolita. Se Percy fu di stanza per diverso tempo in Sri-Lanka-Ceylon, e durante quella permanenza cominciò ad interessarsi alle antiche culture (esplorando tutte le aree di interesse archeologico), suo fratello Douglas Edward si trovava in India al seguito di Madame Blavastsky, l’eccentrica fondatrice della Teosofia, che tanti europei aveva conquistato.

Studioso di buddismo e induismo, Douglas Edward è stato anche scrittore. Nel suo volume del 1893, Hartmann the Anarchist, rappresentava, tra l’altro Londra bombardata da dirigibili e da strani aeroplani, lasciando supporre molto tempo prima di aver visto la guerra lampo della Prima Guerra Mondiale, vedendo piegati i pinnacoli del Parlamento e attorno ad essi molti edifici crollare. Questo è realmente successo, anche se non fu toccato il Parlamento.

La sua capacità di intravedere il futuro sembra essere testimoniata, secondo l’autrice, dal romanzo del 1895, The Secret of The Desert del 1895. Sulla copertina originale dell’epoca vi è ritratto un uomo con tipici abiti ed elmetto da esploratore. Il racconto ha come protagonista un archeologo di nome Arthur Manners, che lascia la campagna inglese per perlustrare l’Arabia centrale, vagabondando nel deserto in cerca di tribù sconosciute e rovine archeologiche.

Dopo alcuni anni di silenzio, alcuni amici si muovono a cercarlo e vengono a sapere che si era diretto verso la leggendaria “Oasi delle gazzelle” con rovine insolite risalenti al culto di Baal e abitata da discendenti dei Fenici, a memoria di un tempo glorioso, e con un tempio pieno di tesori. L’operazione di salvataggio scopre che l’esploratore era stato fatto prigioniero.

Gli amici riescono a liberarlo grazie a un veicolo che sembrava un mezzo corazzato, l’Antelope, con un motore a gas e impianto elettrico (questo vent’anni prima che il prototipo di carro armato apparisse davvero). Non avendo avuto tempo di recuperare nulla di quella civiltà perduta, rimane solo il racconto dell’esploratore a convincere gli increduli dell’esistenza della misteriosa oasi, quando ritorna sano e salvo. Chi, prima di lui aveva tentato di raggiungere l’oasi, o aveva perso la vita di stenti, o era stato ucciso. Per questo, il testo aggiunge, non sono stati forniti troppi dettagli sulla localizzazione del luogo impenetrabile.

Il romanzo sembra quasi prefigurare le sorti del fratello Percy!

Se dunque l’interesse per l’avventura era molto forte nella famiglia Fawcett, si può ritenere che non gli fossero estranei I miti circolanti su Atlantide, il continente perduto. Un luogo ritenuto ben presente sul piano fisico, ancora da esplorare. Il libro ricostruisce in modo molto dettagliato quali erano le idee del tempo, a partire da Platone, per continuare con romanzi, film e dichiarazioni dei ricercatori più famosi dell’inizio Novecento. Così Fawcett nel proprio diario:

Le mie indagini personali m’inducono a credere che due sedi di città antiche che mi propongo di esplorare, siano abitate da discendenti della razza dei fondatori, ora degenerati a causa del completo isolamento, ma che ancora conservano tracce della loro cultura originaria.

Se nella mente di Fawcett la città Z fosse Atlantide, oppure Eldorado, l’autrice non si azzarda ad affermarlo. La domanda che si pone è un’altra: l’esploratore aveva ragione a cercare ritrovamenti archeologici nel cuore della foresta?

Sembrerebbe di sì. Importanti sono, a tal proposito, le ricerche di Michael Heckenberger, dell’Università della Florida: lo studioso statunitense ha trovato canali, fossati, palizzate di cinta, costruzioni perimetrali e ceramiche che lasciano intravedere nelle loro stratificazioni una civiltà esistente molto prima dell’arrivo dei conquistadores. E se questo non dovesse bastare, l’autrice ha inserito in corpose appendici finali una rassegna compelta, con sue proprie foto, dei principali ritrovamenti archeologici della regione, visitati, studiati e documentati.

Il dossier Fawcett, mai chiuso, viene quindi arricchito nel libro, di nuove e più interessanti domande. Non come e dove finì la missione britannica, quanto piuttosto: il fiuto di Percy esploratore lo aveva effettivamente condotto ad un ritrovamento archeologico che potrebbe sconvolgere tutto quello che oggi sappiamo della recente storia umana su questo pianeta?

Se, come sostiene l’autrice, è lui il vero precursore della figura di Indiana Jones, Roberto Pinotti (direttore di Archeomisteri, n.d.r.), ha definito la giornalista una “Lara Croft” tutta italiana.

Possibile che una reporter della nostra emittente nazionale sia la più vicina a risolvere il mistero più fitto ed intrigante del Sud America?

Per scoprirlo, basta leggere il volume e mettersi sulle tracce di Fawcett insieme a lei.


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