Le Streghe Orientali: la squadra giapponese che ispirò “Mila e Shiro” e “Mimì”

Il 10 ottobre 1964, a Tokyo, l’ultimo tedoforo porta la fiamma che deve accendere il braciere olimpico. Non è un atleta, ma nessuno meglio di lui può rappresentare la voglia di rinascita e riscatto di un Giappone ancora alle prese con la ricostruzione post-bellica: è Sakai Yoshinori, studente universitario di 19 anni, nato a Hiroshima 90 minuti dopo lo scoppio della bomba atomica.

Yoshinori Sakai corre verso il braciere olimpico

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Quelle Olimpiadi, le XVIII dell’era moderna, sono per il Giappone un evento che va ben al di là dell’aspetto sportivo. E’ la prima volta che i Giochi estivi si svolgono in Asia, e per il paese nipponico la competizione segna una svolta, proprio come dimostrazione della rinascita del Paese, ma non solo. E’ anche il punto di partenza per lo sviluppo dello sport femminile, grazie alla visibilità ottenuta dalle atlete di casa in un palcoscenico mondiale, anche se le donne (di ogni paese) possono gareggiare all’incirca in un terzo degli sport riconosciuti dal CIO.

In quelle Olimpiadi del 1964, per la prima volta, la pallavolo viene riconosciuta come disciplina olimpica. Le squadre femminili rischiano di veder annullato il loro torneo, perché una delle sei selezioni (il minimo previsto dal CIO), quella della Corea del Nord, all’improvviso si ritira. I Giapponesi, assolutamente certi della vittoria della loro squadra, che si sta preparando a quell’evento da due anni, con allenamenti costati lacrime e sangue e molto altro, rimediano finanziando una squadra sudcoreana, in verità poco degna di partecipare.

Giappone – URSS alle olimpiadi di Tokyo del 1964

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La vittoria della squadra di casa è talmente schiacciante che la rivista americana Time commenta:

“[Per la prima volta, la pallavolo era nel] programma olimpico la scorsa settimana, ed è un bene che il Giappone non abbia mandato le sue donne in guerra. Guidata dal Capitano Masae Kasai, 31 anni, che ha rotto il suo fidanzamento per allenarsi per le Olimpiadi, la squadra femminile giapponese, punteggiando ogni colpo con cori banzai di ‘Hai! Ehi!’, ha battuto così male la Russia in finale che le donne moscovite si sono chiuse negli spogliatoi per un bel pianto. Le ragazze giapponesi hanno imparato la pallavolo sotto la guida dell’allenatore Hirobumi Daimatsu, della squadra campione nazionale Nichibō Spinning Co. Allegramente confessa che i suoi metodi di allenamento sono “selvaggi”. Ospitate in dormitori presso lo stabilimento Nichibō, le ragazze lavorano dalle 8 alle 16, e si allenano tutti i giorni dalle 16.30 fino a mezzanotte con un’interruzione di soli 15 minuti. Un tipico esercizio di allenamento: la ricezione, una manovra acrobatica in cui le ragazze si lanciano a terra per recuperare la palla – fino a quando non sono così sfinite da non potersi più alzare. A quel punto, l’allenatore Daimatsu di solito ringhia: – Perché non smetti? -“

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Quella finale tra Russia e Giappone rappresenta, per i nipponici, una sorta di rivincita per le ferite della guerra ancora aperte (molti prigionieri di guerra erano finiti in Siberia). Allora “battere i sovietici” è un mantra ripetuto chissà quante volte negli allenamenti, da quell’allenatore soprannominato “demone”, che durante la guerra, giovanissimo, ha comandato un’unità di 40 uomini, costretti ad attraversare impervie montagne per spostarsi dalla Cina all’India per partecipare all’Operazione Imphal, senza cibo e tutti presi da febbri malariche e dissenteria.

Quella devastante esperienza si trasforma in un “atteggiamento positivo”: da allenatore, trasmette alle sue giocatrici la forza di carattere acquisita in guerra. Le ragazze sono sottoposte, più che a un allenamento, a una ferrea disciplina militare:

“Il secondo posto non significa nulla. A meno che tu non sia il numero uno, i tuoi sforzi sono inutili” ripete alle atlete, come se le partite di pallavolo fossero battaglie da vincere a ogni costo.

Le atlete che compongono la squadra olimpica fanno tutte parte, tranne due, della squadra Nichibo Kaizuka, di cui il demone Daimatsu è l’allenatore. Quelle donne sono, prima che pallavoliste, lavoratrici della fabbrica tessile Dai Nippon Spinning Co., abituate ad obbedire senza discutere agli ordini dei supervisori, ovviamente tutti uomini. Quello schema si ripete anche negli allenamenti sportivi, affidati a Hirofumi Daimatsu, anche lui impiegato della stessa fabbrica.

La terribile esperienza della guerra (è uno dei pochi sopravvissuti alla battaglia di Imphal) opera, a suo dire, un cambiamento nel suo carattere: si sente una persona migliore ed è convinto, con l’uso (e l’abuso) di una dura disciplina, di fare del bene a quelle ragazze, sopratutto al di fuori dell’ambito sportivo:

“Ci sarà un momento in futuro in cui le mie giocatrici saranno sposate con uno o due figli, e poi guarderanno indietro con nostalgia a questo periodo giovanile. Coloro che possono guardare indietro a questo periodo e avere molti ricordi, saranno pieni di felicità. Coloro che non conoscono la tensione mentale e le difficoltà della disciplina, e coloro che cantano inni di lode per i giorni giocosi della giovinezza, sono mal addestrati per le faccende domestiche e finiscono per trascorrere le loro giornate oziando. Inoltre, non hanno ricordi profondi a cui guardare ed essere inondati di felicità.”

In definitiva, Daimatsu è convinto di lavorare per rendere le “sue” ragazze delle persone migliori e più felici. Come sia andata con la felicità non sappiamo dirlo, certo è che la parabola ascendente di questa squadra di dilettanti ha veramente qualcosa dell’incredibile.

Alla fine del 1953, i dirigenti della Nichibo decidono che la loro squadra aziendale di pallavolo deve diventare la più forte del paese. Incaricano quindi uno degli impiegati, Daimatsu appunto, di occuparsi della cosa, visto che lui ha giocato in una squadra universitaria.

La scelta si rivela felice, almeno dal punto di vista agonistico: lui è un oni, un demonio, che riesce a ottenere da quelle ragazze l’impossibile. Raduna nella sede di Kaizuka (una cittadina vicina ad Osaka) le migliori giocatrici da tutte le fabbriche del Paese, e dal quel momento l’unico scopo per loro è trasformarsi in invincibili campionesse, senza però smettere di lavorare.

Otto ore alle macchine tessili e poi, dopo mezz’ora di riposo, otto ore di allenamenti senza sosta e nessuna pietà per chi stramazza a terra (“Tornatene da tua madre” dice a chi non si risolleva all’istante), poi tutte a dormire, negli alloggi della fabbrica stessa. Questo per sei giorni alla settimana, tutto l’anno. Praticamente una vita di clausura, dove lavoro e allenamenti sono l’unica realtà delle ragazze. Questo sistema spartano dà però i suoi frutti:

Nel giro di un anno, quella squadra di dilettanti vince tre titoli minori, e nel 1958 ben 5 tornei nazionali

E’ il momento di volgere lo sguardo alle competizioni internazionali, ma c’è un problema: il Giappone ancora adotta il sistema con 9 giocatori, mentre nel resto del mondo vige quello a 6 giocatori, che peraltro si differenzia anche per altre cose (la palla, l’altezza della rete e ruoli differenti in campo).

La sfida è difficile, ma le ragazze della Nichibo Kaizuka la vincono: ai campionati mondiali del 1960 arrivano seconde, dopo l’Unione Sovietica, peraltro nazione campione in carica.

Il demone avrebbe di che essere soddisfatto, ma lui no, non lo è: la medaglia d’argento è una sconfitta. L’anno seguente la nazionale giapponese gioca in tutta Europa, collezionando 24 vittorie consecutive e arriva ai successivi campionati mondiali del ’62, con il soprannome di Streghe orientali, e una fama di imbattibilità. Si gioca a Mosca, ma non c’è storia neanche per la squadra di casa, detentrice del titolo, che passa, meritatamente, al Giappone.

Giappone – Polonia – Olimpiadi di Tokyo 1964

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A quel punto le atlete, e perfino Daimatsu (che ha una trentina d’anni) vorrebbero finalmente riappropriarsi della loro vita, mettere su famiglia, scopo principale di una donna giapponese, per quanto campionessa, come aveva d’altronde sottolineato lo stesso allenatore.

Accade però che la pallavolo venga inserita tra le discipline olimpiche e l’imbattibile squadra non può tirarsi indietro: la federazione nazionale invita le atlete a non mollare, mentre i fan implorano per quell’ulteriore sacrificio.

Che fare? Non è possibile deludere il Paese e così le ragazze vanno avanti per altri due anni: lavoro dalle 8 alle 15 e poi estenuanti allenamenti fino a notte (per dovere di cronaca, anche l’allenatore lavora in fabbrica la mattina e poi segue le atlete).

L’11 ottobre 1964 inizia il torneo olimpico di pallavolo femminile, dove le giapponesi sbaragliano le atlete di Stati Uniti, Romania, Corea del Sud e Polonia.

Giappone – URSS alle olimpiadi di Tokyo del 1964

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Il 23 ottobre c’è la finale, da disputare contro l’Unione sovietica: finisce 3 a 0 per le nipponiche. Le Streghe orientali si aggiudicano anche l’oro olimpico. Il demone Daimatsu ha, incredibilmente, le lacrime agli occhi, mentre le sue atlete piangono senza ritegno: dopotutto loro sono donne e possono farlo.

Masae Kasai in piedi al centro del podio come capitano delle Streghe orientali, squadra nazionale giapponese di pallavolo femminile

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Le Streghe orientali passeranno alla storia come la squadra di pallavolo femminile che ha collezionato 175 vittorie consecutive, per la figura di quell’allenatore simile a un demonio che non ammetteva sconfitte, e anche per aver ispirato un anime, Mimì e la nazionale di pallavolo, dove i metodi del coach sembravano fuori dalla realtà ma corrispondevano al vero.

E’ invece da poco uscito un documentario francese, The Whitches of the Orient, di cui è disponibile il trailer.


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