Le Scalae Gemoniae: i Gradini della Morte nella Roma Imperiale

A Roma, sul colle del Campidoglio, è famosissima la Rupe Tarpea, legata a un episodio della storia più antica della città, dove mito, leggenda e realtà si confondono: la vestale Tarpea tradisce il suo popolo, forse per avidità o forse per amore, facendo entrare nell’Urbe i guerrieri sabini che volevano vendicare il ratto delle loro donne. La donna viene uccisa forse dai Romani o forse dagli stessi Sabini, e comunque da allora tutti i traditori sono gettati giù dalla Rupe, simbolicamente “espulsi” dalla città.

La Rupe Tarpea

Immagine di Lalupa via Wikipedia – licenza CC BY-SA 4.0

Poco distanti dalla Rupe, ma molto meno conosciute, lì nel cuore dell’Urbe, a collegare il Foro con il Campidoglio, probabilmente tra il Tempio della Concordia e il Carcere Mamertino, c’erano le Scalae Gemoniae, chiamate anche scale del lutto: in età imperiale erano un luogo di esecuzione per chi si macchiava del reato di lesa maestà.

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La scalinata fu quasi certamente costruita durante il regno di Augusto (prima non se ne trova menzione in nessun documento), ma fu l’imperatore Tiberio a usarle per primo per quello scopo nefasto e dai contorni raccapriccianti. Perché se è vero che i condannati, prima di essere gettati dalle scale, venivano strangolati, è altrettanto vero che i loro corpi venivano lasciati “esposti” ai piedi delle scale diverso tempo, soggetti alla profanazione da parte del popolo e poi in balia degli animali. Solo dopo qualche giorno i resti venivano gettati nel fiume Tevere.

Mappa del Campidoglio con la freccia rossa a indicare la probabile posizione delle Scalae Gemonie

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Era evidentemente una morte estremamente disonorevole, non risparmiata a cittadini anche di altissimo rango, come il potentissimo e ambiziosissimo prefetto del pretorio Seiano, probabilmente il più ascoltato consigliere di Tiberio, che però non esitò a ordinarne l’arresto quando scoprì le sue (presunte) trame contro di lui. L’imperatore non era a Roma, e fu quindi il Senato a ordinarne la damnatio memoriae e a condannarlo a morte.

Il traditore fu strangolato, gettato giù dalle Scalae Gemoniae, e il suo corpo fu lasciato in balia dell’odio del popolo. Ma non è tutto: anche i suoi figli furono condannati a morte e gettati dalle Scale del lutto, compresa la giovane Iunilla, fanciulla che, per legge, non poteva essere giustiziata perché ancora vergine. Ci pensò un centurione a risolvere la faccenda:

La stuprò sul patibolo

Il popolo si accanisce sul cadavere di Seiano

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Alla notizia della morte di Tiberio, nel 37 d.C, pare che la plebe romana pretendesse “Tiberio sul Tevere”, cosa che non ottenne, anche se all’imperatore furono riservate modeste onoranze funebri, tra gli insulti del popolino.

Con la fine del regno di Tiberio l’uso delle Scalae Gemoniae come luogo di esecuzione fu notevolmente ridotto.

Nonostante ciò, nel 69 d.C, fece una misera fine sulle Scale del Lutto perfino Vitellio, generale divenuto imperatore in quel turbolento periodo conosciuto come “anno dei quattro imperatori”. Dopo solo otto mesi di regno, Vitellio accettò di arrendersi a Vespasiano.

Non fu un grande sovrano Vitellio, che aveva accettato il titolo di Imperatore suo malgrado, e del quale si sarebbe disfatto volentieri alle prime avvisaglie di rivolta. Dopo essersi nascosto, progettando la fuga verso Terracina, commise l’errore di tornare a palazzo, credendo che la sua resa fosse stata accettata. Lì lo trovò, ubriaco e satollo più del solito, un tribuno che lo trascinò fuori. Fu condotto lungo la Via Sacra, legato per il collo e con una spada puntata sul viso, soggetto alle ingiurie del popolo, e “finito” alle Gemoniae, come racconta lo storico Svetonio:

“C’era chi gli gettava sterco e fango e chi gli gridava incendiario e crapulone. La plebaglia gli rinfacciava anche i difetti fisici: e in realtà aveva una statura spropositata, una faccia rubizza da avvinazzato, il ventre obeso, una gamba malconcia per via di una botta che si era presa una volta nell’urto con la quadriga guidata da Caligola, mentre lui gli faceva da aiutante. Fu finito presso le Gemonie, dopo esser stato scarnificato da mille piccoli tagli; e da lì con un uncino fu trascinato nel Tevere.”

Le uniche parole degne di nota pronunciate da Vitellio furono anche le ultime: “Sì, io fui una volta il vostro imperatore”.

Vitellio trascinato per le strade di Roma

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Dopo questa esecuzione, anche grazie all’imperatore Domiziano che diede ai condannati la possibilità di scegliere in che modo essere giustiziati, e che probabilmente proibì il vilipendio dei cadaveri, delle Scalae Gemoniae si sente poco parlare, se non in occasione della morte di Decebalo, nel 106 d.C, durante il regno di Traiano. Decebalo, ultimo re della Dacia, dopo la definitiva sconfitta subita dai romani si suicidò tagliandosi la gola. La sua testa fu portata a Roma, esibita durante il Trionfo di Traiano, e infine gettata dalle Scalae Gemoniae.

Via di San Pietro in Carcere

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Oggi le scale, o Gradus Gemitorii, come le chiamavano anche i romani, non esistono più, ma si ritiene che si trovassero approssimativamente dove oggi c’è la Via di S.Pietro in carcere.


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