Le portatrici carniche: eroine dimenticate della Prima Guerra Mondiale

In Italia è esistita un’unica caserma militare intitolata a una donna. Il 12 marzo 2016 quella caserma degli Alpini a Paluzza, in provincia di Udine, è stata dismessa definitivamente, per poi essere demolita pochi mesi dopo.

Dell’edificio è rimasto solo un cippo commemorativo su cui è inciso il nome di colei a cui era intitolata la caserma:

Maria Plozner Mentil

Il nome di Maria Plozner Mentil è solo il più famoso e il più ricordato di migliaia di donne che la Storia ha accantonato fino a quasi dimenticarsene, ma il cui contributo è stato fondamentale per i soldati italiani di stanza in Carnia durante la Prima Guerra Mondiale: si tratta delle portatrici carniche.

La Carnia e Timau

Il 28 giugno 1914, un attentato a Sarajevo spezza la vita dell’arciduca Francesco Ferdinando d’Asburgo, erede al trono dell’impero austro-ungarico, e di sua moglie Sofia. L’evento fu il casus belli che diede il via a un effetto domino in cui tutte le principali potenze europee ed extraeuropee furono, una dopo l’altra, coinvolte in quella che passerà alla Storia come la Prima Guerra Mondiale, dal 1914 al 1918.

L’entrata in guerra dell’Italia avvenne all’incirca dieci mesi dopo lo scoppio del conflitto, il 24 maggio 1915. L’esercito italiano si trovò impegnato principalmente in azioni belliche sule Alpi Orientali, con combattimenti concentrati soprattutto sulle Dolomiti e presso l’altopiano carsico.

Nei piani militari dell’Italia occupava una certa rilevanza la Carnia, una zona montana del Friuli, impervia e isolata e spesso falciata da venti freddi e forti piogge, e dove in inverno la neve può cadere per giorni.

Questa regione montana era stata posta sotto il diretto controllo del Comando Supremo dell’esercito italiano: al confine con il fronte austriaco, la Carnia era un avamposto di estrema importanza, poiché lo sfondamento di uno dei suoi valichi, il passo di Monte Croce Carnico, avrebbe permesso all’esercito austro-ungarico di discendere nelle valli del But e del Chiarsò, invadendo così l’Italia.

Data l’importanza strategica della Carnia, il Comando Supremo vi aveva schierato ben trentuno battaglioni, e la media dei soldati presenti quotidianamente nella zona si aggirava intorno ai dodicimila uomini.

Sin dalle prime settimane successive all’entrata in guerra dell’Italia, il Comando Logistico della Zona realizzò che i combattimenti in trincea, le malattie e gli agguati del nemico non erano l’unica difficoltà che i soldati italiani schierati in Carnia dovevano affrontare: i battaglioni avevano bisogno di rifornimenti di cibo, indumenti e medicinali – rifornimenti che non potevano giungere con facilità.

Data la natura impervia della Carnia, non esistevano linee ferroviarie che potessero raggiungere la zona, né strade carrabili, e ben presto fu anche abbandonato un progetto di carrucole che avrebbe dovuto trasportare i rifornimenti all’esercito. Data l’importanza vitale della difesa del fronte carnico, era inoltre impensabile privarlo di alcuni soldati per destinarli a mansioni di trasporto di viveri e munizioni.

Si rese dunque necessario e inevitabile rivolgersi ai civili delle valli circostanti per ricevere aiuto.

Una domenica del 1915, uno degli ufficiali stanziati in Carnia abbandonò per un giorno il fronte e discese nella valle del But, recandosi a Timau, il centro abitato più vicino al passo di Monte Croce Carnico. Gran parte degli abitanti era riunita in chiesa per assistere alla funzione domenicale, e al termine della messa l’ufficiale si avvicinò al sacerdote e gli comunicò le difficoltà affrontate dall’esercito italiano.

L’ufficiale pregò il prete di chiedere se qualcuno degli abitanti di Timau fosse disponibile a prestare servizio al fine di rifornire i soldati stanziati sulle alture della Carnia. Poiché la maggior parte degli uomini erano stati convocati al fronte, a Timau come nei vicini centri abitati la popolazione era composta quasi esclusivamente da anziani, bambini e donne.

Fu alle donne di Timau che il sacerdote rivolse l’appello dell’ufficiale. Inizialmente, la richiesta venne accolta con titubanza: non solo trattava di una missione rischiosa e faticosa, ma avrebbe sottratto tempo prezioso alla gestione della casa, alla cura degli animali e al lavoro nei campi, all’assistenza agli anziani, ai malati e ai bambini.

Tuttavia, esse si rendevano conto della situazione critica in cui versavano i soldati; infine, Maria Plozner Mentil, una giovane madre di quattro figli il cui marito si trovava in servizio presso un’altra zona del fronte italiano, disse: “Andiamo, altrimenti quei poveretti muoiono anche di fame”.

Le portatrici

La voce si diffuse rapidamente, e in breve tempo alle volontarie di Timau si aggiunsero anche altre donne provenienti dai paesi circostanti, come Arta Terme, Paluzza e Rigolato. Il Comando Militare istituì dunque un Corpo di Ausiliarie, che dal 1915 al 1917 contò circa 1.500 volontarie.

Le volontarie erano tutte donne, di un’età compresa fra i dodici e i sessant’anni. Il loro compito era di rifornire quotidianamente i soldati sul fronte carnico. Per fare ciò, le portatrici carniche – così vennero denominate – si avvalsero dell’uso delle gerle: ceste in legno, vimini, viburno o corde intrecciate a formare un cono rovesciato, munite di cinghie o lacci che permettevano loro di essere trasportate sulle spalle.

Le gerle erano spesso utilizzate dalle donne friulane per trasportare legna o fieno, ma le portatrici carniche le riempivano con tutto ciò che sarebbe occorso ai soldati: vettovaglie, medicinali, vestiti, ma anche munizioni, armi, granate, assi di legno, sabbia e sassi per costruire strade per i militari.

Sebbene non vennero mai inquadrate in un vero e proprio reggimento né furono mai considerate dei veri e propri militari, il Comando fornì loro un braccialetto rosso contrassegnato dal numero identificativo del reparto da cui dipendevano, e un libretto su cui era annotata la merce trasportata nella gerla.

Le portatrici iniziavano la loro giornata all’alba, ma in caso di necessità o emergenza potevano essere chiamate a ogni ora del giorno e della notte. A gruppi di quindici o venti volontarie, le donne attraversavano la valle per fare tappa ai depositi e ai magazzini militari, dove ricevevano il carico di merce da consegnare ai soldati. Dopodiché, con le gerle in spalla, s’incamminavano a piedi lungo i versanti della montagna.

Le uniche strade agibili erano sentieri e mulattiere, che le portatrici percorrevano con un carico sulle spalle che poteva arrivare anche a quaranta chili, e affrontando dislivelli che variavano dai 600 ai 1.200 metri.

La durata di ogni viaggio era compresa fra le due e le cinque ore, e il medesimo percorso poteva ripetersi anche più di una volta al giorno. Il Comando Militare retribuiva ogni portatrice pagando una lira e cinquanta centesimi per ogni viaggio e fornendo tre pasti gratuiti al giorno – una tazza di caffè a colazione, una scodella di brodo a pranzo e un piatto di pasta per cena.

Una volta giunte a destinazione, le portatrici svuotavano le gerle e consegnavano la merce ai soldati, fermandosi qualche ora per riposare e per riferire ai militari le ultime novità dalla valle. Al ritorno, le gerle potevano essere riempite nuovamente con la biancheria e gli indumenti dei soldati, che le portatrici s’incaricavano di lavare e di riportare indietro al viaggio successivo; spesso, tuttavia, le portatrici erano anche incaricate di trasportare a valle i feriti su delle barelle, o le salme dei caduti, che le donne stesse si occupavano di seppellire nel cimitero di Timau.

Spesso, durante la scalata, le portatrici recitavano delle preghiere o intonavano delle canzoni popolari: era questo un modo per esorcizzare la paura dovuta al fragore delle bombe in lontananza e dal costante timore dei cosiddetti diavoli bianchi – così venivano chiamati i cecchini austro-ungarici appostati dietro le rocce della montagna.

Maria Plozner Mentil

Il lavoro delle portatrici carniche proseguì incessantemente per ventisei mesi, interrompendosi solo quando, nel 1917, il fronte carnico dovette abbandonare l’avamposto. Nel corso di quei tre anni, alcune portatrici furono ferite dai cecchini austriaci.

Maria Muser Olivotto venne raggiunta da una pallottola alla gamba sinistra mentre, un freddo giorno del febbraio 1916, con un gruppo di altre donne e di anziani cercava di sgomberare un sentiero sepolto dalla neve, mentre Maria Silverio Matiz fu ferita a un braccio da una scheggia di granata.

L’unica portatrice a essere uccisa “in servizio” fu Maria Plozner Mentil, la stessa donna che aveva dato avvio, con le sue parole, all’impresa delle volontarie

Persi i genitori in giovane età, Maria era sposata con Giuseppe Mentil, un soldato di stanza sul Carso, e a trentadue anni era madre di quattro bambini. Il 15 febbraio 1916, Maria si attardò per finire di allattare il figlio più piccolo, e iniziò la scalata in compagnia della sua amica Rosalia Primis, con la gerla carica di munizioni.

Verso le undici di mattina, Maria e Rosalia si fermarono un attimo per riposare: fu in quel momento che un cecchino austriaco le avvistò e fece fuoco. Rosalia venne ferita gravemente, ma sopravvisse; Maria, invece, trasportata all’ospedale da campo di Paluzza, morì il giorno successivo.

Maria Plozner Mentil venne sepolta con onori militari a Paluzza, e nel 1934 il suo feretro venne trasferito nel tempio Ossario di Timau accanto ai resti di altri 1763 caduti sul fronte.

Maria Plozner Mentil divenne il simbolo del coraggio e dell’abnegazione delle portatrici carniche, figure che furono progressivamente dimenticate dalla Storia e la cui memoria, nonostante le cronache, i monumenti e i riconoscimenti a esse dedicati, è stata offuscata da altre imprese e vive quasi esclusivamente nel ricordo dei discendenti di queste donne.


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