Le origini indoeuropee riscoperte da Marija Gimbutas

A scuola impariamo che dopo la scomparsa dei dinosauri e l’evoluzione dell’uomo da australopiteco a homo sapiens arrivò in Europa una popolazione chiamata indoeuropea che la colonizzò e che diede vita a grandi civiltà da cui evolsero i più celebri come Greci e Romani. Ciò che non sappiamo è che questa teoria degli indoeuropei è abbastanza recente: venne ipotizzata nel XVIII secolo, e non partì da nessun fondamento storico, bensì linguistico.

Infatti, fino al 1600 circa, la credenza diffusa era quella di matrice biblica: tutta l’umanità discende da una sola coppia, ovvero Adamo ed Eva, e la lingua originaria una sola, l’ebraico, smembrata poi in tante lingue dopo l’episodio della torre di Babele e il conseguente castigo di Dio. Inoltre, ciò che mancava era anche la concezione di lingua come sistema in continuo movimento e continua evoluzione. Si era convinti di parlare ancora come all’epoca di Cicerone, modello insuperato della lingua scritta scientifica, quando in realtà il latino era già stato superato e le lingue romanze già formate e autonome. I dubbi sorsero grazie a mercanti e missionari, i quali, nel XIV secolo, cominciarono a viaggiare sempre di più verso l’Asia. Vennero notate subito molte somiglianze nella denominazione numerale europea e nelle lingue indiane, ma era un punto troppo debole perché la gran parte degli studiosi vi si concentrasse.

Si notarono delle somiglianze anche nelle denominazioni delle relazioni familiari, ma anche in questo caso, le somiglianze di tipo lessicale non sono di forte impatto sulla comunità scientifica, perché possono esistere sulla base di semplici prestiti linguistici, frutto di contatti ravvicinati tra le popolazioni. Non si riusciva però ad avere dimostrazioni di tipo grammaticale, quelle che avrebbero subito acceso l’interesse di tutti.

Tabella delle lingue indoeuropee – Immagine di Zoti Zeu via Wikipedia condivisa con licenza CC BY 2.0

Fu nel XIX secolo, coincidente con il Romanticismo, che la lingua indiana divenne davvero accessibile agli europei. Il sanscrito, lingua eletta come lingua originaria per la sua antichissima tradizione, arrivò in Europa grazie alle grammatiche create da monaci missionari e studiosi, grazie alla collaborazione con studiosi indiani. La nascita della linguistica indoeuropea venne fissata nel 1816, con la pubblicazione del volume “Über das Conjugationssystem der Sanscritsprache in Vergleichung mit jenem der griechischen, lateinischen, persischen und germanischen Sprachen” (Sul sistema di coniugazione della lingua sanscrita nella comparazione con quello delle lingue greca, latina, persiana e germanica) di Bopp, che gli valse la cattedra di Sanscrito e Grammatica comparata all’Università di Berlino.

Bopp racchiuse nel volume tutte le similitudini lessicali tra il sanscrito e le lingue europee, dando adito alle teorie che cominciavano a circolare, ovvero che la lingua fosse nata in India e che successivamente la popolazione che la parlava fosse arrivata in Europa, colonizzandola. Con il tempo questa tesi cambiò, dando così inizio a un processo chiamato “desanscritizzazione”, ipotizzando che il luogo originario fosse un altro e poi il popolo in questione abbia conquistato l’India, demolendo così il principio “ex Oriente Lux, ex Occidente Lex”, ovvero la luce della civiltà a oriente, e la legge della civiltà a occidente.

Testo sanscrito – Immagine di pubblico dominio via Wikipedia condivisa con licenza CC BY 4.0

Tutto partì dalle caratteristiche fisiche: si ipotizzò che questo popolo originario avesse i capelli biondi e gli occhi azzurri e fossero dolicocefali (con il cranio allungato), ovvero il contrario di greci e romani, che comunque rimasero affascinati dalla prestanza fisica di questo popolo.

Cranio Dolicocefalo:

La terra d’origine, dunque, non poteva essere l’India, ma doveva essere il nord Europa. Non si sapeva con quale nome si chiamasse questa gente, ma facendo il percorso filologico al contrario, ovvero partendo dal presente e andando indietro cronologicamente, si arrivò al termine *arya, ovvero signori. Queste ipotesi degenerarono all’inizio del XX secolo, quando fecero da base alle ideologie dei sostenitori del nazionalsocialismo, che chiamavano sé stessi ariani. Ironia della sorte, studi più recenti dimostrarono che la parola *arya non facesse parte del lessico indoeuropeo, bensì del lessico camito-semitico; quindi, la parola ariano è a tutti gli effetti una parola ebraica.

Durante il XX secolo, i linguisti si resero conto che gli studi non erano sufficienti per risolvere la questione indoeuropea, perché la linguistica si concentra principalmente e quasi esclusivamente sulle mutazioni lessicali, ignorando le varietà culturali di ogni popolo e la sua cronologia. Si chiese così aiuto agli archeologi, perché la loro disciplina va a colmare le mancanze della linguistica. Nacque così l’archeologia linguistica, disciplina che tenta di mettere d’accordo queste due materie così distanti. In questo modo si poteva cercare l’Urheimat, ovvero la nostra patria originaria, facendo combaciare le ricostruzioni lessicali con i ritrovamenti archeologici. Attraverso la ricostruzione di alcune parole, si cercò di individuare la patria originaria, tenendo conto che nel tempo il fenomeno o l’oggetto indicato da una data parola possa cambiare, e anche il modo di vivere degli indoeuropei, ipotizzando per la prima volta che fosse un popolo sedentario e non nomade.

Venne poi mossa da Pictet un’ipotesi alquanto stravagante, ovvero che la patria originaria fosse la sterminata steppa nel sud della Russia, luogo che non aveva nessuno degli elementi di flora e fauna a cui si era risaliti con la ricostruzione linguistica. Anche se all’inizio quest’ipotesi venne snobbata da più, trovò la sua più grande sostenitrice nell’archeologa lituana Marija Gimbutas, che dimostrò che in quei territori abitava una popolazione seminomade, chiamata da lei popolazione kurgan (termine slavo che indica i tumuli), che corrisponde culturalmente agli indoeuropei.

Il popolo Kurgan viveva nelle steppe nel sud della Russia, ma si intuisce la loro natura seminomade perché sono stati ritrovati in altre zone, anche lontane dalla Russia, resti delle loro abitazioni, o comunque tracce del loro passaggio. I kurgan si spostarono in momenti differenti: la prima ondata li portò nelle zone dell’Iran, del Pakistan e dell’India; durante la seconda ondata, verso il IV millennio a.C., si spostarono fino al mar Adriatico e al mare Egeo, colonizzando i Balcani. Questo popolo praticava l’allevamento, ma non conosceva l’agricoltura. L’ipotesi è supportata dal fatto che nella lingua comune indoeuropea il lessico legato all’agricoltura è molto ridotto se non del tutto assente; quindi, si ipotizza che quando gli indoeuropei arrivarono in Europa, le popolazioni preindoeuropee praticavassero già l’agricoltura; di conseguenza, tutti i riti e le parole legate a questa pratica sono di origine preindoeuropea.

Marija Gimbutas – Immagine di SolarisAmigo via Wikipedia condivisa con licenza CC BY 3.0

L’agricoltura fu la caratteristica che rese identificabile ciò che venne denominato Vecchia Europa, e nessuno si diede da fare più di Marija Gimbutas per riportarla alla luce. La Vecchia Europa fu preindoeuropea e coincise con il neolitico. La popolazione della Vecchia Europa prediligeva i territori pianeggianti, con un terreno di buona qualità e con una fonte d’acqua vicina. Le case erano piccole e tutte delle stesse dimensioni, e questo fa pensare che la società non fosse divisa in classi sociali, facendo dunque ipotizzare una teocrazia.

Allevavano e cacciavano, sapevano usare le pietre e usavano solo alcuni metalli, come l’oro, non tanto per armi e oggetti difensivi, quanto per gioielli e orpelli. Ciò sottolinea il fatto che i popoli della Vecchia Europa fossero di indole pacifica, a differenza dei bellicosi kurgan che arrivarono più tardi e li conquistarono, attratti dalle ricchezze e dalla cultura sviluppatesi in Europa. Questo periodo fu l’epoca d’oro per il genere femminile: la divinità più venerata era la Grande Dea, la società era matriarcale, così come la linea di eredità era matrilineare, la verginità non aveva nessun valore morale, le donne potevano scegliere i loro mariti, senza contemplare l’adulterio, crescevano i figli insieme agli zii, passavano il loro nome, e, osservando le tombe, avevano la stessa importanza sociale degli uomini. Tutto coincideva con le civiltà cretesi ed etrusche.

Affresco del palazzo di Cnosso – Immagine di cavorite via Wikipedia condivisa con licenza CC BY 2.0
Sarcofago etrusco – Immagine di pubblico dominio via Wikipedia condivisa con licenza CC BY 3.0

I kurgan arrivarono in tre grandi ondate tra il V e il III millennio a.C. e da lì le civiltà europee esistenti si estinsero quasi del tutto, lasciando qualche sporadica traccia linguistica. Si è pensato che la linguistica, nuovamente, potesse venire in aiuto per trovare le parole preindoeuropee. Ciò che cambia meno frequentemente nel corso della storia è la toponomastica, in particolare l’idronomia, cioè i nomi dei corsi e delle masse d’acqua.

Sorge però un problema di fondo: tra un’incursione e l’altra degli indoeuropei trascorsero circa mille anni, un tempo lunghissimo per una lingua, che arriva a trasformarsi drasticamente dalla sua forma originaria. Per fare un esempio pratico, nel secondo dopoguerra la Germania rimase divisa per circa trent’anni: al momento della riunificazione, uno dei problemi più urgenti per il nuovo governo federale fu quello di codificare una nuova grammatica per far fronte alle discrepanze linguistiche tra est e ovest, semplificando molto la fonetica e la scrittura. Tornando agli indoeuropei, non è assolutamente da escludere che le nuove influenze linguistiche dei dominatori andassero ad incidere su una lingua che ebbe già prima influssi indoeuropei. Per semplificare, è sempre più difficile riuscire a distinguere gli elementi preindoeuropei da quelli indoeuropei.

In ogni caso, nonostante siano state fatte tante ipotesi riguardo la Urheimat degli indoeuropei, la tesi delle steppe nel sud della Russia sostenuta vivamente da Marija Gimbutas è la più plausibile e acclamata come reale.

Le ipotesi dell’Urheimat indoeuropea – Immagine di pubblico dominio via Wikipedia condivisa con licenza CC BY 2.5

Anche se viene accettato come dogma che gli indoeuropei fossero un popolo bellicoso, l’archeologia linguistica ci presenta pochi termini europei nel lessico bellico e difensivo. Si trovano però molti termini riguardanti il carro e il cavallo, elementi necessari all’epoca per il combattimento, e anche per la migrazione. Inoltre, per migrare e conquistare buona parte del mondo conosciuto, questo popolo non poteva di certo essere pacifico. Nel territorio dove abitarono i kurgan, nelle steppe nel sud della Russia, gli archeologi trovarono resti di cittadelle e fortificazioni, identificate con una parola che troviamo ora come suffisso nel nome di città asiatiche come Singapore, o di città tedesche come Amburgo. In questo caso, storia, archeologia e archeologia linguistica concordano sulla bellicosità degli indoeuropei e il loro uso del cavallo, elementi che vennero poi esaltati nelle varie epiche, dai Veda indiani all’epica germanica, passando per i poemi omerici. Ci si convince sempre di più che i kurgan delle steppe russe, identificati dalla Gimbutas, siano gli indoeuropei che poi conquistarono l’Europa e il subcontinente indiano.

Un altro elemento importante è la religione. A differenza del popolo della Vecchia Europa, che, come già detto, credeva nella Grande Dea, la madre terra che dà la vita, i kurgan credevano in divinità presenti nei fenomeni atmosferici e celesti. Il loro pantheon era alquanto ricco: c’era una divinità superiore, padre di tutte le altre (riscontrabile, rispettivamente, nelle religioni greca e germanico/norrena come Zeus e Odino); le divinità belliche; tutte le altre divinità.

Un altro aspetto della religione è la concezione della morte: i kurgan credevano nella vita dopo la morte, in un mondo molto simile a quello reale, ma perfetto. Questa visione dell’aldilà è presente anche nella religione induista, nella religione greca e soprattutto in quella germanica, dove coincide con il Walhalla. Le persone venivano tumulate in fosse profonde sormontate poi da piccole costruzioni. Le tombe cambiavano a seconda di chi venisse sepolto, indicando così una ben strutturata gerarchia sociale, che sarebbe rimasta tale anche nell’aldilà. Era ipotizzato un viaggio reale verso l’aldilà e, come si evince dai ritrovamenti archeologici, si dava al defunto il necessario per il viaggio: indispensabile era il cavallo, mezzo di trasporto designato per il viaggio. Ciò si è poi tramandato in tante culture, come quella greca, che prevedeva l’attraversamento di un fiume con la barca di Caronte, che chiedeva una moneta a pagamento del servizio. Tutto ciò era opposto e sovrastò la cultura funeraria dei popoli della Vecchia Europa, i quali seppellivano i defunti in fosse poco profonde, facendo in modo che il corpo ritornasse alla Grande Dea, che dà la vita e la riprende, chiudendo così il cerchio della vita.

L’archeologia linguistica riesce anche a darci un quadro ben preciso della struttura familiare dei kurgan. La famiglia era di tipo patriarcale, vi sono termini che indicano i parenti del marito ma nessuno riguardo i parenti della donna, questo perché la donna che veniva presa in sposa veniva di fatto sradicata dalla sua famiglia di origine, con la quale non aveva più contatti, e portata nella famiglia di adozione, la quale, in caso di morte del marito, non le avrebbe più offerto protezione. Della struttura sociale nella quale si muovevano le famiglie non si sa quasi nulla.

L’unica cosa certa è che esisteva una figura che coordinava i clan, il cui nome evolse nel termine latino rex. La società era divisa in tre macro-classi: quella sacerdotale, la più importante e che deteneva il potere; quella dei guerrieri; quella degli artigiani e degli allevatori.

Quello che è certo è che non ci sono termini che indicano rapporti tra padrone e servo, a indicare che gli indoeuropei non conoscevano né praticavano la schiavitù fin quando on abbandonarono le steppe nel sud della Russia.

Il lessico, o meglio, la ricostruzione lessicale ci aiuta a capire anche come vivevano i kurgan. Sono tanti i termini legati al mondo animale, a conferma dell’ipotesi riguardo la loro pratica della pastorizia, e uno dei termini è legato al mondo degli insetti, ovvero l’ape; dunque, i kurgan conoscevano anche il miele, con il quale producevano una bevanda alcolica che poi si diffuse soprattutto nell’Europa del nord, e ora viene chiamata idromele. L’uso del miele venne tramandato nel tempo, come confermano i resoconti sui romani, i quali mescolavano i miele con il vino. L’idromele viene citato soprattutto nell’epica nordica, ma venne scalzato dall’uso della fermentazione dei cereali che portò alla creazione della birra. Ciò non significa che i kurgan non conoscessero i cereali, anzi il contrario. Molti nomi di cereali hanno una radice indoeuropea, ma non implica che i kurgan la praticassero. Come già detto, i kurgan appresero l’agricoltura dai popoli della Vecchia Europa; infatti, i termini relativi a essa sono di origine preindoeuropea.

I kurgan non avevano nemmeno un sistema di scrittura, che appresero poi dai popoli da loro conquistati. I sistemi di scrittura rilevati dagli archeologi sono tutti preindoeuropei: i micenei adottarono un sistema di scrittura denominato Lineare B; i romani appresero la scrittura dai greci, non senza una mediazione etrusca, i quali a loro volta impararono dai fenici.

Attraverso le lingue storiche, riusciamo anche a farci un’idea di quali nomi usassero gli indoeuropei come nomi propri. I nomi propri sono la categoria lessicale più incline ai cambiamenti repentini, anche perché soggetta alle mode. Per fare un esempio più vicino a noi, fino a cinquant’anni fa era normale chiamare i figli con i nomi dei nonni, e i nomi più frequenti era Maria e Giuseppe, di chiara ispirazione biblica. Ora invece sono molto più frequenti nomi esotici o inusuali, spesso ispirati da personaggi di libri o serie tv. Tornando agli indoeuropei, usavano un nome proprio, che indicava delle caratteristiche personali o che avesse un significato propiziatorio, e il nome del padre, tradizione che è rimasta in russo con il patronimico, in scozzese con il prefisso Mc e in irlandese con il prefisso O’. In latino il nome del padre venne sostituito con quello della gens.

È giusto spendere anche due parole sui numerali, la classe lessicale che diede inizio a questo studio. Gli indoeuropei utilizzavano la numerazione a base decimale, la stessa che usiamo noi quotidianamente, e scalzarono le numerazioni ad altre basi che esistevano in Europa. Ciò non significa che sparirono del tutto: il sistema duodecimale, a base dodici, fu centrale nella cultura britannica fino alla metà del secolo scorso; ancora oggi usiamo il sistema sessagesimale, cioè a base sessanta, per misurare il tempo e gli angoli in geometria.

Per concludere, tutte queste sono solo ipotesi, più o meno supportate da basi archeologiche e linguistiche, che tentano di ricostruire la storia dell’umanità di un periodo storico non contraddistinto da scrittura o altre documentazioni che rendono possibile la ricostruzione cronologica degli spostamenti. Ciò che confermano queste tesi è che l’uomo si è sempre spostato per cercare di migliorare le proprie condizioni di vita, assimilando la cultura di altri popoli, allo scopo di migliorarsi e ampliare il proprio raggio d’azione. In un’epoca come la nostra, in cui i nazionalismi tornano a imporsi e i governi costruiscono muri per impedire ad altri popoli di spostarsi, sorge spontanea una domanda: come sarebbe oggi il mondo, se un popolo come gli indoeuropei non si fosse mosso dalla sua patria originaria, qualunque essa fosse, restando chiuso nel suo mondo e senza apprendere nulla dagli altri popoli?


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