In un’epoca iconica come la nostra, caratterizzata dalla costante condivisione sui social network di foto e di selfie dalla qualità sempre più sofisticata, è arduo immaginare come potesse essere il mondo della fotografia delle origini, in età vittoriana. E non il mondo della fotografia in generale, ma quello della fotografia che ritraeva i bambini dell’Ottocento inglese.
Per quanto fotogenici, i bambini si trovavano quasi sempre comprensibilmente a disagio nei laboratori fotografici: il flash li faceva spaventare provocando contorsioni e pianti, quando non li riduceva al sonno, stremati dalle prove necessarie fino allo scatto definitivo.
Se oggi non è semplice individuare le inquadrature adatte a rendere al meglio il soggetto fotografato, in epoca vittoriana la situazione era molto più complessa.
Un genitore del XIX secolo avrebbe dovuto vestire il bambino con un bell’abito inamidato per trasportarlo, probabilmente con i suoi fratelli e il resto della famiglia, al più vicino studio del fotografo di mattina presto, per catturare al meglio la luce inglese.
A quel punto il professionista prescelto si sarebbe dedicato ad organizzare il gruppo di famiglia per la fatidica, costosissima foto, che avrebbe richiesto significativi tempi di totale immobilità da parte delle persone interessate.
Il problema principale, infatti, erano i lunghi tempi di esposizione, necessari alla macchina per realizzare la fotografia. Se per un adulto sedersi completamente fermo per mezz’ora era una sfida, attendersi la stessa compostezza da un bambino era praticamente una chimera. L’unico modo per fotografarlo era quindi che la madre lo tenesse fermo, camuffata da sedia, divano o da altro elemento di arredo dello studio, affinché la foto non risultasse sfocata.
I risultati di questi tentativi di facilitare il lavoro dei fotografi sono stati spesso straordinari – come mostra una collezione di queste fotografie, chiamate The Hidden Mother, “La madre nascosta”, raccolte in un libro di Linda Fregni Nagler, pubblicato nel 2013.
A volte le figure materne sono evidenti e si intravedono magari in piedi, oppure accanto ad una sedia, altre volte le sagome appaiono invece veramente ben mimetizzate sotto pesanti tendaggi, che tradiscono la presenza umana solo per il dettaglio delle mani.
A una persona del XXI secolo, queste immagini possono sembrare bizzarre e vagamente inquietanti: raffigurano tutte dei bambini insoddisfatti, irrigiditi nell’abito della festa, costretti all’immobilità da un’infinita successione di figure femminili mascherate da tappeti o cespugli. Le immagini del libro di Linda Fregni Nagler tuttavia risultano molto interessanti come documento di storia del costume dell’Ottocento inglese.
Fino agli anni Venti e all’avvento della fotografia di massa, la maggior parte delle persone poteva infatti permettersi una foto, una volta sola nella vita, come nel caso delle immagini post mortem. Dal momento, poi, che la mortalità infantile era drammaticamente alta, la fotografia post-mortem poteva rappresentare per gli straziati genitori l’unica testimonianza visiva postuma del proprio figlio, spesso ritratto come se fosse addormentato.
Ma se le immagini delle “madri nascoste” dell’età vittoriana hanno un che di inquietante, ciò è anche dovuto al processo fotografico usato. Fino a quando non furono disponibili le più moderne piastre asciutte di gelatina, la maggior parte dei fotografi usò infatti del collodio umido, che conferiva un tocco quasi spettrale alle figure.
Nelle foto dell’epoca infatti i bianchi non sono veri e propri bianchi, ma virano ad una tonalità beige che fa risaltare ulteriormente le scure sagome femminili, che sembrano incombere sui bambini in maniera vagamente minacciosa, come se fluttuassero tra un mondo e l’altro.
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