Questa è una storia di sport, come ce ne sono tante. Ma soprattutto è una storia d’altri tempi, come pure ce ne sono tante. Di tempi in cui lo sport non era certo lo spettacolone miliardario e fasullo di adesso, dove a farla da padroni sono gli sponsor, i manager, i diritti tv e gli scommettitori. E’ una storia che appartiene a un tempo lontano, quando in campo contavano soprattutto gli atleti.
Non è che si debba idealizzare tutto, intendiamoci. Anche allora, quasi un secolo fa, si assisteva a scandali, corruzione, incontri comprati. In molti praticavano il doping, ma in modo perlopiù artigianale, senza che vi fossero dietro le precise ricerche che si sono viste dopo, approfittando della legislazione ancora molto confusa della materia.
Nell’immaginario popolare, specialmente quello della gente più modesta, che ne leggeva sui giornali o ascoltava il giornale letto da altri se era analfabeta, i campioni sportivi erano già eroi. Un po’ per le loro imprese, che spesso apparivano sovrumane e talvolta lo erano davvero; ma anche e soprattutto perché quasi tutti venivano dalla stessa miseria della gente comune, avevano trovato nello sport il modo di emanciparsi da questa ed erano disposti a ogni sacrificio pur di non dovervi ritornare.
Lo sport popolare per eccellenza, a quel tempo, era il ciclismo. Tutti possedevano o sognavano una bicicletta, il calcio era considerato un passatempo per studenti borghesi e annoiati. Per il gregario di un grande ciclista, il solo poter avere un letto al caldo ogni notte e un pasto con la carne a tavola due volte al giorno, significava trovarsi in Paradiso. Lo ha raccontato Ettore Milano, che fu la spalla di Fausto Coppi per tutta la carriera. Un campione come Ottavio Bottecchia veniva fuori da una spietata selezione tra un’infanzia durissima, le trincee durante la Grande Guerra, l’emigrazione all’estero, una vita sgobbando in cantiere sotto il sole e sotto la pioggia. Qualcosa che oggi è veramente inimmaginabile, tranne forse per qualche ragazzo che arriva dall’Africa con lo stesso spirito.
Sotto, Ottavio Bottecchia:
Ma anche gli sport preferiti dai borghesi potevano nascondere dei risvolti imprevedibili. Prendiamo ad esempio la ginnastica. La nostra storia racconta proprio di ginnastica, e di una Olimpiade, quella di Amsterdam del 1928, oggi dimenticata ma, forse, la più importante per il ruolo dei Giochi nella nostra società.
Quando, nel 1896, dopo il lungo lavoro preparatorio del barone De Coubertin, presero il via le prime Olimpiadi moderne, queste seguirono per quanto possibile gli stessi schemi di quelle della Grecia classica. In altri termini, nelle prime edizioni, le donne furono escluse, ed organizzarono i famosi “Giochi Erei”, riservati al gentil sesso. Dopo la Grande Guerra, quando le donne si conquistarono il diritto di voto sostituendo gli uomini alle catene di montaggio e negli altri lavori lasciati liberi da coscritti e volontari, la situazione cambiò. Le rivendicazioni paritarie arrivarono fino al mondo dello sport e, dopo qualche resistenza, il CIO decise che l’esclusione delle donne dai Giochi era un ingiustificato anacronismo. Ad Amsterdam, nel 1928, le donne furono ammesse per la prima volta alle Olimpiadi, e si comportarono benissimo.
In Italia, si era nella prima parte del periodo fascista e le donne erano per lo più relegate a ruoli fin troppo tradizionali di “angelo del focolare”. Di sport, non è che ne praticassero molto: ma era già evidente l’attenzione del regime per il culto della forma fisica e, nelle scuole, gli atleti di ambo i sessi godevano di molta considerazione. Le ragazze amavano la ginnastica, che praticata in età giovanile permetteva uno sviluppo armonioso del corpo, con un guadagno non solo in termini di salute, ma anche di avvenenza fisica. Già alla fine del XIX secolo, Edmondo De Amicis aveva scritto un romanzo sentimentale e umoristico di grande successo, incentrato sul difficile amore di un uomo timidissimo per una ginnasta dalla personalità dirompente (da quest’opera, “Amore e ginnastica”, è stato tratto un bel film negli anni ’70, interpretato da Lino Capolicchio e Senta Berger): la moderna ragazza borghese, lavoratrice o casalinga, non poteva farne a meno!
Così, quando si trattò di allestire una rappresentativa nazionale per quelle Olimpiadi, il CONI si mise in cerca anche di una buona squadra di ginnastica femminile. E la trovò.
Sotto, lo stadio di Amsterdam durante le Olimpiadi del 1928:
La trovò al termine di una selezione effettuata a Milano (ma alcune fonti riportano Pallanza) il 17 giugno di quello stesso anno. Il destino mise di fronte le migliori, o forse solo le più motivate o le meglio sponsorizzate, tra le squadre italiane: la “Pavese” (caposquadra il professor Gino Grevi), l’antica e blasonata “Ginnastica Torino” (caposquadra Andreina Sacco), la “Forza e Costanza Brescia” (caposquadra Giorgio Zampori) e la “US Sestri Ponente” (caposquadra Teresa Molteni Coppa). Vinse la “Pavese”, che era guidata da un professore passato alla Storia non per questa impresa ma per essere stato, successivamente, il padre di un importantissimo giurista e costituzionalista, Vittorio Grevi, principale autore della riforma del processo penale.
Le ragazze che si conquistarono il biglietto per le Olimpiadi, arrivate alle selezioni grazie a una sottoscrizione pubblica tra i cittadini di Pavia, erano Bianca Ambrosetti, Lavinia Gianoni, Virginia Giorgi, Germana Malabarba, Carla Marangoni, Luigina Perversi, Diana Pizzavini, Anna Luisa Tanzini, Carolina Tronconi, Jones Vercesi. A esse, poiché il regolamento olimpico prevedeva che le squadre fossero composte di 12 elementi, si aggiunsero altre due ragazze provenienti da un’altra squadra pavese, che non aveva partecipato alle selezioni: Luigina Giavotti e Rita Vittadini. La Giavotti, nata il 12 ottobre 1916, non aveva ancora 12 anni, ed è ancora oggi la più giovane atleta olimpica di tutti i tempi, primato che non sarà mai battuto perché i regolamenti, successivamente, stabilirono a 14 l’anni l’età minima per partecipare al Giochi.
Per seguirle, oltre al professor Grevi, fu scelta la custode della palestra in cui si allenavano, Maria Bisi che, per poter essere accreditata come accompagnatrice, fu nominata “sul campo” presidentessa della società sportiva cui appartenevano.
Anziché muoversi via terra, dovettero viaggiare su uno sgangherato piroscafo, il “Solunto”, insieme agli altri atleti, perché il CONI non aveva i mezzi per affittare alberghi e intendeva servirsi della stessa imbarcazione quale alloggio per gli atleti in gara. Giunte ad Amsterdam, si allenarono sulle rive del canale dove la nave era ormeggiata. Il loro momento di gloria arrivò durante gli intensissimi tre giorni, dall’8 al 10 agosto, in cui si svolse il concorso di ginnastica artistica a squadre.
Con i capelli “à la garconne” tenuti fermi da un nastro e la divisa azzurra, inizialmente diedero già una buona impressione, tanto che nella classifica provvisoria raggiunsero il terzo posto, dopo le olandesi e le britanniche. Ma, l’ultimo giorno, esibendosi in una serie di esercizi particolarmente complicati che il professor Grevi aveva elaborato confidando nelle loro inesauribili capacità, superarono le britanniche e guadagnarono la medaglia d’argento.
Il giornalista Aldo Boiti del “Piccolo” di Trieste, presente alla gara, così racconta la loro impresa:
“Una magnifica prova hanno fornito le giovanissime Piccole Italiane di Pavia, presentate dal prof. Gino Grevi, di cui la maggiore ha quindici anni e la minore non ne ha ancora dieci. Queste minuscole ma bravissime ginnaste hanno conquistato il secondo posto, precedute soltanto dalla squadra olandese, composta di signorine dalla costituzione quasi atletica e allenatissime da molto tempo e per di più favorite evidentemente dalla Giuria. […]
Le piccole azzurre avevano eseguito una bellissima progressione a corpo libero, comprendente esercizi di ginnastica ritmica ed espressiva, movimenti di ginnastica respiratoria, andature ginnastiche e ritmiche. […] La folla che gremiva lo stadio ha lungamente applaudito le nostre bravissime ginnaste dopo la mirabile esecuzione degli esercizi alla spalliera svedese, combinati con un nuovo dispositivo inventato dal prof. Grevi, come pure dopo la bellissima gara dei salti, in cui le ginnaste italiane hanno svolto una geniale progressione senza alcun attrezzo, eseguendo dei salti combinati con l’ostacolo naturale fornito dalle compagne e intervallati da indovinati esercizi di deambulazione in linea”.
Tornate in Italia, vissero un effimero momento di celebrità e furono ricompensate con la somma complessiva di 2.300 lire raccolte con una sottoscrizione dal CONI e un libretto postale da 100 lire per ciascuna, aperto dal Municipio di Pavia.
Gareggiarono pochissime altre volte, ma abbastanza perché le avversarie inventassero un ritornello che le accoglieva piuttosto perfidamente: “Ecco quelle della Pavia, che il diavolo se le porti via”. Poi, quasi tutte, preferirono dedicare il loro tempo agli studi e alla famiglia.
Non il diavolo, ma la tubercolosi, si portò via una di esse, Bianca Ambrosetti, nata il 1° marzo 1914. Era già ammalata al tempo della selezione e dell’Olimpiade, ma la malattia sembrava in via di guarigione. Nonostante questo, nelle gare, era stata tenuta di riserva. Al ritorno, le sue condizioni peggiorarono repentinamente, portandola a morte il 30 novembre 1928 a Pavia (secondo altre fonti, sarebbe morta a Modena nel gennaio del 1929).
Luigina Giavotti, la più giovane atleta e medagliata nella Storia dei Giochi, è morta a 59 anni nell’estate del 1976. Le altre ginnaste pavesi hanno vissuto molto più a lungo, arrivando a vedere gli anni ’90 e il nuovo millennio. L’unica ancora vivente è la capitana Carla Marangoni, che è nata il 13 novembre 1915 e ha quindi 102 anni: una signora dal carattere d’acciaio, appassionata di motori, che è stata tra le prime donne italiane a prendere non solo la patente di guida ma anche la patente nautica.
Purtroppo, la Storia del concorso di ginnastica artistica alle Olimpiadi di Amsterdam ha anche un altro risvolto da ricordare.
Cinque delle 12 atlete olandesi che avevano vinto la medaglia d’oro erano di origine ebraica: Estella Agsteribbe, Helena Nordheim, Anna Polak, Elka de Levie, e Judikje Simons. Durante l’invasione dell’Olanda da parte dei nazisti, furono tutte deportate, spesso insieme ai figli ancora bambini, nel campo di concentramento di Sobibòr, in Polonia, dove furono uccise, nel 1943. Un particolare che ci ricorda ancora una volta che il passato, anche quando ci mette davanti a storie di tempi eroici, non va mai idealizzato.