Il Campionato Europeo di Calcio 2020 – che si sta disputando nel 2021 causa Covid – sarà ricordato forse anche per quel dubbio che pare attanagliare le squadre prima delle partite: inginocchiarsi o non inginocchiarsi? Sorvolando sulla quanto meno incerta decisione dei calciatori italiani, quei pochi minuti di sostegno alla lotta contro il razzismo hanno, contrariamente a quanto si crede, una storia lunga.
Il gesto di inginocchiarsi, come simbolo di lotta per i diritti umani, torna prepotentemente alla ribalta dopo la morte del cittadino americano George Floyd, ucciso da un agente di polizia il 25 maggio 2020 a Minneapolis, ma non rappresenta una novità.
Murale con il ritratto di George Floyd a Berlino
Immagine condivica con licenza CC0 via Wikimedia Commons
L’origine di una forma di protesta tanto pacifica quanto potente nel suo significato simbolico, potrebbe addirittura risalire a un’immagine del 1780 – uno schiavo in catene inginocchiato – adottata come simbolo dal movimento abolizionista britannico nel 1800: “Non sono io un uomo e un fratello?” recita la scritta a margine del disegno.
Non sono io un uomo e un fratello?
Immagine di pubblico dominio
Il mettersi in ginocchio, tra le persone che aderiscono ai movimenti per i diritti dei neri, assume il significato di un segno di protesta e allo stesso tempo una promessa di riscatto.
Quando il leader pacifista Martin Luther King e molti altri attivisti si inginocchiano, nella città di Selma, in Alabama, il 1° febbraio 1965, lo fanno per pregare (non bisogna dimenticare che King era pastore della chiesa battista), dopo essere stati arrestati per aver organizzato senza permesso le famose marce di protesta da Selma a Montgomery, per estendere il diritto di voto a tutti i cittadini afroamericani, in ogni stato degli USA.
Un delle marce di protesta da Selma a Montgomery

La fotografia di King in ginocchio è tornata a circolare in maniera virale negli Stati Uniti dopo che il giocatore di football Colin Kaepernick, nel 2016, ripete quel gesto mentre nello stadio si diffondono le note dell’inno nazionale, tradizionalmente suonato prima dell’inizio di ogni partita. L’atleta spiega:
“Non starò in piedi per mostrare orgoglio per la bandiera di un paese che opprime i neri e le persone di colore. Per me, questo (gesto) è più importante del calcio e sarebbe egoistico da parte mia guardare dall’altra parte“.
L’iconica foto di Martin Luther King in ginocchio
La grande visibilità degli atleti che disputano competizioni nazionali e internazionali diventa uno strumento per diffondere – pacificamente – un pensiero di protesta e mostrare un atteggiamento solidale nei confronti di chi, troppo spesso, non ha voce, minoranze ancora discriminate, e non solo negli Stati Uniti.
La critica, mossa da più parti, agli atleti che in qualche modo si mettono in gioco non solo nella disciplina praticata ma anche in qualche battaglia sociale, è sempre la stessa: non bisogna fare entrare la politica nelle competizioni sportive, come se queste fossero avulse dal mondo circostante.
Il gesto più eclatante, quello rimasto nella storia dello sport, è sicuramente quello dei due velocisti afroamericani Tommie Smith e John Carlos, alle Olimpiadi del 1968, disputate in un Messico in fiamme per le proteste studentesche, finite in un bagno di sangue con il Massacro di Tlatelolco, pochi giorni prima dell’inizio della XIX Olimpiade.
Il podio della gara dei 200 metri – Olimpiadi del Messico, 1968
Immagine di pubblico dominio
Quell’anno verrà ricordato per molte altre battaglie sociali ed eventi drammatici: negli Stati Uniti infuriano gli scontri tra polizia e movimenti per i diritti civili (ma anche contro la guerra in Vietnam), mentre Martin Luther King viene assassinato a Memphis il 4 aprile. Non che il resto del mondo sia esente da movimenti di protesta e battaglie per una più equa giustizia sociale (le rivendicazioni del Maggio Francese, “l’immaginazione al potere” e pure quella risata che avrebbe dovuto seppellire il potenti della Terra sono ormai un lontanissimo ricordo, come “l’autunno caldo” del 1969, in Italia, che aveva portato alla stesura dello Statuto dei Lavoratori), ma il Black Power, rappresentato anche da Smith e Carlos alle Olimpiadi, rimane il simbolo di quell’anno così denso di spinte rivoluzionarie. Forse anche grazie alla fotografia che consegna all’eternità i due atleti a testa china ma con il pugno chiuso alzato verso il cielo, mentre suona l’inno statunitense.
Smith e Carlos sanno che pagheranno per quel gesto, ma non si tirano indietro, perché devono aver pensato che quel podio, più che alla loro gloria passeggera, avrebbe fatto più comodo alla loro causa.
Non è solo il gesto di saluto adottato dal movimento Black Power a simboleggiare la protesta dei due atleti statunitensi. Ci sono anche i loro piedi scalzi, per ricordare la povertà dei cittadini neri, c’è la sciarpa nera intorno al collo di Smith, che rappresenta l’orgoglio afroamericano, e c’è la collana di perline al collo di Carlos, in ricordo di tutti “quegli individui che sono stati linciati o uccisi e per i quali nessuno ha detto una preghiera, che sono stati appesi e incatramati. Era per quelli gettati dalle navi nel Passaggio di Mezzo (la rotta delle navi schiaviste)”.
Smith, tempo dopo, riassumerà in poche parole il significato di quel gesto di protesta:
“Se vinco, sono americano, non un nero americano. Ma se ho fatto qualcosa di male, allora [i bianchi] direbbero che sono un negro. Siamo neri e siamo orgogliosi di essere neri. L’America nera capirà cosa abbiamo fatto stasera”
Non lo capisce, o meglio, lo comprende molto bene, il presidente del Comitato Olimpico Internazionale, Avery Brundage, statunitense anche lui, che pretende la messa al bando dei due atleti dalla squadra degli USA e dal villaggio olimpico, per aver messo in atto “una violenta e deliberata violazione dei principi fondamentali dello spirito olimpico”. Quando il Comitato Olimpico degli Stati Uniti rifiuta di espellere Smith e Carlos, Brundage minaccia di cacciare l’intera squadra di atletica e così ottiene il suo scopo:
I due velocisti vengono per sempre banditi dalle Olimpiadi
Non è inutile ricordare che Brundage, nella sua veste di presidente del Comitato Olimpico degli USA, aveva impedito il boicottaggio americano dei Giochi del 1936 nella Germania Nazista, e come presidente del CIO, nel 1972, a Monaco di Baviera aveva imposto la prosecuzione delle gare dopo l’attentato alla squadra israeliana, costata la vita a undici atleti ebrei.
Con Smith e Carlos sale sul podio un atleta bianco, Peter Norman, che a sorpresa vince la medaglia d’argento in quei 200 metri dove domina Tommie Smith, soprannominato The Jet, che manterrà il record mondiale ottenuto in quell’occasione fino a quando Pietro Mennea riuscirà a fare meglio di lui, 11 anni dopo, sempre a Città del Messico.
Norman, velocista australiano sul quale nessuno avrebbe puntato, negli ultimi 50 metri incredibilmente supera Carlos e conclude la gara in 20,06 secondi, un tempo che è ancora il record ineguagliato dell’Oceania.
Peter Norman
Immagine via Wikipedia – Giusto Uso
Di lui, impassibile sul podio, pochi si ricordano: l’attenzione è tutta concentrata su Smith e Carlos e il loro gesto scandaloso.
Eppure, Norman paga a caro prezzo il suo silenzioso sostegno alla protesta degli atleti neri. Perché lui, durante la premiazione, si mette sul petto il distintivo del “Progetto olimpico per i diritti umani”, simbolo di un’organizzazione nata appena un anno prima per combattere il razzismo nel mondo dello sport. Aver messo quel simbolo sul cuore mette fine alla sua carriera atletica: non sarà selezionato per le successive olimpiadi, nonostante i suoi tempi lo consentissero, ma non solo: “è tornato a casa in Australia come un paria, subendo sanzioni non ufficiali e messo in ridicolo come l’uomo dimenticato del saluto del Black Power” (James Montagu in un articolo per CNN). Non viene nemmeno invitato a partecipare alle celebrazioni di rito durante le Olimpiadi che si svolgono nel suo paese, nel 2000. Paradossalmente, sono gli Stati Uniti che lo chiamano a Sidney, come membro della loro delegazione, per riparare allo sgarbo fatto dall’Australia al suo atleta.
Quando, nel 2008, in Australia esce un docu-film su di lui, Il Saluto, realizzato dal nipote Matt Norman, sono i più a non sapere nulla della sua esistenza e della sua storia.
Lui, come ebbe a dire Carlos molto tempo dopo, era “un soldato solitario”, che ha pagato un altissimo prezzo per una convinta battaglia sui diritti umani. Diritti umani peraltro non rispettati nemmeno in Australia, vista la politica del “White Australia”, che scoraggiava l’immigrazione di persone non bianche e perseguiva una cancellazione della cultura aborigena, grazie anche all’allontanamento dalle loro famiglie dei bambini indigeni, che venivano poi adottati da coppie bianche.
Quando Peter Norman muore, nel 2006, dopo aver lottato contro un cancro e una dipendenza dall’alcol e dagli antidolorifici, Smith e Carlos sono lì, a tenere l’elogio funebre e a portare a spalla la sua bara, 38 anni dopo aver condiviso quel podio a Città del Messico.
Come concludere questa storia?
Forse con la considerazione che nessun gesto di protesta a favore dei diritti umani è, per quanto piccolo, inutile. Bisogna però essere disposti a pagare qualcosa, un costo che non tutti hanno il coraggio di corrispondere.