Il mondo di oggi è già molto diverso da quello di pochi decenni fa, e ci sembra che il tempo non sia mai trascorso così velocemente come in questo periodo. Ma in realtà questa è un’impressione che hanno avuto più o meno tutti quelli che hanno vissuto abbastanza in Occidente durante gli ultimi tre secoli.
Allora non ci dobbiamo sorprendere se, nel 1822, un uomo anziano racconta la storia della sua giovinezza, ambientata in circostanze molto diverse da quelle cui sono abituati quelli che lo ascoltano, e un editore pensa di farci un libro. Libro che segue la moda di quel tempo ma non sarà un bestseller e presto finirà dimenticato. Tuttavia, poiché esiste, finché esiste, può ancora essere letto da chiunque sia interessato. E, quasi 180 anni dopo la sua uscita, una studiosa di Storia si imbatte in quella che forse è l’unica copia rimasta, ne è incuriosita, la legge e decide che quella storia è talmente interessante da valere la pena di una vera ricerca storica, dalla quale ricaverà un altro libro, destinato a essere molto più famoso dell’originale.
È grazie a tutto questo che noi oggi possiamo conoscere la vicenda di un giovane ufficiale di marina, John Nicol, e del suo disperato amore per una ragazza sfortunata, Sarah Whitelam. Una vicenda che è come un romanzo, più di un romanzo, e in più è vera.

Siamo nel 1788 a Londra e la Rivoluzione Industriale è solo agli inizi. La maggior parte della gente vive ancora come si viveva prima: i contadini nella miseria e nello sfruttamento dei grandi latifondi, gli abitanti delle città di espedienti spesso illeciti, anche perché il Diritto non segue la stessa filosofia di quella di oggi, non ci sono né dichiarazioni di diritti dell’uomo (e chi esprime concetti di questo genere finisce carcerato, deportato o esule) né costituzioni democratiche, per cui chi detiene il potere fa le leggi secondo ciò che gli conviene, e la proprietà privata è considerata un valore più importante della vita umana.

Londra è una metropoli cresciuta a dismisura tra l’area intorno alle residenze reali e aristocratiche e gli approdi del Tamigi. In essa si svolgono quotidianamente traffici di ogni genere. Arrivano materie prime per alimentare l’attività degli artigiani e prodotti finiti già pronti a essere smerciati. Si crea ricchezza economica in quantità, ma solo per chi può permetterselo. Gli altri devono accontentarsi delle briciole, se pure restano. E, poiché devono andare avanti in qualche modo, si arrangiano come possono.

Ad esempio, ogni estate, capita che diverse famiglie aristocratiche, di quelle che impiegano centinaia di servitori, decidano di andare in cerca di un clima più fresco e salubre in campagna (il Tamigi, che fa da via di comunicazione, discarica e fogna al tempo stesso, quando si alzano le temperature, è in grado di ammorbare l’aria in modo pestilenziale). Il trasferimento della servitù costerebbe troppo e non servirebbe a nulla, tanto una volta arrivati sul posto si possono assumere quanti altri domestici si vuole, e la stessa cosa vale per quando si tornerà in città. Alla fine di ogni primavera, migliaia di domestici (soprattutto ragazze: cameriere, serve, sguattere) perdono il lavoro senza la minima speranza di trovarne un altro e, visto che ricevevano paghe bassissime, non hanno nemmeno quel minimo di denaro da potersi permettere un tetto sulla testa. Inevitabile allora che gli uomini diventino tutti ladri e le donne loro complici, oppure prostitute.
Ci sono poi quelli che scappano dalla schiavitù della campagna ma, una volta arrivati in città, non trovano nessuna delle opportunità che avevano sognato.

La legge è dura: qualsiasi furto è punito con lunghissime detenzioni in carceri che sono veri e propri gironi infernali, nelle quali si può morire di stenti perché il vitto è insufficiente, o di malattia perché c’è troppo affollamento. Ma se il valore della refurtiva supera i 40 pence, c’è già la forca. Le impiccagioni non si contano, perché la gente ruba di tutto, specialmente abiti, visto che costano troppo per le finanze di un povero. Una categoria punita con particolare ferocia è quella dei falsari, rei di rifilare patacche terribili ai “signori”: in questo caso, la condanna capitale è certa. E per le donne coinvolte nelle bande di falsari non c’è nemmeno la forca come per gli uomini, ma direttamente il rogo.

Anche il semplice vagabondaggio, ossia la colpa di non avere un posto in cui dormire la notte, è un reato che porta in galera con lunghe condanne. La sfortuna di alcune donne diventa però la fortuna di altre. Fortuna, ovviamente, relativa alle circostanze.
Da qualche tempo, la Corona inglese ha deciso di risolvere il problema del sovraffollamento delle carceri attraverso la deportazione. Le colonie stabilite in Australia, specialmente quella di Botany Bay, Nuovo Galles del Sud, nell’area in cui poi sorgerà la città di Sydney, reclamano manodopera a basso costo per le opere di urbanizzazione e per le coltivazioni. I delinquenti incarcerati sembrano perfetti per questo. La pena, dalla semplice detenzione, passa ai lavori forzati. Così, dicono i membri del governo, non siamo neanche costretti a mantenerli, questi fannulloni. Come se poi toccasse a loro, che sono esenti da quasi tutte le tasse (pagate per la maggior parte dai lavoratori).
Il trasferimento dei forzati in Australia è cominciato nel decennio tra il 1770 e il 1780 e finora ha dato buoni risultati, però c’è un problema: una volta scontata la pena, la madrepatria non li rivuole indietro, è meglio che restino lì. Cosa facile a dirsi, ma difficile da attuarsi, perché sono quasi tutti uomini, mancano le donne.
Quindi, nel 1788, qualcuno coglie la palla al balzo dopo un paio di fatti molto incresciosi per la giustizia inglese. Primo fra tutti quello per cui l’opinione pubblica si sveglia (finalmente!) e si proclama scandalizzata dalla barbarie di bruciare ancora le donne sul rogo. È infatti successo che due giovani donne appartenenti ad altrettante bande di falsari, Margaret Sullivan e Christian Murphy (quest’ultima appena diciannovenne) siano state bruciate sul rogo nell’estate di quell’anno, tra le proteste dei giornali che si sono chiesti che differenza esiste tra la civiltà e lo stato selvaggio se si arriva a tanto.
Nel carcere di Newgate, in quel momento, ci sono altre 25 donne che aspettano di essere consegnate al boia, tra le quali un’altra falsaria, Catherine Heyland, destinata a perire tra le fiamme. Per la maggior parte sono ladre che hanno commesso furti di poco conto per ragioni chiaramente di necessità. Ma ce ne sono anche di ancora più sfortunate, come una diciassettenne che si chiama Esther Curtis, il cui “delitto” consiste nell’essersi fatta convincere a ubriacarsi da un uomo incontrato in una taverna. La mattina dopo la sbronza, Esther si è svegliata sui gradini di una casa, con un gran mal di testa e senza più le scarpe. Il proprietario della casa, anziché soccorrerla, l’ha riconosciuta come una che gli avrebbe rubato, qualche giorno prima, degli abiti di modico valore. Gli “sceriffi” prontamente chiamati l’hanno trascinata in tribunale (che apre alle 11 tutti i giorni per giudicare per direttissima i casi del genere) dove si è vista infliggere una condanna a 7 anni di reclusione, dopodiché è stata sbattuta a Newgate senza perdere altro tempo.
Invece, un’altra ragazza adolescente, Sarah Dorset, è stata arrestata per vagabondaggio dopo che, scappata di casa per sfuggire a un’educazione troppo rigida, era stata derubata. Anche per lei, condanna e carcerazione immediate. I genitori presenteranno ricorsi e suppliche per farla liberare, ma non serviranno a nulla.
Una vicenda ancora più assurda ha portato in galera Sarah Whitelam, diciassette anni, una servetta originaria del Lincolnshire che è stata condannata perché sorpresa a indossare un mantello che risultava rubato, anche se le era stato semplicemente prestato da una conoscente (con ogni probabilità, la vera ladra) che nessuno si è sprecato di andare a cercare.
È proprio lo stesso Lord Sydney, il governatore che darà il nome alla città, a farsi venire l’idea di far sfollare un po’ di ragazze dal carcere sovraffollato di Newgate per andare a popolare l’Australia. Ai suoi colleghi che si occupano di giustizia in patria, l’idea piace subito.
Così, alle 151 condannate recluse in quel momento a Newgate viene proposta l’alternativa della deportazione. Com’è prevedibile, le 25 condannate a morte (e Catherine Heyland per prima) rispondono subito di sì, mentre le altre fanno resistenza. Ma ormai il progetto ha preso piede e non si potranno opporre. Per sicurezza, e per dare all’operazione una patente di umanità e progresso che metta a tacere i moralisti, serve però il consenso delle dirette interessate. Ottenerlo non è un problema. La direzione del carcere fa spostare le ragazze recalcitranti in celle ancora più strette e insalubri, le mette perennemente in catene e riduce le loro razioni alimentari finché, sfinite, si arrendono e accettano di essere deportate.
Sydney ha spedito a Londra una nave in buone condizioni, la “Lady Julian”, al comando del luogotenente Thomas Edgar, un ufficiale che nel curriculum vanta la partecipazione ai viaggi di esplorazione di James Cook ma è considerato poco capace (tra l’altro era presente all’uccisione di Cook, alle isole Hawaii, il 14 febbraio 1779). Poiché la nave appare abbastanza capiente, si fanno arrivare altre giovani donne recluse da altre galere. Il totale, alla fine, ammonterà a una cifra compresa tra le 226 e le 245 (c’è molta confusione al riguardo per l’imprecisione nella compilazione dei registri: ad esempio, Sarah Whitelam, che viaggiò sicuramente sulla “Lady Julian” è registrata come passeggera della “Neptune”, che partì 4 mesi dopo).

John Nicol, un giovane steward appena assegnato all’equipaggio, ha l’incarico di andarle a prendere per caricarle sulla nave attraverso una serie di viaggi su piccole imbarcazioni che fanno la spola tra Londra e Plymouth. Rimane immediatamente folgorato dalla bellezza della prima fanciulla che gli si para davanti, nonostante questa sia vestita di stracci, sporca, denutrita e con i polsi stretti dalle catene: è Sarah Whitelam. Nicol, di tasca sua, paga i carcerieri di Newgate affinché liberino dalle catene le ragazze, prima di portarsele via.
Una sola donna ne approfitta per scappare: si chiama Mary Talbot, aveva 24 anni e si porta dietro anche il figlio neonato William. La presenza del bambino non impedisce che, una volta riacciuffata, sia condannata a morte. Tuttavia, finisce per approfittare di una nuova possibilità di deportazione nel 1791, anche se poi morirà per cause naturali poco dopo essere arrivata in Australia.
All’imbarco, c’è l’ultima occasione di salutare i propri cari, accorsi appena hanno ricevuto la notizia. Sarah Dorset, davanti ai genitori in lacrime, cade in ginocchio e supplica il perdono, poi sviene e deve essere imbarcata portandola di peso. Non vedrà mai più né la madre né il padre.
Nicol, nel libro che racconta la sua storia, dirà che tra le detenute ce n’era una rea soltanto di affermare di essere la figlia illegittima di un lord, finita carcerata e deportata per questo, ma non ne farà il nome.
Parlerà poi di un’altra ragazza che, in preda a una grave depressione, rifiuterà il cibo e si lascerà morire durante il viaggio. Nicol ne resta molto addolorato perché è scozzese come lui.
Al di là di questo caso, il viaggio della “Lady Julian”, cominciato con la partenza da Plymouth il 29 luglio 1789 e durato 11 mesi, sarà incredibilmente fortunato. Moriranno per cause naturali solo altre 4 passeggere e finirà disperso un solo marinaio durante una tempesta. Si tratta di un caso più unico che raro nel panorama delle deportazioni dal Regno Unito all’Australia. La regola era che un bel po’ dei deportati morisse in viaggio, per denutrizione, epidemie, maltrattamenti. I comandanti delle navi avevano la massima libertà nel gestire il budget loro assegnato e non perdevano occasione per fare la cresta sulle spese per tenere i vita i passeggeri. I corpi di questi infelici gettati in mare si contano a migliaia. Le navi che arrivarono a Botany Bay nello stesso mese della “Lady Julian”, contenenti deportati di sesso maschile, avevano perso tra i 200 e i 400 passeggeri ciascuna nel viaggio e molti di quelli arrivati non si reggevano in piedi.
Anche i membri degli equipaggi avevano la massima libertà e ne approfittavano in tutti i modi. Nicol non fece eccezione e, appena Sarah Whitelam diventò la sua amante, la trasferì nella sua cabina in modo che non dovesse condividere la vita sul ponte con le altre. Nell’aprile del 1790, Sarah rimase incinta.
È uno dei pochissimi casi di gravidanze a bordo. Tra le ragazze ce ne sono sicuramente di molto esperte e in grado di istruire le altre, ma il bassissimo numero di gravidanze (pare soltanto sei) non si può spiegare solo con i rudimentali metodi anticoncezionali del tempo. Si è fatta l’ipotesi che tra le ragazze e i marinai (o più spesso gli ufficiali) fossero praticati soprattutto rapporti orali e anali. Del resto stiamo parlando di un tempo in cui erano molto più praticati di adesso e non pochi marinai ne avevano una notevole esperienza diretta, visto che li praticavano anche tra loro durante le lunghissime permanenze in mare (benché fosse vietato e punito con la pena capitale, purché non si venisse a sapere, gli ufficiali chiudevano un occhio).
Ma le ragazze non hanno solo rapporti con l’equipaggio. La rotta tenuta dalla “Lady Julian” può sembrare bizzarra al viaggiatore di oggi, ma permette di toccare diversi porti per approvvigionarsi di cibo, acqua potabile e qualsiasi altra cosa sia necessaria. La nave tocca tra l’altro Madeira, Tenerife e Rio de Janeiro, prima di puntare su Città del Capo e poi, finalmente, attraversare l’Oceano Indiano. Prima di tutti questi scali, il comandante Edgar ha già messo in chiaro con le passeggere che il budget è ridottissimo e che, prima della fine del viaggio, ci saranno da affrontare parecchie privazioni. Ma questo non sarebbe necessario se fosse possibile guadagnare altri soldi, e c’è un modo molto spiccio ed efficiente di farlo.
Probabilmente non tutte le ragazze capiscono subito il senso del discorso del comandante: Edgar sta chiedendo loro di prostituirsi ad ogni scalo. Non le obbliga, sta a loro decidere. Un bel po’ di esse, ricordando le privazioni patite a Newgate quando avevano fatto resistenza di fronte alla prospettiva di accettare la deportazione, concludono che non c’è molta scelta e si mettono a disposizione.
Non a caso, la “Lady Julian” è ricordata come “il bordello galleggiante”: è anche il titolo del saggio che la storica gallese Siân Rees ha tratto dalle ricerche seguite alla scoperta del libro di John Nicol.
Nonostante tutte le riserve che si possono avere sul suo operato, c’è comunque da riconoscere che il comandante Edgar non si comporta certo come un pappone e spende tutti i soldi ottenuti facendo prostituire le sue passeggere per rendere il viaggio il più confortevole possibile. Il bassissimo tasso di mortalità a bordo può essere sicuramente messo in relazione con la maggiore disponibilità economica e l’accorta gestione finanziaria di Edgar.
Edgar ha anche l’abilità di muoversi secondo le rotte migliori, come gli aveva insegnato il suo mentore Cook. Un altro grande esempio che gli ha lasciato Cook, seguace delle teorie (validissime) di James Lind sulla necessità di integrare la dieta a bordo con grandi quantità di cibi vegetali per evitare lo scorbuto, gli permette di mantenere equipaggio e passeggeri in ottime condizioni fisiche durante il viaggio. Le ragazze, quando arrivano a Botany Bay, stanno molto meglio di quando erano partite.
Ma se le fiabe hanno un lieto fine, la realtà finisce sempre come “il racconto narrato da un idiota, pieno di suono e di furia, che non significa nulla” (Shakespeare).
Sbarcate a Botany Bay nel giugno del 1790, le ragazze devono adattarsi a una vita che a noi può sembrare durissima ma per molti aspetti è migliore di quella che hanno lasciato in patria. Le più attraenti finiscono rapidamente sposate da alcuni ex deportati rimasti in Australia che hanno fatto fortuna coltivando un po’ delle vastissime terre a disposizione. Molti matrimoni sono favoriti dalla scoperta di essersi già conosciuti in patria o di avere delle conoscenze comuni. Prima o poi, comunque, si piazzano tutte quelle che non muoiono prima per cause naturali.
Quando la “Lady Julian”, dopo due mesi di permanenza a Sydney Cove, riparte, John Nicol deve seguirla per forza. Ma lascia Sarah Whitelam con la promessa che, appena sbarcato a Londra a terminato il suo ingaggio come steward, salterà sulla prima nave in partenza per l’Australia per ricongiungersi a lei e al loro bambino che deve nascere entro qualche mese.
È un bel proponimento, ma ci vogliono quasi due anni per concretizzarlo.
Nicol ci crede davvero e fa esattamente ciò che ha promesso di fare. Ma, quando torna in Australia, Sarah non c’è più.
Sarah Whitelam, sola, povera e con un bambino piccolo (chiamato John come il padre) , non può resistere a lungo senza un compagno accanto. Quando un brav’uomo di nome John Cohen Walsh la chiede in moglie, ci riflette su un poco, poi gli dice di sì. Walsh la porta con sé alle isole Norfolk, a Nord della Nuova Zelanda, dove spera di fare fortuna. Anche Sarah Dorset e l’uomo che l’aveva sposata poco dopo lo sbarco li seguono. Le loro speranze si avverano.
Nel 1796, Walsh è divenuto benestante e, una volta scontata tutta la loro pena da deportati, lui e la moglie si trasferiscono a Bombay, in India. Da questo momento in poi si perdono le loro tracce.
A Nicol, che la cerca freneticamente tra tutte le colonie inglesi, arrivano notizie parziali e confuse sul destino di Sarah. Ma in agguato c’è anche il suo, di destino: a un certo punto, si ritrova arruolato per combattere le guerre napoleoniche e resta sotto le armi fino al 1815. Ora è passato tanto tempo che, nonostante ci pensi ancora, Sarah sarebbe comunque irraggiungibile, ammesso che sia ancora viva (negli anni precedenti, in India, c’erano state molte gravi epidemie).
Finisce per tornare nella sua città natale, Edimburgo. In mancanza di un sistema pensionistico per gli ex marinai e gli ex soldati trascorre la vecchiaia vivendo della carità dei suoi concittadini. Ma nel 1822, quando detta le sue memorie a uno stampatore che ne ricava un libro, Sarah è ancora nei suoi pensieri, abbastanza da fargli dire: “Vecchio come sono, i miei sentimenti sono ancora quelli di un tempo”.