Hiram Bingham non vuole essere chiamato archeologo. Lui, plurilaureato in storia del Sud America (ma non in archeologia) a Berkeley, Yale e Harvard, preferisce definirsi un esploratore.
Hiram Bingham nel 1917
Immagine di pubblico dominio
A luglio del 1911 Bingham è in Perù, dove ancora avventurieri ed esploratori sono alla ricerca delle leggendarie città perdute degli Inca. Da Cuzco si sposta (insieme ai membri della spedizione) a piedi e a dorso di mulo verso la Valle dell’Urubamba, e dà retta a un contadino che gli parla di vecchie pietre dimenticate da tutti, conosciute solo dagli abitanti locali. Sono in alto, quasi tra le nuvole, in cima a un picco che quell’uomo chiama Machu Picchu, “vecchio picco”.
Il sito archeologico di Machu Picchu
Immagine di Martin St-Amant via Wikipedia – licenza CC BY-SA 3.0
La salita sulla cresta rocciosa è difficile, resa più dura dal freddo e da una pioggia sottile, ma Bingham prosegue, anche grazie alle indicazioni di qualche contadino che incontra lungo la strada. Alla fine è un bambino di 11 anni – Pablo Recharte vive proprio nei terreni terrazzati del Picco, coltivati dalla famiglia che usa addirittura un canale di irrigazione incaico ancora funzionante – a condurlo nel cuore delle rovine ormai coperte di vegetazione.
Machu Picchu in una foto di Hiram Bingham – 1912
Immagine di pubblico dominio
Bingham scambia Machu Picchu per la “Città perduta degli Inca” (in realtà è la residenza estiva degli imperatori), la loro ultima capitale, che invece era Vilcabamba o Willkapampa (pianura sacra), l’estremo rifugio degli Inca prima della definitiva conquista spagnola, dimenticata e sommersa dalla foresta pluviale, riscoperta sempre da Bingham nel 1911, grazie a un gruppo di nativi che gli aprono un sentiero nella vegetazione. L’esploratore non si renderà mai conto che è quella la vera “città perduta degli Inca”.
Bingham (in alto a destra) con una guida locale su un ponte nella giungla di Vicabamba – vetrino colorato a mano, 1911
Immagine di pubblico dominio
Grazie a Bingham, le rovine di Machu Picchu diventano uno dei siti archeologici più conosciuti e visitati al mondo, anche se è ormai assodato che altri prima di lui l’avevano individuato, a partire dalla metà dell’800: esistono delle mappe che già nel 1870 e 1874 lo collocano nella sua precisa ubicazione; nel 1880 un archeologo francese, che però non riesce ad arrivarci, afferma “ci sono rovine a Machu Picchu”. Addirittura, un tedesco di nome Augusto Berns, nel 1867 si aggiudica una concessione che gli dà il diritto di prelevare e portare fuori dal paese tutto quello che trova nel sito, e che lui rivende a collezionisti di tutto il mondo.
L’innegabile fascino di Machu Picchu, una delle sette meraviglie del mondo moderno, risiede nei suoi monumenti sontuosi, nell’ubicazione ardita in cima a un picco difficile da raggiungere, ma con una spettacolare vista sulla Valle dell’Urubamba e, non ultima, quella fama di “città perduta”, dimenticata per secoli dopo che i suoi abitanti l’avevano abbandonata a seguito della conquista spagnola: era un luogo troppo remoto per interessare ai nuovi colonizzatori.
Spettacolare vista sulla Valle dell’Urubamba e Machu Picchu
Immagine via Wikipedia – licenza CC BY-SA 3.0
Il Perù però nasconde tesori archeologici che, se meno imponenti e suggestivi di Machu Picchu, hanno da raccontare storie altrettanto affascinanti, più antiche e misteriose.
Come ad esempio la Città Sacra di Caral Supe, testimonianza di una civiltà antichissima, quella di Norte Chico.
Il sito archeologico di Coral Supe
Immagine di Kyle Thayer via Wikimedia Commons – licenza CC BY-SA 3.0
A ridosso della costa del Perù centro-settentrionale, Caral sembra sorgere apparentemente in una posizione poco accogliente, su un piatto e ventoso rilievo desertico che si affaccia sulla valle del fiume Supe, dove ci sono pianure ben più verdi e ridenti.
Immagine di Johnattan Rupire via Wikimedia Commons – licenza CC BY-SA 3.0
Eppure, proprio lì a Caral, almeno dal 3000 a.C., nasce e si sviluppa una civiltà capace di costruire edifici monumentali come le piramidi, all’incirca nello stesso periodo in cui veniva costruita la più antica piramide egiziana, quella di Saqqara.
Immagine di Stephen Wolfram via Wikipedia – licenza CC BY-SA 4.0
Il sito di Caral testimonia dunque la presenza di una città antichissima, strutturata in maniera complessa, nell’emisfero occidentale, dove la ricerca archeologica ha rivolto più spesso il suo interesse a siti più recenti, come quelli incaici o i maya/aztechi del Centro America.
In realtà, le coste del Perù sono riconosciute ormai da molto tempo come uno dei sei luoghi del mondo (insieme a Egitto, Mesopotamia, India, Cina e Centro America) dove avviene l’attraversamento di un “grande spartiacque”: le persone iniziano a vivere in città organizzate dove c’è la specializzazione del lavoro, e dove è necessario adeguarsi a regole comuni.
Quello che stupisce invece, è che la datazione dei primi insediamenti urbani continui in Perù a spostarsi sempre più indietro: Caral è stata a lungo considerata “la città più antica del Nuovo Mondo”, fino a quando datazioni al radio carbonio hanno dimostrato che un altro sito, Sechin Bajo, è ancora più antico, con le sue rovine più vecchie di qualche centinaio d’anni.
Immagine di Kyle Thayer via Wikimedia Commons – licenza CC BY-SA 2.0
Caral però è il sito dove si sono compiuti gli scavi più accurati, che hanno portato alla luce una città estesa un centinaio di ettari, non isolata, ma parte di civiltà omogenea, quella di Norte Chico: oltre una ventina di agglomerati urbani indipendenti ma collegati tra loro, probabilmente il luogo di nascita della civiltà nel continente americano, che si sviluppa senza influenze di altri popoli e culture.
Caral è la “città madre” della civiltà in Sud America
Caral (nota anche come Huaricanga) viene scoperta nel 1948 dall’archeologo statunitense Paul Kosok, ma non suscita molto interesse nel mondo accademico, perché quelle strutture quasi completamente mimetizzate con l’ambiente circostante, sembrano molto più recenti di quanto in realtà non siano.
Nel 1994 l’archeologa peruviana Ruth Shady però, quando arriva sul posto ne rimane completamente affascinata, è per lei un luogo che si colloca “da qualche parte tra la sede degli dei e la casa dell’uomo”.
Immagine di Xauxa via Wikipedia – licenza CC BY 2.5
Riesce a intravedere, sotto quei cumuli di terra, il profilo di una piramide e poi, osservando meglio, di altre due: lì, in quella costa desertica, c’è una “città perduta”, che nel terzo millennio a.C. era forse tra le più popolose al mondo, e che concentrava, nello spazio relativamente piccolo dell’area centrale, un numero impressionate di edifici monumentali, considerando che si trattava di una società ancora agli albori della civiltà.
La Piramide Mayor, la più grande, misura 160 per 150 metri ed è alta 18 metri. Per realizzare un edificio di questo genere occorre una forza lavoro organizzata, forse obbligata o forse pagata, ma che comunque implica la presenza di “capi” in grado di controllarla.
Riuscire a datare la Piramide non è facile, ma un’insperata circostanza aiuta gli archeologi: durante lo scavo vengono trovate delle ceste di canna intrecciata (chiamate shicra), dove erano collocate le pietre a sostegno dei muri. Quelle canne possono essere utilizzate per la datazione al radiocarbonio, e il risultato è sorprendente: quelle ceste risalgono al 2600 a.C.
Senza la fuorviante contaminazione di civiltà successive, Caral offre agli archeologi la possibilità di indagare sul come e perché gli uomini abbiano attraversato quello spartiacque dal mondo primitivo alla civiltà.
A Caral ci sono sei piramidi che circondano una grande piazza, e poi un anfiteatro e un tempio, dove probabilmente ardeva una fiamma perenne. Nella piazza ci sono case, più o meno ricche, e su tutto domina la Piramide Mayor, l’edificio che ospita il governo della città, e simboleggia l’inizio della civiltà.
Manca però qualcosa che gli studiosi si aspettano di trovare e cercano a lungo: armi e fortificazioni. Perché da sempre si teorizza che quello spartiacque era stato attraversato a causa delle guerre: le persone, dagli originari gruppi familiari, si riuniscono in “stati” per fare fronte comune contro nemici esterni, magari a difesa delle poche risorse a disposizione; ma a Caral e in tutte le città del Norte Chico quell’ipotesi non funziona.
Anzi, emerge qualcosa di molto diverso: quel popolo amava divertirsi con la musica, come dimostrano le dozzine di flauti ricavati da ossa di pellicani, e usava abitualmente un afrodisiaco ricavato dalla pianta di Achiote (Bica Orellana), così come la polvere di Coca, assunta con inalatori fatti sempre con ossa animali.
Immagine di Paulo JC Nogueira via Wikimedia Commons – licenza CC BY-SA 3.0
Dopo queste scoperte, il mistero su quell’antica civiltà si infittisce, perché achiote e coca non vengono certo coltivati in loco, ma provengono da un entroterra anche molto distante. Del resto, anche i ritrovamenti di conchiglie e i resti di lische di pesce sono un’anomalia: il mare dista 25 chilometri.
Vertebra di balenottera usata come sgabello
Immagine di Eniol via Wikimedia Commons – licenza CC BY-SA 3.0
La chiave del mistero sta nel territorio: intorno a Caral ci sono molti fiumi che dalle Ande scendono verso il mare, e consentono l’irrigazione dei campi. All’epoca, più che al deserto attuale, Caral poteva somigliare a una fertile oasi. Quello che gli abitanti coltivano può essere scambiato con altre popolazioni, in particolare il cotone, usato da chi abita nei villaggi costieri (non così evoluti) per realizzare reti da pesca (ne è stata trovata una risalente all’incirca a 5000 anni fa).
Insomma, la ricchezza di Caral deriva dal commercio, reso possibile dalle eccedenze produttive dovute alla specializzazione del lavoro. Un’attività condotta comunque senza l’ausilio di armi e il sostegno di un esercito, all’interno di una società organizzata e fiorente.
Immagine via Wikimedia Commons – licenza CC BY-SA 3.0
La società pacifica di Caral dura mille anni (ma che risultato è, mille anni senza battaglie e guerra?), poi scompare, intorno al 1800 a.C, apparentemente senza un motivo: non ci sono prove di eventi catastrofici ed eventuali conflitti interni sono difficili da dimostrare. Forse la popolazione, dopo aver sfruttato a lungo quel territorio, semplicemente si sposta per trovare aree più fertili, forte delle sue conoscenze sull’irrigazione.
Comunque siano andate le cose, dopo quella prima civiltà, occorre aspettare mille anni per vedere lo sviluppo di un’altra grande cultura in Perù, quella di Chavin, che fiorisce tra il 900 e il 200 a.C, sempre senza apparente bisogno di armi ed eserciti.
Forse, dopo 5000 anni di storia, la civiltà moderna avrebbe qualcosa da imparare da quei popoli così lontani nel tempo…