Definito a volte “il principe alchimista”, don Antonio de’ Medici (1576-1621) è spesso considerato un personaggio minore nelle vicende della dinastia fiorentina. Egli fu, tuttavia, anche la vittima eccellente di un complotto familiare che – seppur non sorprendente nell’ambito delle corti del tardo Rinascimento italiano – si distinse per un’inconsueta crudeltà. Antonio de’ Medici aveva solo undici anni quando i suoi genitori – il granduca di Toscana Francesco I e la nobildonna veneziana Bianca Cappello – perirono improvvisamente a poche ore di distanza l’uno dall’altra, dopo gli atroci tormenti di una breve agonia.

Il primo sospettato della duplice morte fu il fratello di Francesco I, il cardinale Ferdinando de’ Medici, da sempre in rapporti tesi con la coppia, di cui era ospite a Poggio a Caiano proprio nei giorni dei tragici eventi. Non è forse un caso che il cardinale si sia affrettato a ordinare l’autopsia sui cadaveri dei congiunti, anche se la diagnosi di malaria non fugò i dubbi che li avesse avvelenati per impadronirsi del potere.

Divenuto il nuovo granduca di Toscana, Ferdinando fece seppellire il defunto fratello con tutti gli onori, ma negò a Bianca Cappello le esequie di stato, e i suoi resti furono sepolti in un luogo ancora oggi ignoto.

Il cardinale abbandonò la porpora nel 1589 e sposò Cristina di Lorena, da cui ebbe nove figli. Regnò con abilità e lungimiranza sul Granducato di Toscana fino al suo decesso, nel 1609.

Ma a questa storia manca un tassello:
Che cosa accadde ad Antonio, legittimo erede di Francesco I e suo unico figlio maschio vivente?

Antonio, che aveva visto la luce quando Bianca e Francesco erano ancora amanti, fu presentato a corte dopo il matrimonio segreto dei suoi genitori, celebrato il 5 giugno del 1578. Le nozze avevano avuto luogo a distanza di qualche settimana dalla morte di Giovanna d’Austria, figlia dell’imperatore Ferdinando I d’Asburgo, e prima moglie del granduca. Il matrimonio tra Francesco I e la principessa austriaca, dettato dalla ragion di stato, si era rivelato in un disastro. Gli sposi erano troppo diversi: fervente cattolica, altera e distaccata lei; stravagante e votato all’arte e alla ricerca alchemica lui.

Un paio d’anni dopo lo sfortunato connubio, nella vita dell’inquieto Francesco era entrata la nobile veneziana Bianca Cappello, con cui il granduca aveva vissuto una relazione alla luce del sole, attirando a sé le critiche delle altre corti europee.

Di Giovanna d’Austria restano alcune lettere che rivelano come fosse al corrente dell’infedeltà del consorte e quanto ne fosse indispettita, soprattutto perché ferita nell’orgoglio, reputandosi di rango superiore al granduca.
Il fatto che lei, di sangue imperiale, venisse pubblicamente umiliata dal comportamento della coppia adultera le risultava intollerabile

Destinatari delle missive delle sue lamentele furono il suocero e il cognato, il già menzionato cardinale, che non solo detestava la Cappello, ma la definiva senza mezzi termini “ la pessima Bianca”.

Non stupisce più di tanto, allora, che l’avversione per i genitori si riversò anche sull’innocente nipote, Antonio. Il piccolo era stato riconosciuto e designato da Francesco I come suo legittimo successore nel 1583, dinanzi al Consiglio dei Dugento, l’organo deliberativo del Granducato.

Il granduca aveva persino chiesto e ottenuto dal re di Spagna il titolo di principe di Capestrano per il figlio, quindi la volontà di Francesco I era inequivocabile:
Antonio sarebbe dovuto succedergli sul trono granducale

Come aggirare dunque l’ostacolo dell’aspirazione al trono di Toscana da parte del legittimo erede? Con un perfido espediente. Il 5 marzo del 1588, il cardinale comunicò al nipote di essere entrato in possesso di alcuni documenti scottanti, da cui si evinceva che Antonio non fosse figlio di Bianca e di Francesco, bensì di una popolana che lo avrebbe ceduto in fasce alla coppia, per soddisfare la volontà della madre di dare all’amante l’agognato figlio maschio. Peccato che tale incartamento fosse un falso, frutto di un’artificiosa manipolazione del fidato giurista e arcivescovo di Pisa, Carlo Antonio Dal Pozzo.

Sparì misteriosamente anche la registrazione del testamento del granduca all’ufficio delle Riformagioni. Antonio de’ Medici, dodicenne, fu così privato all’istante del suo cognome, dei suoi beni e del titolo di erede al trono. Lo zio gli concesse, con ostentata magnanimità, di riconoscerlo ugualmente come membro della dinastia, assicurandogli un vitalizio di 35.000 scudi, a patto che rinunciasse al principato di Capestrano, nel Regno di Napoli, e che entrasse, una volta maggiorenne, nell’Ordine dei Cavalieri di Malta. Ordine che, molto opportunamente, imponeva ai suoi membri la povertà e il celibato. Così, in un colpo solo e con una mossa machiavellica, il ragazzo veniva spogliato dei suoi averi e gli veniva impedito di generare discendenti legittimi che, un giorno, avrebbero potuto avanzare pericolose rivendicazioni al trono o alle proprietà granducali.

Il figlio della “pessima Bianca” mantenne comunque l’usufrutto a vita di alcune delle proprietà ereditate dal padre, quali il Casino di San Marco a Firenze e le ville di Lappeggi e di Marignolle, anche se il granduca si riservò il diritto di revocare i benefici in qualunque momento, rendendo la sorte del nipote soggetta alla sua “generosità”. Pur privato dei suoi averi, Antonio poté contare, oltre che sul vitalizio concessogli dal granduca, sulle rendite del priorato di Pisa, assegnatogli dal papa Clemente VIII, che gli consentirono di vivere sempre in maniera agiata.

Afflitto da una salute cagionevole, si dedicò a incarichi diplomatico-militari per i Medici e dimostrò il suo valore in molte campagne belliche. Nel 1600, fu al comando delle cinque galere maltesi che scortarono la sorellastra Maria de’ Medici a Marsiglia, città in cui l’attendeva il futuro sposo, il re di Francia Enrico IV.

Sebbene nella sua veste pubblica si distinse per la lealtà con cui servì la dinastia che lo aveva spodestato, fu soprattutto in ambito privato, come studioso, che merita di essere ricordato. Il giovane aveva ereditato dal padre la passione per la ricerca e la sperimentazione, che lo portò a intrattenere una fitta corrispondenza con alcune fra le menti più brillanti del suo tempo, tra cui Galileo Galilei, al quale fu legato da una sincera amicizia.

Tra le epistole inviate allo scienziato, ne spiccano alcune di grande importanza, utili a ricostruire la genesi delle sue scoperte astronomiche. Antonio de’ Medici, inoltre, scrisse per il Galilei varie lettere di raccomandazione indirizzate ad alti prelati, quando questi si recò a Roma, nel 1611, con l’intenzione di convincere gli scettici dell’esistenza dei pianeti medicei.

Appassionato di teatro, musicista dilettante, studioso di balistica, mostrò sempre un ingegno versatile e il Casino di San Marco, la sua sfarzosa dimora progettata dal Buontalenti, si trasformò in un laboratorio alchemico, ispirato all’opera del grande medico Paracelso, aperto a tutti gli studiosi dell’epoca e cuore pulsante della vita culturale della Firenze del suo tempo.

Frutto della sua costante attività di ricerca è il manoscritto “nel quale si contiene tutta l’arte Spagirica di Teofrasio Paracelso et sue medicine”, custodito presso la Biblioteca Nazionale. Le numerosissime ricette in esso contenute gettano luce sulle principali patologie dell’epoca, ma contengono anche nozioni di botanica, di astrologia, di chiromanzia, di alchimia e persino di gastronomia, con delle formule di misture dedicate alle cure estetiche o afrodisiache.

Antonio de’ Medici si spense a Firenze a soli 45 anni, forse a causa della sifilide, il 2 maggio del 1621. A distanza di due giorni dalla morte del nipote, la granduchessa Cristina di Lorena ordinò la compilazione di un inventario dei beni presenti nella dimora di Antonio, al fine di entrarne in possesso. Prima di morire, il Medici aveva intrapreso una causa per veder riconosciuta alla sua prole, quattro figli naturali, la successione dei beni a cui era stato costretto a rinunciare dopo l’investitura al Cavalierato di Malta. La causa, protrattasi per un decennio grazie alla determinazione dei suoi i tre figli maschi, si risolverà, infine, a favore della corte granducale.

L’ingiusta accusa dell’illegittimità di nascita fu un marchio infamante che bollò Antonio per tutta la vita e che ancora oggi spinge alcuni studiosi a dubitare del suo lignaggio, anche se basta osservare i suoi numerosi ritratti per notare l’innegabile somiglianza con Bianca e Francesco. Del resto, a corte nessuno metteva in dubbio i suoi natali, segno che un po’ tutti erano al corrente delle macchinazioni dell’ambizioso Ferdinando.

Seppur vittima di una atroce ingiustizia, il Medici seppe coltivare le sue passioni, attorniandosi di artisti e scienziati attratti dalla sua personalità eclettica, e recenti studi gli stanno restituendo, finalmente, quel posto di rilievo che gli spetta nella vita culturale della Firenze del XVII secolo.