“Quando i posti di lavoro scarseggiano, gli uomini possiedono maggiori diritti di ottenere un’occupazione. Sei d’accordo con questa affermazione?”. Pressappoco era questa la domanda che il World Values Survey pose sotto l’attenzione dell’opinione pubblica di 62 Paesi tra il 1999 e il 2004. L’esito del sondaggio, come si può ben immaginare, fu molto vario, offrendo ogni sfumatura di preferenza da il 3,6% di concordi in Islanda al 99,6% in Egitto.
Ma a quale fattore originario si deve una così netta discrepanza di idee sul tema della parità di genere?
Nel 1970 l’antropologa ed economista danese Ester Boserup ipotizzò una correlazione tra il ruolo attribuito alla donna in una società e le tecniche agricole da quest’ultima utilizzate. Nello specificò la Boserup sosteneva che l’introduzione dell’aratro avesse comportato un cambiamento nell’approccio al lavoro, in quanto tale attrezzo poteva venire utilizzato in maniera efficace soltanto dagli individui dotati di maggiore forza fisica. Tale innovazione determinò quindi che il lavoro dei campi fosse riservato al genere maschile, il quale finì per delegare il resto delle faccende al gentil sesso.
Aratro dell’età del bronzo trovato a Lavagnone (Desenzano del Garda). Fotografia di Museo Archeologico G. Rambotti condivisa con licenza CC BY-SA 3.0 via Wikipedia:
Partendo da queste idee nel 2012 un gruppo di economisti pubblicò uno studio approfondendo il tema. Nello specifico il mondo venne mappato dividendo le zone dove storicamente prevaleva l’agricoltura intensiva da quelle dove invece era prevalente la coltivazione a rotazione. La prima veniva praticata in vaste aree pianeggianti e favoriva la coltura di cereali come il grano e l’orzo; la seconda veniva invece utilizzata solitamente su terreni rocciosi, inadatti all’uso dell’aratro, principalmente per la coltivazione di sorgo e miglio. Secondo questo studio, alla luce dei dati raccolti sulla condizione femminile nel mondo, vi sarebbero quindi significative evidenze che “l’uso tradizionale dell’aratro sia positivamente correlato con atteggiamenti che riflettono la disuguaglianza di genere e negativamente correlato alla partecipazione femminile alla forza lavoro, alla proprietà femminile e alla partecipazione femminile alla politica”. Secondo questi ricercatori infatti le società originatesi dalle culture che storicamente hanno utilizzato l’aratro avrebbero norme di genere meno eque, nonché una minore partecipazione femminile alla forza lavoro e alla politica.
Nel 2014 un team di psicologi effettuò un simile esperimento in Cina. Questi studiarono differenti popolazioni all’interno del Paese differenziandole in base a se per tradizione fossero coltivatrici di riso oppure di grano. In base ai risultati raccolti i ricercatori scoprirono che le comunità legate alla coltura del riso avevano sviluppato un pensiero maggiormente relazionale.
Tra gli aspetti presi in esame spiccava ad esempio il numero dei divorzi, notevolmente superiori fra i coltivatori di grano. Ciò risultava vero a prescindere dall’occupazione degli intervistati, anche qualora questa non avesse avuto nulla a che fare con l’ambito agricolo. Secondo gli studiosi la ragione di questa differente mentalità costituirebbe una sorta di eredità lasciata dai due diversi modelli di coltivazione. Infatti la coltura del riso, a differenza di quella del grano, necessitando di un’irrigazione complessa, spesso vedeva i contadini cooperare per un risultato comune, e questo avrebbe plasmato il modo di pensare degli individui verso un modello maggiormente incline alla collaborazione e all’aiuto reciproco.
Insomma è proprio vero: siamo quel che mangiamo, o meglio, quel che i nostri antenati hanno mangiato.
Fonti: A. Alesina, P.Giuliano, N.Nunn; ON THE ORIGINS OF GENDER ROLES: WOMEN AND THE PLOUGH; The quaterly journal of economics, May 2013, VOL. 128, Issue 2; https://academic.oup.com/qje/article-abstract/128/2/469/1943509?redirectedFrom=fulltext.
http://lettura.corriere.it/debates/il-dominio-dellaratro/
C. Keneally; STORIA INVISIBILE DELLA RAZZA UMANA; Modadori Libri S.p.a; Milano; 2016; traduzione di F.M. Gimelli