La vendetta di Pierre Picaud che ispirò “Il conte di Montecristo”

Uno dei più ricchi banchieri di Francia, il barone Danglars, è rinchiuso in una remota prigione d’Italia, sorvegliato a vista dal bandito Luigi Vampa. Costretto a pagare grosse somme di denaro per poter mangiare e sopravvivere, un giorno riceve la visita di un uomo. Dopo un breve dialogo, la figura misteriosa esce dall’ombra e si rivela:

«Sono colui che avete venduto, consegnato, disonorato; sono colui la cui fidanzata voi avete prostituito; sono colui sopra il quale avete camminato per ergervi sino alla fortuna; sono colui il cui padre avete fatto morire di fame, colui che vi aveva condannato a morire di fame, e che pur tuttavia vi perdona, giacché egli stesso abbisogna di essere perdonato: io sono Edmond Dantès!».

Sotto il video del racconto:

Edmond Dantès in una illustrazione di Pierre Gustave Eugene Staal presente nell’edizione del 1888 del romanzo – Immagine di pubblico dominio via Wikipedia

Siamo di fronte all’atto conclusivo de Il Conte di Montecristo, celebre romanzo d’appendice di Alexandre Dumas (anche autore de I tre moschettieri). La storia di Edmond Dantès, una delle più avvincenti della letteratura francese, verte su di una terribile vendetta architettata per mezzo di inganni, travestimenti ed espedienti ben oltre il limite dell’immaginabile.

Poster promozionale per l’edizione illustrata del 1846 – Immagine di pubblico dominio via Wikipedia

Nella vita reale risulterebbe impossibile ideare un piano del genere, che definirlo machiavellico sarebbe un eufemismo; eppure, agli inizi dell’Ottocento, un semplice calzolaio si rese protagonista di una vicenda i cui dettagli non possono non risultare familiari agli appassionati del romanzo. Costui fu vittima di una congiura, che gli valse una lunga e ingiustificata detenzione, oltre che immani sofferenze, e, in nome della giustizia privata, si erse a giudice, giuria e boia nei confronti di chi lo aveva pugnalato alle spalle.

Alexandre Dumas padre immortalato dal fotografo francese Étienne Carjat – Immagine di pubblico dominio via Wikipedia

La vendetta di Pierre Picaud

Pierre Picaud era un calzolaio di Nîmes, forse nato il 2 maggio del 1780. Era indigente ma ambizioso, e nel 1807 si fidanzò con Marguerite Vigoroux, una donna tanto bella quanto ricca. Le nozze imminenti, la sua grande occasione per un riscatto socio-economico, suscitarono l’invidia di tre suoi amici: Solari, Chaubart e Mathieu Loupian. In particolare, quest’ultimo, proprietario di un locale e vedovo con due figli, rimase molto colpito dalla notizia.

L’ingente dote di Marguerite gli avrebbe permesso di risanare i debiti ed elevarsi al di sopra del suo infimo ceto sociale, perciò trasformò la sua bramosia in complotto politico-giudiziario per sottrarla a Pierre. La macchinazione ebbe inizio quando il calzolaio giunse nel suo locale per commissionargli il ricevimento del matrimonio e Loupian scherzò scommettendo sul fatto che avrebbe tardato alla cerimonia.

Pierre battezzò le parole dell’amico come una semplice battuta, ma si sbagliava

La clientela dell’oste, infatti, annoverava, come assiduo frequentatore, un agente del governo bonapartista. Coadiuvato da Solari e Chaubart, anch’essi invidiosi, informò questi di essere a conoscenza del nome di una spia al soldo dell’Inghilterra. L’uomo credette alla soffiata e mise al corrente della vicenda il suo superiore, Anne Jean Marie René Savary, duca di Rovigo e capo della polizia francese, che subito ordinò l’arresto del presunto traditore. L’operazione fu condotta in gran segreto e Pierre ricevette la visita dei gendarmi proprio il giorno del matrimonio. Nel più assoluto riserbo, fu poi scortato e imprigionato nel forte di Fenestrelle, situato nella remota Val Chisone piemontese. Antoine Allut, quarto amico del calzolaio, non prese parte alla congiura, ma, pur essendo a conoscenza di tutto, si chiuse nell’omertà e lasciò campo libero ai cospiratori.

Veduta dall’alto della struttura principale del forte di Fenestrelle – Immagine di pubblico dominio via Wikipedia

Pierre ignorava quale crimine avesse commesso e non ricevette alcuna spiegazione, ma intuì che le fredde e claustrofobiche mura della prigione avrebbero segnato l’epilogo della sua esistenza. Intanto, in patria nessuno sapeva cosa gli fosse successo e nel giro di poco tempo il suo nome cadde nell’oblio. Afflitto nel corpo e nella mente, non si arrese; anzi, cercò un modo per scappare e guadagnarsi la libertà. Con utensili di fortuna iniziò a scavare un solco nelle pareti della cella, nella speranza di aprire un varco verso l’esterno.

Il tempo non gli mancava; dopotutto, nelle intenzioni del governo bonapartista, sarebbe dovuto morire lì. Lavorò giorno e notte per allargare il passaggio, finché, anni dopo, sbucò in un’altra cella, abitata dal sacerdote italiano padre Torri. Quello che dapprincipio sembrò un fallimento, si rivelò un vero colpo di fortuna. Il piano d’evasione sfumò e a Pierre non restò che fare amicizia con Torri. Un anno dopo, quando il prete morì, prima di esalare l’ultimo respiro questi decise di condividere con il compagno di sventure il suo più grande segreto. A Milano, Torri aveva nascosto un grande tesoro, forse legato al motivo della sua detenzione, e, qualora fosse riuscito a rivedere la luce del giorno, spiegò a Pierre come impadronirsene. Nuovamente relegato in solitudine, Pierre si ritrovò erede di un patrimonio sul quale non avrebbe mai potuto mettere le mani, almeno in teoria. Nei fatti, la dea bendata tornò a baciare il calzolaio di Nîmes.

Lato nord dell’Isola di Montecristo, dove, nel romanzo, Edmond Dantès si reca per recuperare il tesoro nascosto dall’abate Faria – Immagine di Allumeur condivisa con licenza CC BY 3.0 via Wikipedia

La battaglia di Lipsia del 1813 sancì la disfatta di Napoleone, che abdicò l’anno successivo, e Pierre, in quanto prigioniero politico di un regime decaduto, fu scarcerato nel giro di qualche mese. Era entrato nel forte nel 1807 e ne uscì sette anni dopo, vistosamente invecchiato e acciaccato, ma il suo desiderio di rivalsa fugò ogni malanno e gli permise di rimettersi in forze per reclamare quella stessa giustizia che gli era stata negata. Seguendo le indicazioni di padre Torri, si recò a Milano, s’impossessò del fatidico tesoro e divenne più ricco di quanto avesse mai immaginato. Assunse lo pseudonimo di Joseph Lucher e, infine, partì per la Francia in cerca di risposte.

Il castello d’If, dove furono imprigionati Edmond Dantès e l’abate Faria – Immagine di Jean-Marc Rosier condivisa con licenza CC BY 2.5 via Wikipedia

Per comprendere cosa fosse accaduto sette anni prima, si travesti da uomo di chiesa e, facendosi chiamare padre Baldini, rintracciò Allut a Nîmes, incontrandolo sotto mentite spoglie. Gli rivelò la sua identità e colui che in passato era stato suo amico rimase sconcertato dal rivederlo. Ormai, Pierre era solo un fantasma del passato e, nella memoria di chi l’aveva conosciuto, di lui non restava altro che un ricordo sbiadito.

Disinteressandosi a qualsiasi momento nostalgico, il calzolaio corruppe Allut con un diamante d’inestimabile valore, affinché gli spiegasse il motivo dell’arresto. Udendo la confessione delle macchinazioni di Solari, Chaubart e Loupian, quel briciolo di umanità sopravvissuto alla durissima detenzione lasciò il posto alla rabbia.

La sua vita era stata distrutta in nome dell’invidia e chi l’aveva disonorato e tradito doveva pagare

Dopo una breve fase di stallo, dettata dalla necessità di raccogliere quante più informazioni possibili, Pierre si fece assumere nel nuovo locale di Loupian, sito al Boulevard des Italiens di Parigi.

Il Boulevard des Italiens nel XIX secolo – Immagine di pubblico dominio via Wikipedia

Dopo l’arresto dell’amico, Loupian aveva sposato Marguerite nel 1812, avviando la nuova attività proprio grazie all’agognata dote della donna. Erano passati tanti anni, la detenzione aveva cambiato fisicamente il povero Pierre e nessuno nutrì dubbi sulla vera identità del cuoco a tutti noto come Joseph Lucher. Spiando da vicino l’ideatore del complotto, a cui, nei suoi progetti, spettava ben altro che una semplice esecuzione, si mise sulle tracce di Chaubart, lo attirò sul Ponts des Arts e lo assassinò a sangue freddo. Quando la polizia ne rinvenne il cadavere, constatò un particolare agghiacciante. Il manico del pugnale con cui era stato trafitto al cuore recava la scritta “numero uno”.

Il Pont des Arts dove Pierre uccise Chaubart – Immagine di pubblico dominio via Wikipedia

Incoraggiato dal successo del primo omicidio, Pierre sguinzagliò i suoi informatori per dare la caccia a Solari; intanto, portò avanti il piano contro Loupian. Assoldò un giovane criminale di bell’aspetto e lo trasformò in un finto rampollo dell’aristocrazia italiana: il principe di Corlano. Il complice ricevette precise istruzioni: avvicinò, sedusse e mise incinta la figlia di Loupian. Una gravidanza fuori dal matrimonio rappresentava un problema per la rispettabilità dell’oste, ormai membro di spicco della comunità parigina, e, considerando l’alto lignaggio dello spasimante, con il benestare di tutte le persone coinvolte si procedette alle nozze.

Sebbene la prospettiva di un genero dal sangue blu lasciasse presagire un ulteriore progresso per la sua ascesa sociale, l’ombra di Pierre era in agguato. Il matrimonio fu celebrato nel giro di poco tempo e il ricevimento si tenne nel ristorante di Loupian. Durante il banchetto, il principe di Corlano fece recapitare a ciascuno dei 150 invitati un biglietto in cui rivelava la sua identità criminale. Pierre disonorò la figlia dell’amico e gli inflisse un duro colpo, ma non era abbastanza. Ossessionato dalla necessità di farlo soffrire, riuscì a traviare suo figlio, immettendolo in un giro di amicizie poco raccomandabili. Alcuni giorni dopo, la polizia trovò il giovane, ubriaco e in stato confusionale, sulla scena del crimine di un furto con scasso. Aveva le tasche piene di gioielli e l’episodio gli costò una condanna a vent’anni di lavori forzati.

Tutto procedeva secondo i piani e, dopo aver rintracciato Solari, Pierre si preparò all’ultimo atto. Prima di giustiziare il secondo bersaglio, però, si premurò di ultimare la rovina finanziaria di Loupian, incendiando il ristorante di colui che, stravolgendo le parole di Dumas, aveva camminato sopra un amico per ergersi sino alla fortuna. Con la figlia gravida di un truffatore datosi alla macchia, il figlio nelle mani della polizia e il marito caduto in disgrazia, Marguerite, intanto, morì traumatizzata. Il fidato chef Lucher si dimostrò solidale con il suo datore di lavoro e si offrì di aiutarlo a rimettersi in sesto economicamente. Felice che nel mezzo di quella serie di sventure qualcuno volesse sostenerlo, Loupian ignorava che, in realtà, Pierre aveva stretto un accordo segreto con la figlia per mantenerli in cambio di prestazioni sessuali.

La furia del calzolaio era prossima all’epilogo. Avvelenò Solari, sulla cui bara fu rinvenuta l’incisione “numero due”, e, continuando con la messinscena del subalterno premuroso, infine, uccise Loupian durante una passeggiata notturna al giardino delle Tuileries. Ne era passata di acqua sotto i ponti da quando, entusiasta, aveva annunciato ai suoi presunti amici le nozze con Marguerite e, finalmente, la sua vendetta, condita con un feroce accanimento nei confronti del principale cospiratore, era giunta al termine.

Vista dall’alto del giardino delle Tuileries, dove si consumò l’atto finale della vendetta di Pierre Picaud – Immagine di Palagret condivisa con licenza CC BY-SA 2.5 via Wikipedia

Mentre sangue e complotti macchiavano le strade di Parigi, pur essendo a conoscenza di tutto, Allut si era auto-relegato all’infido ruolo di osservatore degli eventi, proprio come nel 1807. Tuttavia, dopo la morte di Loupian, forse timoroso di essere la vittima successiva, o per semplice cupidigia, rapì e ricattò Pierre. Ormai appagato, il calzolaio rifiutò le richieste di denaro che gli avrebbero restituito la libertà e Allut non ebbe altra scelta che porre fine alla sua esistenza.

La polizia dell’epoca non fu mai in grado di risalire all’artefice di quella misteriosa serie di omicidi, ma Allut, nel frattempo rifugiatosi a Londra, nel 1828 decise di raccontare tutto in punto di morte. Mandò a chiamare un prete francese, tale padre Madeleine, e, durante l’estrema unzione, gli descrisse con dovizia di particolari la vicenda. Profondamente colpito dall’efferatezza della storia, il prelato redasse un testo che, una volta inviato a un prefetto della polizia di Parigi, fu poi inserito negli archivi della capitale francese. Allut fu l’unico testimone oculare ed è plausibile che molti dettagli di cui non sarebbe dovuto essere a conoscenza, come, ad esempio, quelli inerenti al forte di Fenestrelle, glieli abbia raccontati Pierre durante i giorni del sequestro.

Verità o finzione?

Su sua stessa ammissione, per la genesi di Edmond Dantès, Alexandre Dumas prese ispirazione da suo padre, il generale bonapartista Thomas Alexandre Davy de la Pailleterie, imprigionato nel Castello Aragonese di Taranto dal 1799 al 1801, e da Pierre Picaud.

Thomas-Alexandre Dumas Davy de la Pailleterie (1762-1806) in un dipinto di Olivier Pichat – Immagine di pubblico dominio via Wikipedia

Di quest’ultimo è sempre lo scrittore francese che ce ne dà notizia in un’appendice di un’edizione del suo romanzo, contenuta in una raccolta di diciassette volumi pubblicata dal quotidiano Le Siècle a partire dal 1846. L’appendice in questione, intitolata Pierre Picaud: Storia contemporanea, è tutt’oggi consultabile, ma non basta a fugare i dubbi sull’autenticità storica del calzolaio di Nîmes. Stando alle parole di Dumas, ne era venuto a conoscenza attraverso l’opera Mémoires tirés des archives de la police de Paris pour servir à l’histoire de la morale et de la police, depuis Louis XIV à nos jours, edita nel 1838.

L’autore, Jacques Peuchet, lavorava negli archivi della polizia parigina dove fu depositato il testo di padre Madeleine e ricopiò numerosi fascicoli, incluso quello di Pierre Picaud. A questo punto, il dibattito sull’attendibilità della vicenda s’infittisce, perché l’opera uscì postuma e nel 1871 un incendio distrusse gli archivi del fascicolo originale. Vista l’impossibilità di risalire alla fonte, alcuni studiosi hanno ipotizzato che i Mémoires di Peuchet siano opera di Étienne-Léon de Lamothe-Langon, romanziere e falsario francese vissuto a cavallo fra il Settecento e l’Ottocento. Supponendo vera tale attribuzione, il Pierre Picaud di Lamothe-Langon potrebbe essere la versione romanzata di un altro criminale semi-sconosciuto: Gaspard-Étienne Pastorel.

Étienne-Léon de Lamothe-Langon, presunto autore della storia di Pierre Picaud – Immagine di pubblico dominio via Wikipedia

Verità o finzione, personaggio storico o, a sua volta, letterario, sebbene la storia di Pierre Picaud sia tutt’oggi avvolta nel mistero, è indubbio che il calzolaio di Nîmes abbia fornito il suo contributo alla genesi del protagonista di un capolavoro mondiale. Le loro storie sono simili, ma con qualche differenza. Edmond Dantès cercò la vendetta, si accanì contro coloro che avevano calpestato la sua vita e, alla fine, trovò la forza di perdonare Danglars, il principale artefice del complotto. Pierre Picaud, no. Pierre Picaud non perdonò nessuno.


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