All’inizio di luglio di 373 anni fa, la stella di Tommaso Aniello d’Amalfi, detto Masaniello, brilla e si brucia nel giro di una manciata di giorni. Il capopopolo napoletano guida la rivolta della plebe, stanca delle troppo esose tasse imposte dal governatore. Dopo un’effimera vittoria finisce assassinato dai suoi stessi compagni, per poi essere presto rimpianto. E’ il 16 luglio 1647.
Masaniello diventa l’emblema della lotta del popolo oppresso da un’aristocrazia ottusa, mentre durante il Risorgimento incarnerà la figura del rivoluzionario che combatte contro il dominio straniero (che è storicamente falso).
Masaniello in un ritratto di Aniello Falcone – 1647
Molto meno conosciuto di lui è un altro capopopolo, che un mese dopo, nell’agosto 1647, ripercorrerà le sue orme e farà la sua stessa fine, ma a Palermo:
E’ Giuseppe D’Alesi, il “Masaniello siciliano”
Già a maggio del 1647 il popolo di Palermo si ribella: troppe gabelle e poco pane. Miseria e fame dilagano nei vicoli della città, dove cercano un tozzo di pane anche i cafoni arrivati dalle campagne, maledette dalla carestia. D’Alesi partecipa ai disordini, viene arrestato ma riesce a scappare a Napoli, dove sostiene Masaniello.
A Palermo intanto le corporazioni degli artigiani, protagoniste della rivolta, ottengono l’abolizione di qualche gabella e la rappresentanza in senato di due giurati popolari. Per la prima volta vengono approvati dei provvedimenti fiscali che colpiscono i ricchi e suscitano il loro malumore, condiviso dall’ordine dei gesuiti, che si vede minacciato dell’esproprio di alcuni beni. Ecco che clero e nobili si alleano in un disegno che vuole togliere potere alle corporazioni, sobillando la rivolta della plebe, a cui sarebbe seguita l’inevitabile repressione e, di conseguenza, il restauro dell’ordine con annessi privilegi.
D’Alesi è nel frattempo rientrato a Palermo. Capisce che quello è il momento per insorgere: il viceré, che aveva affidato alle milizie delle corporazioni artigiane l’ordine pubblico, vuole forse favorire la nobiltà trasferendo quell’incarico alla Milizia del Regno (una cavalleria al servizio appunto dell’aristocrazia).
Masaniello – Olio su tela di Giuseppe Mazza
Immagine di Fedecstp via Wikipedia – licenza CC BY-SA 4.0
Giuseppe D’Alesi viene da un paesino, Polizzi Generosa, ma è a Palermo che trova la sua strada: di mestiere fa il battiloro (artigiano orefice), ha la parola facile, capace di infiammare gli animi, e un fisico ben piazzato.
Non è un rivoluzionario (come non lo era Masaniello): non vuole cacciare gli Spagnoli né abbattere la monarchia, lui si accontenterebbe di qualche riforma che sollevi dalla miseria il popolino di Palermo.
Il 12 agosto alcuni capi delle corporazioni si riuniscono in una bettola della Vuccìria (storpiatura di Bucceria, dal francese boucherie, macelleria) e lì concludono che si è fatta l’ora della rivolta. Per decidere chi la capeggerà estraggono a sorte: uno è D’Alesi, gli altri sono Giuseppe Errante, conciatore, e Pietro Pertuso, lettighiere. In realtà è Giuseppe D’Alesi il capo indiscusso, irruente e sognatore ma probabilmente ingenuo: nonostante l’esempio della rivolta di Napoli e della fine di Masaniello, non comprende che quel suo generoso prodigarsi per un po’ di giustizia sociale, con l’incostante sostegno di un popolino che si fa facilmente influenzare, dovrà vedersela con i ben più scaltri atteggiamenti di chi sa destreggiarsi con altre armi, assai più infide dei forconi.
Il piano dei rivoltosi è semplice: nel giorno di ferragosto avrebbero rapito il viceré e tutto il seguito dei nobili, diretti al santuario di Gibilrossa, per poi chiedere un riscatto al sovrano di Spagna, non in denaro ma in riforme sociali.
Peccato che tra gli organizzatori ci siano due traditori, che avvisano il viceré e l’inquisitore Diego Trasmiera. Alcuni rivoltosi vengono arrestati, la voce corre di vicolo in vicolo, una folla si dirige verso il Palazzo Reale, con in testa Giuseppe D’Alesi.
Lo scontro tra i ribelli e le milizie spagnole è inevitabile e sanguinoso, il viceré decide di mettersi al sicuro e si imbarca su una nave, insieme a molti nobili. Il popolo ha vinto e vorrebbe anche approfittarne per vendicare qualche sopruso, ma D’Alesi è più che deciso ad impedire qualsiasi eccesso:
Niente saccheggi né vendette personali, pena la morte
Conosce quindi il suo momento di gloria quel capopopolo, che si fa presto lusingare dai pochi nobili rimasti in città, dai ricchi borghesi e dall’inquisitore Trasmiera.
D’Alesi non ascolta più i consoli delle corporazioni e rimane intrappolato nella rete che lo scaltro Trasmiera gli tesse intorno: lo nomina sindaco a vita di Palermo, gli elargisce una cospicua indennità e, stuzzicando la sua vanità, lo fa vestire con abiti lussuosi. Tutto questo per attirare verso di lui l’antipatia del popolo e delle corporazioni.
Intanto rientra a Palermo il viceré, che ratifica alcune riforme, ma subito i commercianti e i ricchi borghesi mettono in atto una controrivoluzione, sobillati dai nobili. Anche il popolino cambia bandiera, grazie all’abile opera di Trasmiera, che il 22 agosto guida una folla inferocita di diecimila persone, con in mano un crocifisso e nell’altra la spada.
D’Alesi è rimasto solo. Cerca rifugio in due chiese, poi si nasconde in casa di un amico, ma è tutto inutile.
Quelle persone che fino al giorno prima lo hanno acclamato vogliono ora la sua testa
E infatti l’avranno: un cavaliere lo decapita sugli scalini di una chiesa e poi infilza la sua testa in una picca, portata in giro per tutta la città. Si spegne così, com’era accaduto a Masaniello un mese prima, la stella di Giuseppe D’Alesi, protagonista di una storia di povera gente e presto dimenticato.