La tragica fine del 1° tentativo di esplorazione del Deserto Australiano

In qualunque periodo storico, gli uomini si sono messi in viaggio per allargare i propri orizzonti esplorando gli spazi circostanti, utilizzando i migliori mezzi tecnologici di cui disponevano. Retrospettivamente, oggi, questi mezzi tecnologici possono sembrarci primitivi e inefficienti, ma sta di fatto che sono sempre serviti al loro scopo.

L’effetto collaterale della loro inadeguatezza è, se mai, quello per cui, molto spesso, certi ambiziosi tentativi di esplorazione si sono conclusi con una vera e propria strage dei partecipanti, uccisi dalle più svariate cause, da pericoli che nessuno si era sprecato a prevedere.

Questa situazione, fino a pochi decenni fa, era ben presente solo a una ristretta minoranza di persone. Un esempio è rappresentato da un celebre autore di Fantascienza, Edmond Hamilton (1904-77), che era approdato all’attività di scrittore dopo una solida formazione scientifica come astrofisico. Negli anni ‘50, quando il mercato dei racconti fantascientifici era monopolizzato dalle storie avventurose che narravano di trionfali conquiste spaziali, Hamilton scrisse un racconto, “Com’era lassù”, nel quale descriveva il fallimento di una spedizione su Marte e la fine atroce di gran parte dei suoi partecipanti. Oggi, “Com’era lassù” è considerato un capolavoro assoluto del genere; ma, allora, fu rifiutato da diverse riviste specializzate e dovette aspettare diversi anni prima di uscire, nonostante la fama dell’autore. Per la mentalità del tempo, era inammissibile che si parlasse di viaggi spaziali (l’emblema del “progresso”) in questi termini.

Un destino simile avrebbe avuto anche un racconto di Arthur C. Clarke (1916-2008), intitolato “Prima dell’Eden”, nel quale una spedizione terrestre su Venere (che all’epoca si riteneva il pianeta gemello della Terra) si comporta in modo irresponsabile e contamina tutti gli ambienti con dei batteri che, in breve tempo, stermineranno tutte le forme viventi autoctone. Non a caso, anche Clarke è un autore giunto alla narrativa dopo una eccellente formazione scientifica, come astronomo.

Fortunatamente, la comunità scientifica la pensa come Hamilton e Clarke e i viaggi spaziali vengono progettati cercando di prevedere ogni possibile rischio sia per i partecipanti sia per gli ambienti che si andranno a esplorare. Ad esempio, nel 2017, si è preferito perdere la sonda Cassini facendola collidere con il pianeta Saturno, dove è stata distrutta dalla forza di gravità, anziché farla posare su uno dei satelliti (ad esempio Titano), proprio per il rischio di contaminare gli ambienti di questi, che non si sa se possano ospitare forme di vita aliena. La stessa esplorazione del satellite considerato più promettente da questo punto di vista (Encelado, che nasconde un oceano d’acqua sotto una superficie ghiacciata) viene preparata con la massima attenzione per non rischiare di nuocere minimamente ad eventuali abitanti viventi, e non si sa ancora quando partirà.

Sotto, la sonda Cassini nei pressi di Saturno:

Un tempo, dunque, tutti questi riguardi non c’erano. I finanziatori mettevano a disposizione degli esploratori il meglio che c’era a disposizione in quel momento ma, per il resto, gli esploratori se la dovevano cavare in base alla loro esperienza. Che troppe volte si è rivelata insufficiente.

Esplorare i mari, o i deserti, o i poli, nelle condizioni di un uomo fino ai primi del XX secolo, non era molto diverso dall’esplorare un pianeta alieno. Si incontravano condizioni climatiche mai affrontate prima, si potevano perdere tutti i sistemi di riferimento, la regola era che fosse richiesto uno sforzo fisico incredibile, non sempre sostenuto da un’alimentazione adeguata, perché non era tanto importante che il cibo fosse nutriente, quanto che si conservasse abbastanza a lungo.

Ad esempio, una delle concause del fallimento della spedizione Scott in Antartide nel 1911-12 fu lo scorbuto di cui soffrirono i suoi partecipanti durante la fase finale, dovuto al fatto che la loro dieta a base soprattutto di pemmican (carne e grasso densi ed essiccati, dal grande potere calorico e facile da conservare) non comprendeva abbastanza vitamine.

La Terra Nova, nave che diede il nome alla spedizione di Scott:

L’esplorazione dei deserti rappresenta un capitolo molto sottovalutato nella Storia dei viaggi con cui l’uomo ha conosciuto tutto il mondo. Questo dipende soprattutto dal fatto che si tratta di un’esplorazione non considerata particolarmente “eroica” e quindi poco spendibile in termini propagandistici dai Paesi che l’hanno portata avanti. A differenza dei poli, delle cime delle catene montuose e dei mari, che non erano mai stati attraversati da nessuno e quindi erano tutti da scoprire, i deserti erano quasi tutti già percorsi da popolazioni locali che potevano fare da guide (o rappresentare un pericolo se si trattava di predoni). L’esplorazione, in questi casi, consisteva soprattutto nell’apprendere dei segreti riguardo le migliori piste da seguire e i migliori accorgimenti da adottare.

Un solo deserto si poteva considerare mai attraversato prima dall’uomo:

Quello australiano

Ed è qui che si è svolta, tra il 1860 e il 1861, una tragedia che è in qualche modo esemplificativa di tutto quanto abbiamo detto prima: grandi finanziamenti e migliore dotazione tecnologica possibile, ma pericoli sottovalutati. In mezzo ai quali, come vedremo, si mise anche la sfortuna.

Il deserto australiano presenta pochi riferimenti. I due principali sono il fiume chiamato Cooper’s Creek e il lago Eyre. Entrambi sono soggetti a notevoli variazioni stagionali. Il lago, ad esempio, in certi periodi è grande 30 volte il lago di Garda, mentre in altri, praticamente, non esiste o è ridotto a qualche palude; il fiume compare e scompare e spesso cambia percorso. Questa situazione è conseguenza delle spaventose temperature che si hanno durante il periodo estivo (che corrisponde al nostro inverno), accentuate dal fatto che il lago Eyre si trova in una criptodepressione (un’area interna a un continente, la cui quota è però inferiore al livello del mare).

Sotto, immagine satellitare del lago Eyre:

Senza metterci (per ovvie ragioni di spazio) a ripercorrere tutta la Storia dell’Australia, ci basta ricordare come, nel 1860, questo Stato stesse attraversando un periodo di grande espansione economica, cominciata circa 10 anni prima in seguito alla scoperta di ricchi giacimenti d’oro. Lo sviluppo era però frenato dall’inospitalità del territorio, abitabile solo in una ristretta fascia costiera, peraltro nemmeno sfruttata completamente perché la presenza della Grande Barriera Corallina lasciava solo pochi punti di approdo alle navi (succede anche adesso) e molte aree costiere sarebbero state più facili da raggiungere dall’interno, se non ci fosse stato il deserto in mezzo.

Molti pensavano che il deserto ospitasse un mare interno e le prime spedizioni erano andate proprio alla ricerca di questo mare, che era stato scoperto viaggiando via mare da Matthew Flinders nel 1802. Tra le più importanti tra quelle via terra, ricordiamo quella di Charles Sturt nel 1844-45. In condizioni terrificanti (furono registrate temperature sui 70°C e per un certo periodo non fu possibile riempire i diari perché la grafite si squagliava e colava giù delle matite), Sturt scoprì il Cooper’s Creek e lo Stony Desert, un deserto roccioso di dune violacee che si spaccavano in continuazione, con terrificanti boati, per effetto dell’escursione termica tra il dì e la notte; quella di Ludwig Reichardt, che si era perso nel deserto e vi era perito insieme ai suoi compagni nel 1848; quella di Augustus Gregory, che nel 1858 era andato alla ricerca di tracce lasciate da Leichardt ma, a metà strada, aveva prudentemente deciso di tornare indietro.

Sotto, mappa dei fiumi, immagine di Kmusser via Wikipedia:

Finalmente, la Royal Society dello Stato del Victoria (l’Australia è uno Stato federale) raccolse la notevole somma di 9.000 sterline per finanziare una spedizione in grado di attraversare tutto il continente da Melbourne al Golfo di Carpentaria, dalla parte opposta.

Come capo spedizione, fu scelto il capo della polizia del distretto di Castlemaine, Robert O’Hara Burke. Era un irlandese giramondo, nato vicino Galway il 5 maggio 1821, con un passato da militare. In Australia aveva una buona posizione e poteva starsene tranquillo, ma aveva deciso di affrontare quell’avventura per dimenticare una delusione sentimentale, dopo che la cantante Julia Matthews aveva rifiutato la sua proposta di matrimonio. Non sapeva assolutamente nulla di esplorazioni, ma la Royal Society lo scelse ugualmente, dopo aver esaminato 14 candidature. E’ possibile che gli altri ne sapessero ancora meno di lui.

Sotto, Robert O’Hara Burke:

Fu affiancato da un comitato tecnico-scientifico di discreto livello: il medico tedesco Hermann Beckler, il naturalista pure tedesco Ludwig Becker, il topografo inglese William John Wills, e l’istruttore militare John King, che parlava la lingua dei sepoys (i soldati dell’esercito anglo-indiano), indispensabile perché il principale mezzo di locomozione della spedizione consisteva di una carovana di cammelli acquistati in parte da un circo e in parte a Peshawar, in Pakistan, e condotti da ex sepoys.

A convincere Burke e la Royal Society che il viaggio si sarebbe svolto meglio utilizzando i cammelli fu il vicecomandante che era stato scelto per assistere Burke, William Landells, uno dei tanti tipi loschi che si erano aggiunti alla spedizione solo per sfruttarla in modo da arricchirsi in ogni modo, lecito o illecito. In effetti, Landells spese (sicuramente lucrando in vari modi su ogni passaggio di denaro) oltre metà dei fondi nell’acquisto degli equipaggiamenti, che si sarebbero poi rivelati inutili, inefficaci e pesanti.

Gli abitanti di Melbourne non furono molto entusiasti di come stavano andando le cose e, infatti, la spedizione partì nel pomeriggio del 20 agosto 1860, seguita più da risate di scherno che da applausi di incoraggiamento.

Landells aveva comprato così tante provviste che, dopo poche settimane di viaggio, Burke decise di venderne una parte per alleggerire il carico delle bestie da soma. Anche gli uomini inizialmente arruolati non si stavano rivelando all’altezza, per cui ne licenziò diversi, arruolando al loro posto dei bushmen (pionieri dediti alla caccia e all’agricoltura) locali, tra i quali un certo Charles Gray.

I contrasti tra Burke e Landells si acuirono, perché Landells aveva comprato enormi quantità di rum con il pretesto che, somministrato ai cammelli, ne migliorava le prestazioni. In realtà, il rum finiva rubato dagli uomini, che si ubriacavano sfrenatamente. Gli stessi cammelli non erano affatto facili da governare (“si comportano in maniera indecente”, scrisse Burke in una comunicazione) e l’inutilità di Landells, che aveva pure preteso una paga superiore a quella dello stesso Burke, appariva totale. Dopo una terribile scenata, a Menindee, l’ultimo insediamento umano prima di affrontare finalmente il deserto, Burke cacciò Landells e nominò proprio vice Wills. La responsabilità dei cammelli passò a King. Fu inoltre assunto un ulteriore bushman come guida: William Wright, un altro individuo che si sarebbe rivelato un pessimo investimento.

L’estate australe era ormai prossima e, per raggiungere il Cooper’s Creek, mancavano ancora 600 km. Burke decise allora di accelerare la marcia dividendo i suoi uomini, 17 in tutto, in due gruppi. Il primo, formato da Burke e altri 7 uomini, con il minimo carico indispensabile, si sarebbe spinto rapidamente fino al Cooper’s Creek, giudicato il posto migliore per stabilire un campo permanente. Il secondo, formato da 9 uomini comandati da Beckler e Wright, li avrebbe raggiunti appena possibile dopo aver trasportato il resto dell’equipaggiamento.

Sotto, deserto Australiano, fotografia di CSIRO condivisa con licenza Creative Commons via Wikipedia:

Il gruppo di Burke avanzò, in effetti, a gran velocità, compiendo importanti rilevazioni geologiche e segnando il proprio tragitto con l’incisione sulla roccia di numeri romani progressivi accompagnati dalla lettera B perché i compagni potessero facilmente ritrovarne le tracce.

Quando il secondo gruppo raggiunse il primo, Beckler si dimise dal ruolo di secondo ufficiale (secondo Burke, per non rischiare di essere incluso nel gruppo che avrebbe poi puntato al Golfo di Carpentaria) e il suo posto fu preso da un altro tedesco, Wilhelm Brahe. Poi Burke fu costretto a constatare che, tra un inconveniente e l’altro, i mezzi a disposizione della spedizione si erano molto assottigliati, e spedì Wright a Melbourne con l’incarico di reperire altri fondi presso la Royal Society e tornare con il necessario.

Al Cooper’s Creek si poteva ancora stare, grazie alla presenza di macchie di eucalipti e soprattutto a quella del fiume; ma ogni tentativo di spingersi verso Nord mostrò che in quella direzione non si trovava altro che un deserto bollente. Burke restò quasi due mesi fermo al campo LXV in attesa di notizie da Wright ma, visto che non ne arrivavano, decise di muoversi, in compagnia di tre soli uomini: Wills, King e Gray. Gli altri sarebbero rimasti ad aspettarli, sotto il comando di Brahe.

I saluti, il 16 dicembre 1860, furono piuttosto melodrammatici. A quelli destinati a rimanere, sembrava che Burke e gli altri tre si avviassero a una morte da kamikaze. Un amico di Burke, William Patton, lo pregò piangendo di rinunciare. Ma Burke era deciso e l’unico cedimento ai sentimenti che si concesse fu una serie di lettere sigillate per Julia Matthews, la donna che lo aveva respinto, consegnata a Brahe un attimo prima di andarsene. Burke disse anche a Brahe che le provviste disponibili gli sarebbero bastate al massimo fino all’aprile successivo. Se non fossero tornati per allora, bisognava considerarli morti.

In qualche modo, in febbraio, Brahe riuscì a far arrivare alla Royal Society un messaggero con la comunicazione che Burke si era avviato verso l’ignoto. Poi, per 9 mesi, i finanziatori non ricevettero più notizie. Intanto, registrarono il relativo successo di un’altra spedizione, guidata da John Stuart, che si era spinta più a Nord di tutte le altre prima di tornare indietro.

Finalmente, il 2 novembre 1861, arrivò a Melbourne un altro messaggero di Brahe, con il resoconto della spedizione. E adesso il racconto si ingarbuglia, perché bisogna seguire le vicende di tre gruppi: quello di Burke, quello di Brahe e quello di Wright.

Il gruppo di Brahe doveva aspettare al Cooper’s Creek e aspettò. Tuttavia, a un certo punto, la situazione si fece insostenibile. Gli uomini cominciavano a patire lo scorbuto, e Brahe temette che non sarebbero riusciti nemmeno a tornare indietro. Alcuni cammelli e cavalli erano scappati, altri erano morti, quelli rimasti non erano in buone condizioni. Ad aprile del 1861, Brahe decise che era arrivato il momento di andarsene. Era probabile che Burke e i suoi fossero già morti. In ogni caso, scavò un tumulo in cui seppellì diverse provviste e una lettera con cui spiegava di essere stato costretto ad andarsene, ma senza specificare in quali condizioni di difficoltà.

Il gruppo Brahe lasciò il campo LXV alle 10:30 del 21 aprile.

Dopo 6 giorni, avendo percorso 110 km, Brahe si imbatté in Wright, che stava finalmente tornando. In realtà, Wright non era mai andato a Melbourne: si era fermato a Menindee e lì era rimasto finché la Royal Society, avvisata da un giornalista al seguito della spedizione, Willam Hodginson, gli aveva intimato di andare a riprendere gli altri, perché la spedizione era da considerarsi irrimediabilmente fallita. Tuttavia, anche nel suo gruppo c’erano stati casi di scorbuto e tre uomini ne erano morti, perciò Wright si era mosso in ritardo.

Brahe e Wright non avevano nessuna intenzione di tornare al Cooper’s Creek ma avevano ordini precisi in tal senso, e ripartirono verso Nord. L’8 maggio giunsero al campo LXV, ma si comportarono in modo sciatto e superficiale, dando solo una rapida occhiata ai resti delle capanne e delle palizzate, trattenendosi non più di un quarto d’ora. In realtà, i segni della presenza stabile di uomini erano ben visibili, ma se li lasciarono sfuggire. Alla massima velocità possibile, se ne tornarono a Menindee, dove arrivarono il 18 giugno in condizioni pietose, dopo aver perso quasi tutti i cammelli e i cavalli e un altro uomo (Patton, l’amico di Burke) morto di scorbuto.

Quando Brahe riferì ai finanziatori com’erano andate le cose, la stampa gridò allo scandalo, perché sembrava davvero che Burke, King, Wills, e Gray fossero stati abbandonati. Il padre di Wills faceva il diavolo a quattro perché si organizzasse una spedizione di ricerca. L’opinione pubblica era favorevole e, già il 4 luglio, dopo aver interrogato Brahe, il giovane geologo Alfred Howitt si mise in cammino con 3 compagni per raggiungere il campo LXV. Una nave militare fu inviata nel Golfo di Carpentaria per verificare se i quattro fossero lì sulla costa. Altre spedizioni di soccorso partirono da altri punti dell’Australia.

Ma il primo ad arrivare al Cooper’s Creek fu Howitt, il 13 settembre. Diversamente da Brahe e Wright, notò subito le tracce del passaggio recente di qualcuno, uomini e cammelli. Nonostante l’area da perlustrare fosse molto vasta, Howitt e i suoi compagni continuarono a cercare. Finalmente si imbatterono in alcuni aborigeni pacifici che, a gesti, li convinsero a seguirli e li condussero da un uomo bianco scheletrico e coperto di stracci, che non aveva nemmeno la forza di reggersi in piedi ma riuscì a presentarsi come John King prima di svenire.

Robert Hawker Dowling, Gruppo di Nativi della Tasmania, 1859:

Howitt temeva che sarebbe morto di lì a poco ma, fortunatamente, al suo gruppo si era aggiunto un medico, il dottor Wheeler, che riuscì a tenerlo in vita. Appena si rimise un po’ in forze, King raccontò com’era andata.

Per il primo tratto, i quattro erano andati avanti speditamente. Wills era abile nell’indicare la rotta, seguendo la bussola; Gray portava il cavallo e King i sei cammelli. Le razioni di cibo erano abbondanti, anche se la dieta era basata sulla carne essiccata.

Il diario di Burke è molto sintetico, quello di Wills decisamente più preciso. Non attraversarono solo deserto. Si imbatterono in alcuni fiumi (scoprirono il Diamantina, dove oggi sorge Birdsville) e, dopo un altro tratto arido, all’altezza dell’attuale Cloncurry, entrarono in una foresta tropicale ricca di vegetazione e fauna. Il terreno paludoso non li aiutò a procedere ma potevano seguire il corso di due fiumi, prima il Cloncurry e poi il Flinders. Dopo aver piantato l’ultimo campo, il CXIX, il 12 febbraio, Burke e Wills si spinsero nella melma fino a un canale di acqua salmastra che impediva loro di procedere. Constatarono che il livello dell’acqua nel canale saliva e scendeva secondo i tempi delle maree, e ne conclusero che il mare fosse lì, anche se non potevano arrivarci.

Incrocio del fiume Diamantina fuori di Birdsville, Queensland. Fotografia di Yeti Hunter condivisa con licenza Creative Commons via Wikipedia:

Era il momento di ripartire. La situazione non era positiva. Il viaggio di andata era durato 57 giorni e le provviste scarseggiavano. Anche macellando il cavallo e i cammelli, non avrebbero coperto i 60 giorni necessari al ritorno. In più, si beccarono un periodo di intense piogge tropicali che li rallentarono ulteriormente. Mentre procedevano, andavano a caccia per integrare la loro modesta dieta. Ai primi di maggio uccisero e mangiarono un grosso serpente a macchie marroni e rosse, dalla testa rossa: poi, Burke e Gray si sentirono male. Gray, in realtà, non si riprese più. Un giorno, Burke lo sorprese a rubare dalle provviste e lo bastonò duramente. Ma Wills e King pensavano che Gray stesse dando segni di grave squilibrio mentale, oltre che di rapido decadimento fisico. Lo legarono sopra un cammello e lo trasportarono così, fino alla mattina del 17 aprile in cui, andando a svegliarlo, lo trovarono morto. Erano talmente deboli che persero una giornata intera per seppellirlo.

Fu un errore gravissimo

Burke, Wills e King, miracolosamente sopravvissuti alla durissima traversata del deserto, raggiunsero il campo LXV alle 19:30 del 21 aprile 1861, appena nove ore dopo la partenza del gruppo Brahe. Aprirono il tumulo e, leggendo il messaggio lasciato da Brahe, pensarono che questo si fosse avviato verso Sud a tappe forzate e non provarono nemmeno a raggiungerlo. Visto lo stato degli animali da soma di Brahe, se si fossero incamminati al suo seguito, lo avrebbero ripreso in pochi giorni.

Certamente, la consapevolezza di aver mancato la salvezza per poche ore li abbatté anche emotivamente, perché caddero tutti e tre nell’apatia. Un quadro di John Langstaff, risalente al 1907, li ritrae in preda al più terribile sconforto.

Il giorno dopo decisero di non seguire Brahe, perché erano distanti oltre 600 km da Menindee, primo avamposto umano a Sud. Verso Sud-Ovest, invece, a soli 250 km, potevano trovare un fortino militare alle pendici del monte Hopeless. Avevano ancora 2 cammelli e razioni di cibo per 20 o 30 giorni:

Era difficile, ma una speranza c’era

Burke e Wills lasciarono dei messaggi con il resoconto del loro viaggio e la spiegazione delle loro intenzioni. Se Brahe fosse stato più attento (su Wright, analfabeta, non si poteva contare), avrebbe potuto vederli, quando passò di lì l’8 maggio.

In realtà, tentare di raggiungere la zona dell’Hopeless (che non a caso si chiama “senza speranza”) era uno sforzo enorme per chiunque. Quando, dopo alcuni giorni di tentativi, si resero conto che riuscivano a fare pochissimi km alla volta, mentre intanto i due cammelli erano morti, ci rinunciarono e tornarono al Cooper’s Creek.

Gli aborigeni, da loro molto temuti, si erano rivelati pacifici e amichevoli: a ogni incontro, li avevano rifocillati con pesce e focacce. Questo, almeno fino ai primi di giugno. Poi, per ragioni mai chiarite, i rapporti tra i tre uomini e gli aborigeni si guastarono. Ci furono vari tentativi di aggressione reciproca ma, soprattutto, gli aborigeni smisero di aiutarli.

Era arrivato l’inverno australe e le notti erano gelide. Il cibo era finito, loro erano ridotti pelle e ossa, con gli abiti a brandelli. La notte del 27 giugno, Wills scrisse l’ultimo appunto sul diario e una lettera al padre, poi diede a Burke il suo orologio e morì. Tre giorni dopo, ridotto allo stremo, Burke chiese a King di mettergli la pistola in mano, forse per uccidersi, ma non trovò la forza di premere il grilletto. Sopravvisse ancora fino alla sera di quel giorno.

Artur Loureiro, Morte di Burke, 1892, collezione privata:

King provò con scarso successo a seppellire i suoi compagni, poi non gli restò che andare in giro senza meta, alla ricerca di qualunque cosa fosse commestibile. Quando fu ridotto a uno scheletro senza nemmeno la forza di alzarsi da terra, gli aborigeni si impietosirono e lo soccorsero. In qualche modo, riuscirono a tenerlo in vita per più di due mesi, fino all’arrivo di Howitt.

Howitt e i suoi uomini trovarono i resti di Burke e Wills e li seppellirono al campo LXV. In realtà, avrebbero trovato pace solo per un breve periodo, dato che lo stesso Howitt, dopo qualche tempo, fu mandato a recuperare le loro spoglie, che furono seppellite a Melbourne con una cerimonia imponente e i feretri seguiti da 40.000 persone, il 21 gennaio 1863. La loro tomba, a Melbourne, è un monumento monolitico pesante 34 tonnellate, con una iscrizione che li celebra come eroi.

William Strutt, Sepoltura di Burke, 1911, Biblioteca di Stato del Victoria:

A Burke, onorato con la medaglia d’oro anche dalla Royal Society anche in Regno Unito, fu intitolata una cittadina costiera eretta sul golfo di Carpentaria, Burketown. La famiglia di Wills ricevette un indennizzo di 3000 sterline e King una pensione di 180 sterline l’anno. Tuttavia, King non la godette a lungo. Le privazioni patite durante il viaggio gli lasciarono il doloroso strascico della tubercolosi, di cui morì nel gennaio del 1872, a soli 33 anni.

La statua di Burke e Wills Statue all’angolo tra Collins e Swanston Street, Melbourne. Fotografia di Adam Carr condivisa con licenza Creative Commons via Wikipedia:

Intanto, c’era stata un’inchiesta ufficiale sulle cause del fallimento della spedizione. Nonostante tutte le sue manchevolezze, Brahe riuscì a convincere i giudici di aver semplicemente eseguito gli ordini di Burke. Non ricevette dunque alcuna condanna, come non ne ricevette Wright, la cui condotta fu però duramente biasimata, perché le istruzioni di Burke a entrambi non erano state così precise come avrebbero dovuto essere. Anche se gli riconosceva la massima abnegazione, la Corte ammetteva che Burke, durante il viaggio, si era spesso comportato in modo poco prudente.

Julia Matthews non ricevette mai le sue lettere. Brahe, inspiegabilmente, le aveva bruciate subito prima di lasciare il campo LXV.


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