Nubi di tempesta oscurano l’accecante luce del Sahara, là dove la sabbia è vinta dalle rocce dell’Ahaggar. Il temporale che si scatena improvviso, i tuoni e i lampi che si rincorrono tra i maestosi picchi sono un preciso segno dell’intervento degli spiriti del fuoco, almeno per i pochi Kel Ahaggar (Tuareg del Nord) che accompagnano una missione archeologica franco-statunitense.

Le guide tuareg sono convinte che quegli spiriti, fatti di solo fuoco senza fumo, stiano proteggendo la tomba della venerata Tin Hinan, la nobilissima donna da cui – leggenda vuole – discendono tutti i Tuareg.

Gli europei/americani invece sono preoccupati per le loro attrezzature e per le provviste, ma temono anche una possibile ribellione degli operai indigeni terrorizzati. A condurre la missione è il sedicente conte Byron Khun de Prorok, statunitense di origini ungheresi, che già i suoi contemporanei ritengono poco credibile come archeologo, ma piuttosto dotato di “vivida immaginazione” e propenso a “grande esagerazione”, tanto è vero che viene espulso dalla Royal Geographical Society, ma è comunque membro del Adventurers’ Club of New York, un circolo privato dedito più a pranzi e cene che a mirabolanti avventure.

Comunque sia, nel 1925 De Prorok si lancia in un’impresa che lo porta nel cuore del Sahara, tra le selvagge montagne dell’Ahaggar, che gli arabi chiamano addirittura terra della paura. Insieme a lui ci sono un paio di professionisti, l’archeologo statunitense Alonzo Pond e il francese Maurice Reygasse, professore esperto di preistoria algerina e fondatore del Museo del Bardo, e poi un certo Bradley Tyrrell, cacciatore di animali di grossa taglia, un giornalista del New York Times, un interprete, due guide e un cuoco. C’è anche, per la prima volta in missioni del genere, un operatore incaricato di registrare brevi filmati (peccato che il materiale sia andato tutto perduto). Insomma, De Prorok può essere anche un dilettante, ma qualche idea buona ce l’ha.

In quella “terra di mito e mistero”, la missione vuole trovare addirittura qualcosa che possa “far luce sull’origine stessa dell’uomo e sugli inizi della civiltà libico-fenicia “, alla ricerca di “città sepolte e razze strane”. In particolare, De Prorok è alla ricerca di “un popolo misterioso, alto, dritto e snello, che si considera la più grande di tutte le razze con somiglianze con gli egiziani rappresentati sulle antiche tombe dei Faraoni” [I virgolettati sono di De Prorok]


Da Algeri la spedizione arriva ad El Kantara, la bocca del deserto, e da lì, scrive De Prorok, inizia “un lungo tuffo di mille miglia nel deserto” fino all’Ahaggar, “nelle cui valli si trovano bianchi dal fisico magnifico e dai lineamenti classici, la cui origine è un mistero, e sul quale loro stessi si sono fermamente rifiutati di fornire qualsiasi informazione”. Sono i Tuareg del Nord.

Durante questo “lungo tuffo”, la missione viene salvata, almeno un paio di volte, dall’esercito francese, e finalmente si spinge “oltre la civiltà”, a Tamanrasset, oasi abitata (allora) quasi esclusivamente da Tuareg. Qui la spedizione si divide: mentre Pond e Reygasse si dirigono a nord, De Prorok, insieme a una ventina di tuareg, preferisce spingersi a sud, alla ricerca di un “vasto tumulo piramidale” che lui riteneva essere la tomba della leggendaria Tin Hinan, vissuta nel IV secolo d.C.
Ma chi è Tin Hinan?
Una figura leggendaria, ma forse non poi così tanto: lei è considerata la “madre di tutti i Tuareg”. Il suo nome significa “colei che viaggia” o “che viene da lontano”. Nelle lunghe notti nel deserto o durante la preparazione cerimoniale del the, i tuareg raccontavano di questa regina, “una donna di irresistibile bellezza, alta, con un viso impeccabile, una carnagione luminosa, occhi immensi e ardenti, un naso delicato, il tutto evoca insieme bellezza e autorità.”

Questa donna dunque arriva nei monti dell’Ahaggar “da lontano”, cavalcando un cammello bianco latte, partita – secondo la tradizione orale – da Tafilalet, nel sud del Marocco, dove vivono tribù berbere.
Cosa la induce a questo lungo e pericolosissimo viaggio?
Impossibile dirlo, ma si può usare l’immaginazione. Nel IV secolo d.C. la Numidia (che comprendeva appunto anche l’attuale Marocco) è una provincia romana dove il cristianesimo è già molto diffuso. Non mancano le rivolte contro l’Impero, da parte delle tribù nomadi dei berberi, con qualcuno di loro che decide di spostarsi verso sud, per questioni politiche o religiose. Forse Tin Hinan parte per questo motivo, o forse per dissidi familiari o tribali, chi può dirlo?. Certamente, malgrado la tradizione orale non lo dica espressamente, la donna non parte da sola: oltre alla sua fedele serva, Takamat, ci sarà stato qualche schiavo al seguito, ad occuparsi magari di poche pecore o capre, portate per avere latte durante il viaggio.
Viaggio oltremodo pericoloso, in quel deserto sterminato dove ci si può orientare solo seguendo le stelle e, probabilmente, le tracce dell’antichissima “vie delle cisterne”, un percorso testimoniato da pitture rupestri ritrovate nel Sahara. Dopo chissà quanti giorni di viaggio, finalmente la roccia prende il posto della sabbia; montagne misteriose, creste e picchi maestosi, valli ventose e finalmente l’oasi: Tin Hanan, accompagnata dal suo piccolo seguito, è arrivata ad Abalessa.

Chi trova lì, tra palmeti e fresche pozze d’acque? Secondo l’archeologo francese Henri Lhote, grande esperto di pitture rupestri sahariane e anche delle tradizioni dei Tuareg, ad Abalessa probabilmente vivevano gli Isebeten, forse gli ultimi discendenti dei Garamanti, fiero popolo berbero che aveva dato filo da torcere ai Romani, con costanti razzie nelle colonie costiere. Alla fine i Romani si stancano e nel 19 a.C. ci pensa Lucio Cornelio Balbo a sconfiggerli, anche se non definitivamente.
Cosa succede dunque dopo l’arrivo ad Abalessa? Chi sceglie Tin Hinan per dare vita al popolo Tuareg? Di quest’uomo non rimane traccia nella tradizione orale, che ricorda solo la regina, l’amenokai (proprietaria del paese), nel rispetto della successione matrilineare che ancora oggi (anche se non sempre) regola le società tribali tuareg. Sulla discendenza di Tin Hinan la tradizione è discorde: secondo alcuni ha una figlia (o nipote) di nome Kella, secondo altre ha tre figlie, ma quello su cui tutte le leggende concordano è che da lei discendono le tribù più nobili dei Kel Ahaggar, mentre dalla sua serva Takamat quelle più sottomesse.

Le leggende intorno a Tin Hinan si diffondono in Europa all’inizio del ‘900, grazie al lavoro del religioso/eremita francese Charles de Foucauld, che raccoglie le testimonianze orali dei Tuareg, in particolare delle tribù dell’Ahaggar.
Così si torna alla spedizione di De Prorok, che doveva aver letto qualcosa sulla leggendaria Tin Hinan. E un po’ come spesso accade agli archeologi dilettanti, la fortuna gli arride.
Nei pressi di Abalessa, nonostante le guide tuareg tentino di depistarlo sospettando quello che poi avverrà, ovvero la profanazione della tomba, De Prorok trova un tumulo posto su una collinetta che si eleva tra due wadi. Al momento della scoperta il monumento, alto circa quattro metri con l’asse maggiore lungo circa 27 metri, si presenta coperto da grosse pietre che devono essere rimosse per procedere allo scavo.

La costruzione è abbastanza misteriosa, perché non sembra essere una tomba, ma piuttosto, con le sue mura spesse e l’unico ingresso, quasi una fortezza, unica del suo genere nel deserto lì intorno. Potrebbe risalire proprio a quella spedizione romana di cui parla Plinio il vecchio, quando il proconsole Cornelio Balbo sottomette diverse città dei Garamanti. Una di queste, chiamata Balsa o Galsa, poteva essere Abalessa?
Sotto, tomba della Tin Hinan come visibile su Google Maps
Forse, quando Tin Hinan arriva ad Abalessa, trova il forte ancora in piedi, e la tribù lo usa come magazzino e poi, alla sua morte, una delle camere diventa la tomba della regina. Tomba rimasta inviolata fino all’arrivo della missione di De Prorok, che si trova di fronte uno scheletro umano, sepolto sotto lastre di pietra e adagiato su una lettiga di legno, con la testa rivolta verso est.

Il corpo è adornato da sette braccialetti d’oro in un polso e sette d’argento nell’altro, oltre a varie perle di corniola e amazzonite sparse intorno. C’è anche un corredo funerario composto da abiti, ceramiche, resti di alimenti, una lampada romana e l’impronta di una moneta di Costantino I, emessa tra il 308 e il 324 d.C. L’epoca della tomba si pone quindi al IV secolo, e molto tempo dopo la datazione al radiocarbonio della lettiga conferma questa ipotesi.
Studi successivi stabiliscono che “lo scheletro è quello di una donna caucasica. L’intero scheletro esaminato richiama fortemente il tipo egizio dei monumenti faraonici, il tipo dei ceti superiori, caratterizzato dalla vita alta e slanciata, dalla larghezza delle spalle, dalla ristrettezza del bacino e dalla snellezza delle gambe”.
Una donna di altezza fuori dalla media (tra 1,72 e 1,75 metri), affetta da una forma di artrosi lombare che la faceva zoppicare. Questo particolare trova riscontro nella testimonianza dello storico arabo Ibn Khaldoun, vissuto nel XIV secolo, che a proposito dei Tuareg dell’Ahaggar riferiva di come loro si ritenessero “i figli di Tiski”, ovvero “i discendenti della donna che zoppica”. Una donna che, come dimostra il suo corredo funerario, è stata capace di intessere rapporti commerciali che hanno reso possibile il prosperare del suo popolo.

I Tuareg hanno quindi conservato memoria di questa straordinaria regina, la cui traccia storica è estremamente labile, mentre invece la sua leggenda si inserisce perfettamente nel solco di quelle donne senza paura, capaci di “fare” la storia ma troppo spesso dimenticate dalle cronache.
Per completezza d’informazione: i resti di Tin Hinan e il suo corredo funebre sono oggi conservati al Museo del Bardo di Algeri. De Prorok scavò solo la camera dove era sepolta la regina, mentre l’archeologo Reygasse proseguì il lavoro nel 1933.

Secondo le sue conclusioni si trattava di un edificio fortificato con funzioni anche sacre, dove si potevano riconoscere fortissime influenze romane, destinato probabilmente ad essere un luogo di sosta per chi viaggiava dalle coste del Mediterraneo all’interno dell’Africa.
Tutto ciò nulla toglie al fascino di Tin Hinan, e le sue storie continueranno ad essere raccontate intorno al fuoco, nelle lunghe notti stellate del deserto, nelle tende del fiero popolo dei Tuareg.