La terrificante esecuzione per mezzo dell’Elefante

L’esecuzione da parte degli elefanti era un metodo comune di pena capitale nel sud e nel sud-est asiatico, in particolare in India, dove gli elefanti asiatici venivano usati per schiacciare, smembrare o torturare i prigionieri durante le esecuzioni pubbliche. Gli animali erano in grado di uccidere le vittime immediatamente, oppure di farle morire dopo una lunga tortura. L’aspetto culturale lo approfondiremo in seguito, ma posso già anticipare che gli elefanti venivano impiegati per dimostrare al popolo il potere assoluto del sovrano e la sua capacità di controllo sugli animali selvatici.

Illustrazione dall’Akbarnama, la cronaca ufficiale del regno di Akbar, il terzo imperatore Mughal

L’esecuzione con l’elefante fu al centro di un’ampia letteratura da parte dei viaggiatori europei, che scrissero nei loro diari resoconti dettagliati delle condanne che osservavano in Asia. Probabilmente l’impiego di elefanti ha inizio in tempi antichissimi, forse addirittura 4.000 anni fa, e continua sino all’epoca contemporanea, quando l’India e le regioni limitrofe diventano colonie degli Imperi europei.

Circoscrivere questo sistema alla cultura indiana è però sbagliato perché anche a Roma e Cartagine vennero utilizzati gli elefanti per uccidere i condannati a morte. Prima dei Romani Perdicca, uno dei generali che seguì l’Impero di Alessandro Magno, fece uccidere un gruppo di ribelli proprio da un branco di elefanti, mentre nel 167 Lucio Emilio Paolo Macedonico, generale romano, fece gettare un gruppo di disertori fra gli elefanti, che li schiacciarono a morte.

Miniatura ottomana raffigurante l’esecuzione di prigionieri di guerra a Nándorfehérvár

Aspetti culturali

L’intelligenza e la facilità di domesticazione dell’elefante rappresentavano notevoli vantaggi rispetto ad altri animali selvatici come leoni e orsi, spesso usati come metodo di esecuzione dagli antichi romani nelle arene, di questo ne troviamo traccia anche nei disegni e graffiti al Colosseo. Gli elefanti potevano persino essere addestrati a giustiziare i prigionieri in vari modi, e si poteva insegnare loro a prolungare l’agonia del condannato, infliggendo una morte lenta mediante tortura oppure nell’ucciderlo immediatamente schiacciandogli la testa.

Esecuzione da parte di un elefante scolpito su un pilastro del Tempio del Sole di Modhera dell’XI-XII secolo nel Gujarat, India. Fotografia di Rupeshsarkar condivisa via Wikipedia con licenza Creative commons 3.0

L’esecuzione veniva gestita dal Mahout, la sua guida, che rispondeva agli ordini del sovrano. Quest’ultimo poteva anche mostrarsi misericordioso e concedere la grazia all’ultimo secondo, magari poco prima che l’elefante schiacciasse il cranio al condannato.

E proprio questo era l’aspetto unico dell’elefante rispetto ai grossi carnivori. Alcuni Re del Siam, odierna Thailandia, facevano addestrare i pachidermi affinché facessero rotolare il condannato, lo terrorizzassero ma non lo ferissero troppo gravemente, in modo da mostrarsi misericordiosi e concedergli la grazia al momento opportuno.

L’imperatore Mughal Akbar usava questa tecnica “per castigare i ‘ribelli’ e poi alla fine ai prigionieri, dopo qualche tempo in balia dell’elefante, veniva concessa la grazia. Del regno di Akbar abbiamo un altro resoconto, che riporta come un uomo avesse subito cinque giorni di “trattamento” da parte di alcuni elefanti per poi essere graziato. Questo tipo di esecuzione assumeva anche il significato di Ordalia: se il condannato riusciva a respingere gli assalti del pachiderma veniva graziato.

Gli elefanti smembravano occasionalmente i corpi dei condannati, come viene mostrato in questo disegno del 1681 da An Historical Relation of the Island Ceylon, di Robert Knox.

Se a noi moderni l’uso di un elefante come strumento di condanna a morte può sembrare barbaro e incivile, all’epoca e in quei luoghi era tutt’altro. L’elefante era il simbolo dell’autorità del sovrano (lo è ancor oggi in Thailandia), e il loro utilizzo come mezzo di esecuzione sottintendeva l’assoluto controllo dell’uomo, il sovrano, sulle forze della natura. Era il sovrano che dominava moralmente e spiritualmente le bestie feroci, e la sua forza veniva trasmessa ai sudditi anche grazie a questi messaggi.

Le esecuzioni con l’elefante furono prevalenti in tutta la zona dell’attuale India per secoli, mentre in altri luoghi rappresentava una forma di esecuzione più sporadica.

Area geografia dell’esecuzione mediante elefante

Gli animali erano spesso dotati di lame sulle zanne, in modo da dilaniare le carni dei malcapitati, e le esecuzioni più elaborate prevedevano un rituale specifico. In alcune zone l’elefante trascinava per centinaia di metri il condannato, spezzandogli le ossa. In altre l’elefante era talmente ben addestrato da schiacciare gli arti, uno ad uno, per poi finire il condannato solo dopo l’ordine del suo addestratore. In altre ancora i condannati erano legati a un palo e schiacciati dal pachiderma, oppure, ed è il caso della descrizione di Louis Rousselet nel celebre disegno sotto, l’elefante schiacciava la testa del condannato, che era posta sopra un piedistallo.

Rousselet descrisse questa esecuzione in Le Tour du Monde nel 1868

La popolarità dell’esecuzione per mezzo dell’elefante continuò fino al 19° secolo, e fu solo con la crescente presenza degli inglesi in India che la popolarità di questa brutale punizione andò in declino.

La pratica dell’esecuzione con l’elefante andò avanti fino all’inizio del ‘900. La testimonianza della fine di questa pratica viene da uno scritto del 1914 di Eleanor Maddock, la quale documentò come nel Kashmir le abitudini locali, dopo l’arrivo dei coloni europei, stessero cambiando: “molte delle antiche abitudini stavano sparendo, e una di queste era la spaventosa usanza di giustiziare i criminali mediante un elefante allenato per questo scopo, che veniva conosciuta con il nome ereditario di ‘Gunga Rao’”.


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