La Strage della Garifallia: 11 Clandestini gettati in Pasto agli Squali

Nelle convulse settimane in cui il governo di Alexis Tsipras trattava con le autorità europee i contenuti del pacchetto di riforme per garantire la permanenza della Grecia nell’area Euro potrebbe essersi imbattuto in un paragone ripetuto più volte: quello del Premier con il capitano Antonis Plytzanopoulos. La frase ricorrente era “quello fu considerato un criminale per aver buttato a mare 11 persone, allora questo che butta a mare 11 milioni di persone, che cos’è?”

Pur di colpire Tsipras si arrivò a riabilitare un criminale come Plytzanopoulos che, peraltro, oltre a essere inizialmente condannato a una pena ridicola (10 anni e 10 mesi per una strage), non la scontò neppure per intero, venendo poi addirittura assolto in Appello. E, 32 anni dopo i fatti, la vicenda sarebbe del tutto dimenticata se non fosse per questo paragone con Tsipras: setacciando il web, oltre che in poche pagine greche, se ne parla solo in due vecchi articoli italiani (di “Repubblica”, maggio 1984), e in rare note in altre lingue e in qualche articolo in Inglese, redatto al tempo dei fatti e miracolosamente sopravvissuto all’oblio. Il libro “Un delitto al giorno” di Alessandro Riva e Lorenzo Viganò (Baldini & Castoldi, 1994) dedica un capitolo a questo episodio, ma ormai è fuori commercio. Pur impegnandosi, non si riesce a reperire sul web nessuna immagine del capitano Plytzanopoulos e una soltanto della sua nave, il mercantile Garifallia.

Veniamo adesso ai fatti. Cosa avvenne, il 17 marzo 1984?

La Garifallia, 14.300 tonnellate di stazza, appartenente alla compagnia Europe Gate Shipping, era adibita al trasporto merci e in quel periodo faceva servizio nell’Oceano Indiano. Il comandante Plytzanopoulos e il suo equipaggio composto da 25 uomini, soprattutto greci e pakistani ma anche kenioti. Il 16 marzo 1984 partì da Mombasa in Kenya con destinazione Karachi, in Pakistan. Insieme al carico, all’insaputa dell’equipaggio, vennero imbarcati 11 clandestini, 11 ragazzi kenioti dai 14 ai 25 anni.

Il Kenya in quel periodo stava affrontando una fase incerta. Erano i tempi del monopartitismo di Daniel arap Moi, che perseguitava con ogni mezzo e senza alcuno scrupolo tutti i suoi oppositori, reali o semplicemente possibili. Il 10 febbraio di quell’anno, a Wagalla, nel Nord del Paese, alcuni reparti dell’esercito attaccarono degli insediamenti della minoranza etnica somala, con la scusa di disarmare dei gruppi terroristici locali, e sequestrarono circa 5.000 persone, trucidate dopo 5 giorni di torture. La verità su questo episodio, continuamente negato, emergerà solo nel 2008, ma resta il fatto che in Kenya non si viveva per niente bene e che, ai giovani che decidevano di andarsene, le ragioni non mancavano di certo.

Gli 11 ragazzi si erano nascosti nella stiva ma, poche ore dopo la partenza, furono scoperti dall’equipaggio. Per farli uscire da lì, su iniziativa del comandante, la stiva fu irrorata di topicida, una sostanza irritante e tossica. Il comandante Plytzanopoulos diede ordine di chiuderli nel ripostiglio per gli attrezzi a prora, grande 2 metri per 3. I marinai li spinsero dentro a suon di botte. La prassi e le leggi internazionali prevedono che i clandestini vengano sbarcati al primo porto in cui la nave avrebbe attraccato.

A questo punto, le versioni divergono.

Una sostiene che la prima notte di viaggio fu afosa, e al mattino la temperatura in quel budello divenne insopportabile. Gli 11 ragazzi, stremati dal calore, forzarono la porta e andarono in cucina in cerca d’acqua. Avvertito dal nostromo, Plytzanopoulos si infuriò andando a prendere il fucile. Spaventati, gli 11 si chiusero di nuovo nel ripostiglio.

Una seconda versione afferma che, nella prima mattina del 17 marzo, Plytzanopoulos tenne una sorta di consiglio con alcuni marinai, e decise di sbarazzarsi dei clandestini gettandoli in mare. La decisione lasciò sbigottiti tutti quelli che non la condivisero: altre volte l’equipaggio aveva trovato dei clandestini a bordo, sbarcandoli senza problemi o violenze al primo porto di attracco. Un marinaio keniota, che ha ascoltato le conversazioni, avverte gli 11, che si asserragliano nel ripostiglio di prora.

Una terza versione vede solo 9 kenioti chiusi nel ripostiglio, con 2 dei clandestini rimasti fuori. Plytzanopoulos, dopo averli bastonati, ordinò di mettere loro dei giubbotti di salvataggio e poi buttarli in mare. Prima di fare questo, però, il nostromo cancella il nome della nave dai giubbotti.

Un’ulteriore versione sostiene che i 2 ragazzi kenioti rimasti fuori furono picchiati fino a spezzare un braccio a uno di loro, e poi scagliati fuori bordo senza neanche i giubbotti di salvataggio.

Secondo le testimonianze, la Garifallia si trovava 8 miglia al largo di Mombasa, procedendo alla velocità di 12 nodi, quando i primi 2 clandestini furono gettati in mare. Alcuni marinai gettarono in mare anche alcuni barili di legno vuoti, cui i naufraghi si aggrapparono. Gli altri, però, erano ancora chiusi nel ripostiglio di prora. Poiché non cedettero nemmeno quando Plytzanopoulos esplose dei colpi in aria con il fucile, l’equipaggio fece nuovo uso del topicida, e a quel punto i ragazzi furono costretti ad uscire.

Per un numeroso gruppo di persone, sopraffare 2 uomini non è difficile. Avere ragione di 9 è altra cosa. I ragazzi kenioti opposero una disperata resistenza aggrappandosi dappertutto (uno anche alle gambe del comandante) e i marinai li riempirono di botte e bastonate, fino a farli sanguinare, prima di scagliarli in mare. La zona, notoriamente, è infestata dagli squali.

Una volta “bonificata” la nave, Plytzanopoulos riprese la rotta come se nulla fosse. Sbarcò il carico a Karachi e tornò in Grecia, due mesi dopo i fatti, fidando sull’omertà dell’equipaggio. Le cose andarono diversamente. Lo stesso giorno dello sbarco, l’11 maggio, il telegrafista Stavros Ciatis, il secondo ufficiale Charalambos Coutougeras e due marinai, si recarono immediatamente a denunciarlo all’Autorità Portuale del Pireo, che passò il caso al Tribunale di Atene.

Plytzanopoulos venne subito arrestato, insieme al nostromo Philippos Kakonas, al cuoco Stratos Zografakis e al marinaio Thanassis Karetsos. Altri 6 membri dell’equipaggio vennero imputati a piede libero. Il Ministro della Marina Mercantile Giorgos Katsifaras e i sindacati dei marittimi greci furono in prima fila tra quelli che chiesero giustizia per quello che apparve da subito come un crimine orrendo.

L’inchiesta del procuratore Antonis Roussos si consumò rapidamente, grazie alle deposizioni dei 4 testimoni. La Croce Rossa Internazionale riferirì che, a quanto risulta, nessuno degli 11 ragazzi kenioti si salvò. Al processo, Plytzanopoulos rischiò una condanna a 20 anni, ma i suoi avvocati si aggrapparono a ogni cavillo e, alla fine, il 12 settembre 1985, venne condannato a 10 anni e 10 mesi in Primo Grado. I suoi 9 complici se la cavano con pene dai 14 ai 44 mesi.

In Appello però, la situazione cambia. Dall’Africa, arrivano notizie contraddittorie, da cui risulterebbe che 6 degli 11 clandestini, in realtà, sarebbero riusciti ad arrivare vivi a terra, e successivamente condotti a Mombasa. Un articolo dell’UPI (United Press International) datato 25 maggio 1984, nel quale si citano fonti governative del Kenia per le quali quello della Garifallia sarebbe il quarto episodio del genere coinvolgente navi greche dal 1981, con almeno 13 morti accertati, fa anche il nome di un sopravvissuto, il 23enne Mohamed Salim, del quale è riportata una breve testimonianza.

In ogni caso, non si riesce a rintracciare nessun superstite per portarlo al processo. La Corte, il 20 marzo 1987, annullò la condanna precedente e si limitò a comminare a Plytzanopoulos una multa di 8.900 dollari, perché la morte dei clandestini non si può considerare provata al di là di ogni ragionevole dubbio. Sono ridotte anche le condanne di 5 suoi complici, mentre 4 completamente prosciolti dalle accuse.

Da quel momento questo caso scomparve definitivamente dalle cronache, e non si registrò nessun altro sviluppo. La memoria degli 11 ragazzi kenioti, uccisi mentre cercavano di fuggire alla guerra e alla tortura, è ormai quasi dimenticata.

Roberto Cocchis

Barese di nascita, napoletano di adozione, 54 anni tutti in giro per l'Italia inseguendo le occasioni di lavoro, oggi vivo in provincia di Caserta e insegno Scienze nei licei. Nel frattempo, ho avuto un figlio, raccolto una biblioteca di oltre 10.000 volumi e coltivato due passioni, per la musica e per la fotografia. Nei miei primi 40 anni ho letto molto e scritto poco, ma adesso sto scoprendo il gusto di scrivere. Fino ad oggi ho pubblicato un'antologia di racconti (“Il giardino sommerso”) e un romanzo (“A qualunque costo”), entrambi con Lettere Animate.