La Russia è per estensione il paese più grande al mondo, con una superficie di circa 17 milioni di km^2. Guardando la sua storia, però, è meglio parlare di Russie, con nomi e connotati diversi.

Il primo centro abitato importante in quello che è il territorio della Russia odierna era collocato in una pianura nel bacino del fiume Moscova, da cui prende il nome la città Mosca, popolato dai primi popoli slavi, che nel corso dei secoli subirono diverse invasioni dal Medio Oriente, dalle popolazioni germaniche e dalla Turchia. Un anno di svolta nel destino del territorio fu il 1239, quando i mongoli invasero e conquistarono la Rus’ Kieviana, di cui il territorio della Moscova faceva parte. Fu in questo periodo che i tatari, alleati dei mongoli, dominarono nel territorio dell’odierna Russia occidentale, razziando e radendo al suolo le città, fino a raggiungere la Crimea e l’estremità orientale dell’Europa. La dominazione però non significò solo morte e distruzione. La città di Novgorod, una delle più importanti della Rus’, non venne colpita dalla furia devastatrice degli invasori e anzi prosperò sempre più, conoscendo una vera e propria età dell’oro, mentre Mosca, fino ad allora piccolo centro abitato periferico, crebbe al punto di imporsi come centro nevralgico dell’organo statale, fino a diventare il Granducato di Mosca, a differenza di Kyiv che venne rasa al suolo.
Il fautore del Granducato fu Ivan Danilovič Kalità, passato alla storia come Ivan I, che lo rese grande grazie alla sua politica di avvicinamento dei nobili con l’attrattiva di protezione e onori per avere più entrate nelle casse statali. Dopo la morte di Ivan I ebbe inizio la cosiddetta età dei principi, governatori e reggenti del Granducato, che fecero espandere Mosca e il suo potere, fino a diventare il centro principale della politica e della religione dell’estremo Oriente europeo, soppiantando Kyiv e Novgorod. Furono anni turbolenti, in cui la guerra per cacciare via i tatari si alternava a tentativi di trattati e accordi di pace.

Di fondamentale importanza fu il principe Ivan III, la cui politica riuscì ad appianare i conflitti interni tra i grandi proprietari terrieri, i boiardi, radunandoli tutti nella capitale Mosca. In questo modo, fu più facile sconfiggere i tatari in campo militare, conquistando le città con dominazione tatara come Novgorod. Così facendo, Ivan III fu in grado di ridare all’est europeo una capitale religiosa dopo la caduta di Costantinopoli nel 1453, seguendo il principio di Mosca intesa come “terza Roma”. I tatari vennero cacciati definitivamente nel 1480, ponendo fine al loro giogo sulla Russia.

Con la morte di Ivan III finì l’era dei principi ed iniziò l’era degli zar. L’appellativo zar non venne scelto a caso: deriva dal latino Caesar, ovvero Cesare, ed era l’appellativo degli imperatori romani. Quindi, anche dal punto di vista politico, Mosca cercava di imporsi sempre più come “terza Roma”. Se già Ivan III era riuscito ad ampliare i confini del neonato stato russo, fu Ivan IV, passato alla storia come Groznyj, in russo “il temibile”, ma meglio conosciuto in occidente come il Terribile, che riuscì ad espandere i confini del regno quasi fino all’estensione odierna, conquistando la Siberia e raggiungendo l’Oceano Pacifico a est, e consolidando il proprio potere a sud, ai confini di Medio Oriente, India e Cina. Fu sempre Ivan IV a gettare le basi di quello che fu poi l’assolutismo russo.

Dopo la sua morte, ebbe inizio un periodo turbolento, conosciuto come periodo dei torbidi, a causa dei vari intrighi mossi all’interno del palazzo reale a danno degli zar e di Boris Godunov, tutore degli zar e figura centrale nell’immaginario russo. I torbidi in questione erano degli impostori inviati dal governo polacco che si spacciavano per i giovani zar morti poco tempo prima anche in circostanze sospette. Quando anche i polacchi vennero cacciati da Mosca, si ebbe la necessità di eleggere un nuovo zar e la scelta ricadde su Mikhail Fëdorovič Romanov, figlio del patriarca di Mosca, che diede inizio alla dinastia, appunto, dei Romanov.

I Romanov governarono la Russia per circa tre secoli, e alcuni di loro furono molto influenti anche nella storia europea. Primo fra tutti Pietro I, detto il Grande, che decise di far uscire il paese dall’estraniazione e dallo stato eremitico in cui lo avevano posto i suoi predecessori. Passò diversi anni in Europa, dove, sotto mentite spoglie, studiò all’università e lavorò nei cantieri navali, acquisendo così conoscenze che riuscì poi a sfruttare nel suo paese. Nel 1703, lo stato russo non aveva ancora nessuno sbocco sul mare del Nord, ma Pietro fece gettare lo stesso le fondamenta per una fortezza intitolata ai santi Pietro e Paolo. Lo stato russo era in guerra con la Svezia e la Polonia, e dopo accordi inattesi e battaglie estenuanti riuscì a impossessarsi della Finlandia a scapito della Svezia, ottenendo così il tanto agognato sbocco su un mare europeo. Nel 1721 cominciò i lavori per la costruzione di una nuova capitale sulla foce della Neva, proprio accanto alla fortezza dei santi Pietro e Paolo. Nacque così San Pietroburgo, che spodestò Mosca come centro politico e culturale e, come disse Puškin diversi anni dopo, aprì “una finestra sull’Europa”. Con la fondazione di una nuova capitale, venne proclamato ufficialmente l’Impero Russo, poi riconosciuto come stato sovrano dai paesi europei. Pietro attuò una politica di modernizzazione ed europeizzazione, la cui azione più importante fu sicuramente quella di abolire ufficialmente la schiavitù nelle campagne e trasformare i contadini in servitù della gleba, soggetta a tassazione. Purtroppo, però, nella realtà non ci furono grandi cambiamenti. La servitù della gleba venne poi abolita nel 1861 dallo zar Alessandro II.

Dopo Pietro il Grande, un’altra sovrana degna di nota fu Caterina II, famosa per il suo carattere deciso e la sua politica illuminata, anche se assolutista e autocratica. Ma lo zar più famoso fu sicuramente Nicola II, ultimo zar, per la triste fine che dovette affrontare con la sua famiglia.

Salito al potere molto giovane, si rivelò subito poco capace di gestire il paese in un momento di radicale cambiamento. Grazie all’apertura verso l’Europa, la rivoluzione industriale arrivò anche nell’Impero Russo, e insieme alle industrie arrivarono anche i sindacati, i quali, raccogliendo le idee rivoluzionarie del passato, irrealizzabili precedentemente a causa dell’ignoranza del popolo, cominciarono a protestare per i diritti dei lavoratori e l’abolizione della monarchia autocratica in favore della repubblica. Un primo tentativo di rivoluzione si ebbe nel gennaio del 1905, quando un corteo di lavoratori si diresse verso il Palazzo di Inverno, ma le guardie imperiali si accanirono contro i manifestanti, sparando e colpendo i malcapitati, e quell’episodio passò alla storia come “Domenica di sangue”, nonché come primo tentativo di rivoluzione del XX secolo. Nicola cercò di andare incontro alle richieste del popolo, istituendo la Duma, ovvero il parlamento, e, allo scoppio della Prima guerra mondiale, cambiò il nome della capitale da Pietroburgo a Pietrogrado, puntando molto sullo spirito nazionalistico del popolo. I due suffissi burgo e grado significano entrambi città, ma, mentre grado è una parola di origine slava, ancora presente nel lessico russo, burgo è invece una parola di origine germanica. Il desiderio dello zar era dunque quello di allontanarsi, anche linguisticamente, dai grandi imperi europei che formavano la Triplice Intesa, alla quale aveva dichiarato guerra. Purtroppo, però, i tentativi di Nicola venivano continuamente offuscati dalla vicinanza con il monaco Grigorij Rasputin, santone che aveva convinto la zariza Alessandra, moglie di Nicola, di poter aiutare il piccolo zarevič Alessio a guarire dall’emofilia.

I risultati disastrosi della guerra fecero precipitare la situazione in Russia, fino allo scoppio della rivoluzione di febbraio del 1917, che costrinse Nicola II ad abdicare in favore del fratello, il granduca Mikhail, che però rifiutò. Prese dunque il potere un governo formato da cadetti, menscevichi e socialisti rivoluzionari, molto più moderati rispetto ai bolscevichi e propensi a un cambiamento progressivo.
Sentiamo parlare spesso di bolscevichi, e nell’immaginario europeo il termine indica comunemente i cittadini sovietici. Ma cosa significa in realtà? La Duma, come ogni parlamento democratico, era diviso in due fazioni, una maggioritaria e una minoritaria. Il termine bolscevico deriva dal russo bol’še, letteralmente più, mentre menscevico deriva da men’še, letteralmente meno; dunque, i bolscevichi altro non erano che la maggioranza più estremista della fazione rivoluzionaria della Duma, mentre i menscevichi rappresentavano la minoranza moderata.
La caduta dello zar fu l’evento atteso da un leader bolscevico costretto all’esilio all’estero, Vladimir Il’ič Ul’janov, meglio conosciuto come Lenin.

Un ruolo importante lo ricoprirono anche i ricostituiti soviet, ovvero i consigli operai e contadini. Il governo provvisorio formatosi a febbraio ebbe vita breve: venne sostituito da un nuovo governo poche settimane dopo, che però si attirò le ire popolari, in quanto non ritirò le truppe dal fronte, come richiesto a gran furor di popolo, anzi confermò convintamente la partecipazione alla guerra. Lenin, dopo un breve esilio a Helsinki, tornò in patria, pronto per una nuova rivoluzione: quella di febbraio era stata una rivoluzione popolare, era arrivato il momento di avere una rivoluzione proletaria bolscevica. Grazie al coinvolgimento dei soviet, a ottobre i bolscevichi guidati da Lenin riuscirono a occupare i centri nevralgici della capitale senza incontrare resistenza, e i poteri vennero trasferiti ai soviet. Nonostante Francia e Regno Unito spingessero affinché la Russia non li abbandonasse sul campo, la neonata Federazione Russa firmò in segreto la pace di Brest-Litovsk con la Germania, che si impossessò così di Finlandia, Ucraina, Polonia e paesi baltici. Questo nuovo assetto politico durò molto poco, perché i patti firmati a Versailles subito dopo la fine della Prima guerra mondiale restituirono i territori alla Russia. In questo turbine di trattati, ri-disegnamento dei confini e nuovi assetti politici, la famiglia reale dei Romanov visse giorni frenetici, pieni di paura, fino a quando non arrivò l’ordine di sterminarli, eseguito il 17 luglio 1918 tramite fucilazione in uno scantinato mentre le truppe bolsceviche si spingevano nelle regioni più interne dello stato.
Lenin riuscì a prendere il potere nel 1918 grazie all’appoggio dei soviet e dei bolscevichi, ma non tenne conto del fatto che il movimento rivoluzionario aveva trovato terreno fertile solo in alcune grandi città della Russia occidentale. In molti piccoli centri e nelle città al di là degli Urali, forse anche per una mancanza di collegamenti, l’appoggio agli zar era solido, nonostante l’annunciata abdicazione. Inoltre, l’intenzione dei bolscevichi era, dopo aver instaurato un governo proletario basato sugli ideali di Marx ed Engels in Russia, di esportare la rivoluzione, affinché le monarchie venissero spodestate e si instaurasse in tutto il mondo la “dittatura” proletaria. I paesi usciti vittoriosi dalla guerra erano spaventati dal pericolo rosso, soprattutto la Gran Bretagna, la cui famiglia reale era imparentata con lo zar e, traumatizzati dal destino che toccò ai parenti russi, ratificò subito una legge che restringeva all’interno dell’appellativo di famiglia reale solo i discendenti diretti. Fu così che Francia, Gran Bretagna, Stati Uniti e, solo in piccola parte, l’Italia mandarono dei rinforzi che appoggiassero l’Armata Bianca, ovvero i fedeli allo zar, contrapposta all’Armata Rossa, cioè i bolscevichi. A complicare ulteriormente le cose, esattamente come successe all’interno dell’Impero austro-ungarico prima dello scoppio della guerra, furono i crescenti sentimenti nazionalisti delle minoranze. Cominciò così una sanguinosissima guerra civile, che stremò ulteriormente il paese anche per il sopraggiungere delle carestie, e che si risolse con la nascita della CCCP, ovvero l’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche.
Com’è facile immaginare, dopo una guerra mondiale e una civile, l’economia del paese era al collasso. Lenin, a capo del partito, decise di istituire la Nuova Politica Economica (NEP), il cui scopo era quello di rinforzare il settore più importante e più diffuso, cioè l’agricoltura, con il settore che aveva ricevuto i maggiori finanziamenti negli ultimi anni, cioè quello bellico. Il piano di Lenin era semplice: creare un’alleanza tra i due settori, sfruttando la già avviata produzione dei mezzi pesanti per migliorare il lavoro nei campi, e con i ricavati modernizzare la produzione per esportare all’estero. Purtroppo, non tutto andò secondo i piani: i contadini, traumatizzati dalle vessazioni subite nel corso dei secoli, trattenevano per sé i guadagni, senza rimetterli in circolazione e fermando di conseguenza il progresso delle fabbriche.
Il 1924 fu un anno importante per il nuovo stato: a gennaio morì Lenin, considerato il padre fondatore, che lasciò un buco di potere perché non era stato deciso come nominare il successore. A coprire il vuoto si ersero due figure sopra tutti: Trockij e Stalin. Trockij era convinto che la missione dell’Unione Sovietica fosse quello di esportare la rivoluzione nel mondo, portando al potere i proletari; Stalin era invece convinto che l’URSS avrebbe dovuto ergersi come faro della rivoluzione in un mondo capitalista e corrotto. Stalin all’epoca era considerato il braccio destro di Lenin, ma, come si scoprì solo molto dopo, Lenin diffidava di Stalin, considerandolo non adatto come suo successore, preferendo di gran lunga proprio Trockij. Come ben sappiamo, però, gli eventi non combaciarono con le volontà di Lenin.

Stalin riuscì a prendere il potere, soppiantò la NEP e propose i cosiddetti piani quinquennali: poneva degli obiettivi semplici, ma realizzabili, appunto, in cinque anni. Una delle decisioni che ebbe un grosso impatto sul paese fu sicuramente la collettivizzazione delle fattorie: i contadini non potevano possedere appezzamenti di terra privati perché la proprietà privata venne bandita dall’URSS, dovevano crearsi delle cooperazioni contadine che sfruttavano il terreno per conto dello stato. Queste nuove realtà agricole presero il nome di kolchoz. Grazie al surplus di beni agricoli acquisiti dallo stato, il governo aveva la possibilità di esportare, soprattutto il grano, all’estero; questa vendita significava entrate in valuta estera, che consentivano l’acquisto di tecnologia straniera per il progresso delle fabbriche. Nel frattempo, i kolchozy non servivano solo per la produzione e la conseguente esportazione, ma vennero usati come scusa per il popolamento della Siberia, la regione meno densamente popolata, ma la più ricca di risorse naturali. Grazie a questi nuovi giacimenti da sfruttare, le industrie riuscirono ad aumentare esponenzialmente la produzione, non solo per l’agricoltura, ma anche per la vita quotidiana: rispetto agli altri paesi industrializzati, che vennero colpiti duramente dalla crisi finanziaria del 1929, era economicamente più facile poter acquistare un’automobile. Grazie anche alla richiesta di forza lavoro continua, la disoccupazione raggiunse i minimi storici, sfiorando lo 0%. I risultati dei piani quinquennali superarono le più rosee aspettative, colmando così la distanza tecnologica sovietica con il resto del mondo industrializzato. Ciò che sconvolge è però il modo in cui vennero raggiunti: Stalin attuò una politica autarchica identica, se non addirittura peggiore, a quella zarista; venne applicata una censura feroce, sia contro le alte sfere del Partito sia contro i lavoratori, ci furono deportazioni in massa verso i gulag e migliaia di condanne a morte; i lavoratori erano sottoposti a turni di lavoro massacranti, seguendo la filosofia dello stacanovismo. Gli anni Trenta in Unione Sovietica passarono alla storia come il periodo delle purghe staliniane e del terrore. Intanto, l’Europa cadeva nel vortice dei totalitarismi, con a capo la Germania nazista di Hitler. Memori degli accordi di pace stipulati alla fine della Prima guerra mondiale, e spaventati dalla potenza militare dell’avversario, i due ministri degli esteri, Ribbentrop per la Germania e Molotov per l’Unione Sovietica, si incontrarono per firmare un patto di non aggressione, conosciuto appunto come patto Molotov-Ribbentrop, in cui però si spartivano segretamente i territori dell’Europa orientale. Hitler si assicurava così di non avere nessuno sul fronte orientale nel caso Francia e Gran Bretagna si schierassero a favore della Polonia, e Stalin aveva la possibilità di consolidare la sua presenza in Europa. Il 1° settembre 1939 la Germania invase la Polonia, e il resto è la storia che conosciamo tutti. Temendo che Stalin non rispettasse il patto, Hitler decise di invadere l’Unione Sovietica. Nel giugno 1941 ebbe inizio l’Operazione Barbarossa. Stalin constatò tristemente la superiorità dell’esercito tedesco, che avanzava senza incontrare grosse resistenze, e sterminando la popolazione, che all’inizio accoglieva i soldati della Wehrmacht come liberatori dal regime staliniano. Gli invasori arrivarono alle porte di Mosca a dicembre, ma dovettero fermarsi a causa del sopraggiungere del rigido freddo russo. Ciò permise all’esercito sovietico di poter riorganizzare la resistenza e infliggere una sonora sconfitta a Stalingrado agli invasori. Per evitare di essere attaccati da est, l’URSS firmo un accordo di pace anche con il Giappone della durata di cinque anni, che non rispettò dichiarando guerra l’8 agosto 1945. Intanto Stalin si riuniva con Churchill e Roosevelt per pianificare l’invasione dell’Europa a scapito del Reich. Una volta finita la guerra, l’Europa era da ricostruire interamente e il centro del potere si spostò su due nuove potenze extraeuropee: gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica.
Gli Stati Uniti, guidati da Truman, non si fidavano del governo sovietico, soprattutto per i trascorsi di patti segreti della Prima guerra mondiale e del non rispetto dei patti di non aggressione della Seconda. Cominciò così la rivalità tra i due paesi, cercando di influenzare con la propria politica quanti più paesi era possibile, mentre la tensione cresceva sempre più nella spartizione dell’Europa e, successivamente, in Sud America. Cominciò così il periodo passato alla storia con il nome di guerra fredda.
Stalin, per affrontare al meglio questo nuovo nemico, voleva il meglio attorno a sé, e per liberarsi degli elementi scomodi era pronto a un nuovo periodo di purghe e deportazioni nei gulag, il metodo più veloce e radicale. Nel 1953, però, Stalin fu colpito da un malore, che mandò all’aria tutti i suoi piani e lo portò alla morte. Messi in allerta da quell’improvviso malore, i personaggi più vicini al dittatore organizzarono il futuro del partito prima ancora della dipartita di Stalin. Per evitare nuovamente lotte intestine e assassini politici, la soluzione migliore fu quella di mettere alla reggenza un triumvirato, formato da Malenkov, Berija e Molotov. Questo nuovo governo ebbe la premura di annullare le ultime riforme volute da Stalin, cercò di migliorare le condizioni economiche dei contadini, e firmò l’amnistia per i prigionieri non politici dei gulag. Quest’ultima decisione creò non pochi problemi di bande criminali organizzate nelle città. Si ebbe anche una prima distensione sia in Europa, grazie all’appoggio di Tito in Jugoslavia, sia nel Pacifico, con la fine della guerra di Corea. Purtroppo, anche questo governo era destinato a durare poco. Nell’ombra, infatti, c’era un altro membro molto importante del partito, Nikita Sergeevič Chruščëv, che silenziosamente riuscì a portare dalla sua parte l’élite del partito e le forze militari.

Accusò Berija di azioni criminali, facendolo arrestare dal maresciallo Žukov e poi, dopo il processo, condannato a morte. Da quest’episodio, Chruščëv ne approfittò per liberarsi degli elementi scomodi del partito, e trasformò il Ministero della Sicurezza, che aveva a capo proprio Berija, nel Comitato presso il Consiglio dei ministri (KGB, Komitet Gosudorstvennoj Bezaposnosti). Chruščëv rivelò al mondo la vera natura di Stalin, ovvero quella di un dittatore dispotico e sanguinario. Diede inizio al processo di destalinizzazione, cercando di porre rimedio sia nella politica interna sia nella politica estera. Sotto la sua guida, il paese raggiunse una notevole modernità tecnologica, come dimostrarono le varie missioni spaziali (basti ricordare che furono le prime con esseri viventi, come la tristemente famosa cagnetta Lajka, ed esseri umani, come Jurij Gagarin e Valentina Terëškova), e anche una tecnica invidiabile dal punto di vista sportivo e atletico (un esempio è il circo russo). Il suo modo di fare, però, non fu ben visto dagli oppositori politici, che lo consideravano rozzo e bifolco, e non lo aiutò nemmeno la pessima gestione dei missili a Cuba, che significò la fine del mandato prima del tempo, più esattamente nel 1964. Al suo posto prese il potere Brežnev.

Per il resto degli anni ’60, l’URSS conservò il suo secondo posto come potenza economica e industriale. Inoltre, senza nemmeno aver mostrato la propria potenza in uno scontro diretto sul campo, si apprestava a surclassare gli Stati Uniti, in piena recessione economica, e alle prese con il fallimento della guerra in Vietnam. Questo conflitto, oltre a essere un fardello economico per lo stato e fonte di sconforto per le famiglie dei caduti in guerra, portò a rivolte popolari che rivendicavano la non appartenenza al conflitto a una sonora sconfitta sia militare sia ideologica, perché il Vietnam divenne un paese comunista.
Brežnev si trovò quindi in un paese ben avviato nell’economia e nella modernità industriale, conseguenza dei piani quinquennali staliniani. Grazie alle risorse naturali ancora vergini della Siberia, l’Unione Sovietica divenne la prima esportatrice al mondo di petrolio e gas. Proprio per questo primato sul greggio, l’URSS non soffrì della crisi petrolifera del 1973, che colpì duramente l’Occidente, causata dalla decisione dell’OPEC di ridurre la produzione di petrolio. Ciò permise al blocco occidentale di rinnovare la propria tecnologia per essere più indipendenti dai paesi esportatori di greggio, mentre l’Unione Sovietica rimase fedele all’industria di epoca staliniana. Inoltre, durante la reggenza di Chruščëv, le condizioni di vita erano migliorate notevolmente, con stipendi alti e prezzi dei consumi molto bassi, sottostimando i beni sugli scaffali, e aiutate dalla costruzione di nuove case, che metteva fine all’antipatica condivisione degli appartamenti tipica del periodo staliniano. Quando però l’Occidente, e in particolare gli Stati Uniti, dimostrò di essere in possesso di una nuova tecnologia industriale che si rivelava essere più efficace della precedente, quella che sarebbe diventata in seguito l’informatica, l’Unione Sovietica si trovò improvvisamente indietro. Come se non bastasse, le industrie sovietiche non avevano interesse a modernizzarsi: i dirigenti avevano molti benefici nel caso avessero raggiunto l’obiettivo preposto, come dacie, accesso a cliniche private e incentivi finanziari, ma, se l’obiettivo veniva superato di molto, non c’erano benefici, ma solo un obiettivo maggiore per l’anno successivo. I dirigenti volevano di conseguenza obiettivi facilmente raggiungibili. Non c’erano nemmeno gli incentivi a modernizzare le industrie, e di conseguenza chi di dovere non aveva interesse a deviare dalla produzione predisposta dallo stato. Come se ciò non bastasse, l’URSS aveva un’economia molto meno solida rispetto a quella degli Stati Uniti, e spendeva più di quanto potesse permettersi per l’industria bellica, e questo gravava sui contribuenti; questo investimento nelle armi si ritorceva contro i contribuenti, in quanto erano le stesse armi utilizzate per sedare le rivolte non solo nelle repubbliche dell’Unione, ma anche nei paesi satelliti. Questa non evolversi del mercato e dell’economia prese il nome di stagnazione. Brežnev rimase al potere fino al 1982, anno della sua morte, e sostituito da Andropov, che più dei suoi predecessori capì quali erano i problemi dell’economia sovietica, e cercò di porvi rimedio. Uno dei problemi principali era l’impostazione dell’industria sovietica: ogni repubblica era specializzata in alcuni pezzi che poi venivano assemblati e venduti all’interno dell’Unione. Ciò significava che per la produzione di un solo oggetto venivano sfruttate più industrie, e nessuna si specializzava in quell’oggetto nella sua interezza, occupando forza lavoro. Anche a causa del clima rigido del territorio, le materie prime andavano importate dall’estero, e per comprarle si doveva usare la valuta estera perché il rublo non era sufficientemente forte, quindi venivano comprate a un prezzo più caro; di contro, l’Unione non esportava quasi nulla. Andropov capì che era importante la liquidità, presente negli Stati Uniti grazie alla forza del dollaro e agli introiti da altri stati che ne sorreggevano l’economia, e totalmente assente in Unione Sovietica, che invece si faceva carico dei paesi comunisti fuori dai suoi confini. Cominciarono a mancare cibo, farmaci e beni di prima necessità. La gente era solita girare con la rete per la spesa nella tasca del cappotto in modo da poter mettersi subito in fila fuori dai negozi quando un nuovo prodotto riforniva i magazzini. Andropov durò solo un paio di anni, prima di essere sostituito da Černenko per un brevissimo periodo, e infine cominciò il governo dell’ultimo segretario del partito comunista, Mikhajl Sergeevič Gorbačëv.

Gorbačëv rappresentò il cambio generazionale alla guida del partito, e all’inizio fu un faro di speranza sia per il Paese sia per la comunità internazionale. La sua politica si fondava su tre principi: perestrojka (ricostruzione), glasnost’ (trasparenza) e uskorenie (velocità). Purtroppo, il leader venne messo alla prova proprio con la trasparenza un anno dopo l’ascesa al potere, con l’incidente nucleare di Černobyl nel 1986, tenendo all’oscuro l’intero paese, e di conseguenza il resto del mondo, della portata di suddetto incidente per circa un mese. Per la prima volta nella storia sovietica, la censura venne allentata e le notizie dovevano essere trasparenti: ciò significò che si poteva criticare apertamente il partito e il suo operato per la prima volta dai tempi della Rivoluzione del 1917. Vennero richiamati in patria anche i dissidenti politici in esilio.
Oltre alle critiche degli oppositori politici, si riaccesero anche i nazionalismi nelle repubbliche sovietiche, in particolar modo quelle baltiche, che vennero annesse con la forza da Stalin. Come un effetto domino, anche le altre repubbliche sovietiche in territorio europeo protestarono per una maggiore indipendenza, perché cominciavano ad allontanarsi sempre di più da Mosca per entrare nell’orbita occidentale, aprendosi sempre più al capitalismo e agli scambi commerciali. Una delle politiche di Gorbačëv fu inoltre quella di aprire al libero mercato, ovvero erano i negozianti e i produttori a stabilire i prezzi, che schizzarono immediatamente alle stelle per i beni di prima necessità per poter sostenere i costi di produzione e importazione.
Gorbačëv organizzò le prime elezioni libere nella storia russa. La sua intenzione era infatti quella di trasformare l’Unione Sovietica in una Federazione, con a capo per ogni repubblica una persona eletta dal popolo, ma che faceva capo comunque al presidente dell’Unione Sovietica e che ci fosse un esercito comunitario, e decise di proporlo in un referendum. Le repubbliche baltiche si astennero, mentre le altre votanti erano favorevoli a un’Unione Sovietica riformata. Alle prime elezioni libere nella storia russa, Gorbačëv aveva puntato tutto sul suo candidato, che perse clamorosamente contro Boris El’cin, accanito oppositore del segretario del partito. Questo evento, insieme alla caduta del Muro di Berlino, simbolo della cortina di ferro, e alla ritrovata indipendenza di molte repubbliche sovietiche, portò all’implosione dell’Unione Sovietica.

Le elezioni però non furono l’unico motivo della caduta dell’URSS. Quando Gorbačëv venne eletto segretario del partito, a differenza dei suoi predecessori non volle la carica di presidente dell’Unione Sovietica, che affidò a una persona vicina a lui, e poi fu coperta da El’cin dopo le elezioni. Sia le elezioni sia il referendum non vennero ben visti dalla gerontocrazia superstite del partito, che aveva combattuto durante la rivoluzione e aveva cacciato via i tedeschi durante la guerra, e vedeva nelle elezioni libere e nel referendum troppa libertà decisionale in mano al popolo.
Prima della firma della riforma votata al referendum, prevista per il 20 agosto 1991, Gorbačëv decise di andare in vacanza per qualche giorno nella sua dača insieme alla famiglia, nonostante giornalisti e persone a lui vicine lo mettessero in guardia per un probabile colpo di stato. Il 18 agosto, su indicazione di un gruppo ristretto di golpisti presente al Cremlino, tra cui spiccavano il vice di Gorbačëv, Janaev, il capo del KGB, Krjučkov, e alcuni ministri del governo, un gruppo armato di presentò nella dača del segretario, tagliando le linee telefoniche e i cavi televisivi, intimandogli di passare i poteri a Janaev oppure di dichiarare lo stato di emergenza per poter riportare all’ordine il paese. Gorbačëv si rifiutò. Venne così confinato nella sua dača, mentre i rivoltosi erano in contatto con Mosca. Nella notte, la TASS, l’agenzia di stampa ufficiale, fece uscire la notizia che Gorbačëv fosse impossibilitato a svolgere le funzioni di segretario del partito, e Janaev ne prendeva il posto. La notizia diede un brusco risveglio all’Europa e agli Stati Uniti, che seguirono la vicenda con smaniosa attenzione. La notizia venne poi riportata in radio con il primo radiogiornale del mattino. Il primo canale televisivo evitò l’argomento e per tre giorni trasmise in loop una replica de Il lago dei cigni di Čajkovskij. Attraverso vari comunicati, si annunciò alla nazione il fallimento della politica di ricostruzione di Gorbačëv, e che il nuovo governo guidato da Janaev era pronto a prendere in mano la situazione per riportare il paese sotto controllo, sedando i movimenti indipendentisti. Si ricorse nuovamente alla censura feroce, proibendo scioperi e manifestazioni, e impedendo alle testate giornalistiche di diffondere informazioni. L’unica stazione radiofonica che riprese le trasmissioni fu l’Echo di Mosca, grazie alla quale la BBC World Service e Voice of America tennero aggiornato il mondo. Proprio grazie alla BBC, anche Gorbačëv riuscì a seguire l’evolversi degli eventi attraverso una piccola radio transistor che sopravvisse alla purga mediatica dei rivoltosi in casa sua. Venne anche stilata una lista di ricercati dal KGB, nella quale spiccava il nome di Boris El’cin, mentre alcuni deputati del Congresso vennero arrestati. La mattina del 19 agosto, i moscoviti si svegliarono in un clima di guerra: migliaia di soldati armati, mezzi corazzati e carri armati ad ogni angolo della città. Lo stesso clima di guerra si respirò a Leningrado e nelle capitali delle repubbliche baltiche, ree di aver chiesto l’indipendenza. Nel frattempo, El’cin era appena rientrato dalla Repubblica Kazaka, e il piano originale prevedeva il suo arresto, mentre in realtà i golpisti si limitarono ad accerchiare la sua dača. Subito dopo l’annuncio del colpo di stato, El’cin ricevette diversi esponenti politici e militari per decidere il da farsi. L’idea iniziale era quella di formare un governo di opposizione con base la dača di El’cin vicino Leningrado, ma poi si scelse di spostarsi alla Casa Bianca, sede del Parlamento, per rimanere in contatto con il governo instaurato a Mosca. Intanto, le strade si riempirono di manifestanti contro il golpe. El’cin, una volta raggiunta la Casa Bianca, sfidò apertamente il governo golpista. Gli eventi si succedettero freneticamente: El’cin e la sua squadra scrissero un discorso al popolo russo, che venne diffuso dai media; venne richiesto al patriarca di Mosca l’appoggio al presidente El’cin; venne richiesto anche un esame medico sulla salute di Gorbačëv eseguito dall’Organizzazione Mondiale della Sanità; l’esercito si schierò con i manifestanti contro il golpe. In questa occasione, El’cin salì su un carro armato e pronunciò il famoso discorso:
“Cittadini della Russia. Nella notte tra il 18 e il 19 agosto 1991, il presidente legalmente eletto del Paese è stato rimosso dal potere. Qualunque siano le ragioni di questa rimozione, abbiamo a che fare con un colpo di Stato, incostituzionale, della destra reazionaria.”
Si assegnò anche il comando delle forze militari su territorio russo. L’Unione Sovietica, e le singole oblasti, si spaccarono tra chi appoggiava El’cin e chi appoggiava il golpe. Nel pomeriggio, forse rendendosi conto che le cose stavano sfuggendo di mano, Janaev telefonò a Gorbačëv sperando di poter lavorare nuovamente insieme, ma tradì un certo nervosismo davanti ai giornalisti. Gorbačëv, che rifiutò la proposta di Janaev, riuscì a seguire tutto dalla propria dača, perché nel frattempo il suo servizio di sicurezza montò un’antenna televisiva provvisoria. Riponeva le sue speranze in El’cin per sedare il golpe e, per smentire le bufale sulla sua malattia, faceva lunghe passeggiate e non accettava cibo da nessuno per paura di essere avvelenato.
Nella notte tra il 19 e il 20 agosto, Gorbačëv registrò un messaggio in cui condannava il golpe, ma venne reso noto solo tempo dopo. La mattina del 20, venne richiesto che la valigetta con i piani nucleari rientrasse a Mosca, cosa che avvenne celermente il giorno stesso. Gorbačëv non volle però ammettere di aver perso il controllo sulle armi nucleari. Molte alte sfere dell’esercito, appoggiate dai sindacati e dai minatori, si schierarono contro il golpe, chiedendo che fosse Gorbačëv a parlare al popolo. Tra Janaev e El’cin cominciò una battaglia a suon di decreti, che quasi sfociò nella guerra civile tra le due fazioni. Vennero sospese anche le trasmissioni dell’Echo di Mosca, mentre la TASS annunciava l’adozione di misure drastiche nei confronti della criminalità e della mafia, il che significava che la polizia aveva il diritto di sparare ai teppisti, inclusi i manifestanti pro-democrazia. Quella sera, l’Estonia dichiarò l’indipendenza dopo cinquantun anni, mentre la Georgia chiedeva l’indipendenza di tutte le repubbliche sovietiche.
Nella notte tra il 20 e il 21 agosto, gli eventi precipitarono irreversibilmente. A Leningrado, attorno alla Casa Bianca, un movimento sospetto di un mezzo pesante fece pensare a un imminente assalto all’edificio. Per proteggersi, i manifestanti crearono una barricata con mezzi pubblici e macchine per la pulizia delle strade. Quando arrivò l’esercito, lo scontro fu inevitabile, e a farne le spese furono tre civili, Vladimir Usov, Il’ja Kričevskij e Dmitrij Komar, a cui venne assegnata postuma l’onorificenza di “Eroe dell’Unione Sovietica”. Le autorità militari, sconvolte da queste morti inaspettate, chiesero agli organizzatori del golpe l’autorizzazione per assaltare, ma nessuno volle prendersi questa responsabilità; così i generali annullarono l’operazione, facendo ritirare le truppe, e decretando di conseguenza il fallimento del golpe. Il ministro della difesa Jazov ordinò il ritiro delle truppe da Mosca, creando ancora più scompiglio, in quanto l’esercito si fratturò ideologicamente. Anche molti generali si rifiutarono di eseguire gli ordini. I sostenitori furono spiazzati dagli eventi, e disperati decisero di rivolgersi a Gorbačëv. Una delegazione venne mandata nella dača del segretario del Partito, che cacciò via tutti chiedendo i contatti col mondo esterno. Una volta tornati alla normalità, Gorbačëv dichiarò nulli i provvedimenti del governo golpista, nello stesso momento in cui Janaev si dimetteva e annullava tutte le sue decisioni. Gorbacev poté rientrare a Mosca, e il 24 agosto si dimise come segretario del Partito. Pochi giorni dopo, El’cin firmò la fine dell’esistenza del Partito Comunista, e i beni del partito passarono allo stato. Nei mesi successivi, le repubbliche proclamarono la loro indipendenza, e il 25 dicembre la bandiera comunista sparì dal pennone del Cremlino, per lasciare il posto al tricolore di epoca zarista, con il bianco (vera=fede), il blu (nadežda=speranza) e il rosso (ljubov’=amore).
Con la proclamazione della neonata Federazione Russa, El’cin rimase al governo, diventando il primo presidente del nuovo stato e si trovò ad affrontare diversi problemi. I primi furono di natura economica, a cui decise di porre rimedio attraverso la cosiddetta “terapia shock” di ispirazione polacca: si aprì al mercato estero, dando inizio alla privatizzazione e alla liberalizzazione dei prezzi. Si voleva mettere fine al monopolio di stato, lasciando spazio a nuovi imprenditori. La concorrenza del mercato estero mise in crisi il sistema monetario, facendo accrescere il debito pubblico e l’inflazione. La situazione peggiorò quando la Banca Russa decise di mettere in circolazione più cartamoneta per coprire il debito, ma accentuò soltanto l’inflazione. La gran parte della popolazione, che fino ad allora poteva vantare uno stile di vita rispettabile, si ritrovò alle soglie della povertà estrema.
Per quanto riguardava le industrie, la situazione non era migliore: erano molto arretrate tecnologicamente rispetto al resto del mondo, e la concorrenza estera le portò al fallimento, causando malessere economico nei territori circostanti, non potendo nemmeno più provvedere in prima persona al welfare dei propri lavoratori.
La Russia ebbe molte più difficoltà rispetto alle altre repubbliche ex-sovietiche e agli stati cuscinetto a causa delle sue vaste dimensioni territoriali, il suo ruolo centrale all’interno dell’URSS e l’alto tasso di alfabetizzazione, uno dei più alti in campo scientifico, della popolazione. La sfida maggiore che gli imprenditori dovettero affrontare fu quella di dover decidere i prezzi delle merci confrontandosi con il mercato estero, essendo abituati alle direttive del governo centrale che decideva i prezzi. Questa politica portò a una crisi economica e sociale nel 1993, con il numero di famiglie che vivevano sotto la soglia di povertà che galoppava mentre l’aspettativa di vita diminuiva. Si arrivò alla guerra civile per le strade e in parlamento. El’cin venne momentaneamente deposto, ma riuscì a tornare al potere pochi mesi dopo. La sua reazione fu feroce: venne creata una nuova costituzione che accentrava i poteri nella figura del presidente, riducendo la Duma a un mero organo rappresentativo richiesto dalla costituzione senza alcun potere reale.

L’altro grande problema che il governo del nuovo stato dovette affrontare fu etnico. La Russia, grazie ad anni di guerre e di conquiste territoriali, ha sempre avuto al suo interno diverse minoranze etniche. La minoranza cecena combatté sin dai tempi della Rus’ contro l’espansionismo russo, senza risultati. Con la caduta dell’Unione Sovietica nel 1991, molte oblasti composte da minoranze etniche riuscirono a ottenere l’indipendenza. Anche la Cecenia chiese di essere uno stato indipendente, purtroppo vanamente. Si passò così alle maniere forti: durante il Congresso Nazionale dal popolo ceceno venne ucciso il leader del partito comunista in Cecenia, considerato un fantoccio di Mosca e Dudaev, ex generale sovietico, prese il potere con grande sostegno popolare.
Nel 1993 venne dichiarata l’indipendenza della Repubblica Cecena. Fu la goccia che fece traboccare il vaso. Dalla Cecenia ci fu un esodo di persone di etnia a maggioranza russa ma anche di altre minoranze, accusando di essere oggetto di persecuzioni razziali. Dudaev, con un colpo di stato, prese il potere, mentre si formava un governo anti-golpista che richiedeva l’aiuto da Mosca. El’cin fece schierare le truppe al confine ceceno, spingendo Dudaev a dichiarare lo stato d’emergenza, mentre per le strade impazzava la guerra civile. Le truppe russe, con il sostegno degli anti-golpisti, entrarono in territorio ceceno e sferrarono diversi attacchi alla capitale Groznyj, con lo scopo di deporre Dudaev. Purtroppo, però, questi attacchi vennero pianificati male e, anzi, oltre la sconfitta l’esercito russo dovette ammettere che molti soldati e molti civili legati ai servizi segreti caddero prigionieri delle forze cecene. El’cin diede un ultimatum al governo golpista, che rifiutò. Le truppe russe invasero la Cecenia per ristabilire l’ordine costituzionale. La situazione precipitò. L’esercito russo era formato soprattutto da ragazzi coscritti, freschi del servizio di leva, e non da soldati con alle spalle un addestramento specializzato, e furono facili prede dei combattenti, anche civili, ceceni. Il culmine dei combattimenti si raggiunse con la battaglia di Groznyj, a cavallo tra il 1994 e il 1995, in cui a causa dei bombardamenti ci furono migliaia di morti, sia tra i ceceni sia tra i russi. Quest’episodio catturò l’attenzione e le critiche della comunità internazionale. La guerra si spostò così su un altro piano, diventando guerriglia. Le truppe russe si spostarono sulle montagne, depredando e distruggendo i villaggi, mentre le milizie cecene di dedicarono sempre più ad atti terroristici verso l’esercito avversario. Le immagini del conflitto fecero il giro del mondo e la popolarità internazionale di El’cin crollò, mentre in Russia crebbe la paura nei confronti delle altre minoranze etniche. Il conflitto non era circoscritto a russi e ceceni: alcune minoranze etniche si unirono ai ceceni, non solo per ideologia politica, ma anche per motivi religiosi, portando avanti l’idea della jihad; dall’altra parte invece, i cosacchi del Don e la Repubblica dell’Ingušetija, da sempre in contrasto con i ceceni, appoggiarono l’esercito russo. Con l’avvicinarsi delle elezioni presidenziali nel 1996, El’cin, con i consensi ai minimi storici, cercò un modo per far finire in fretta questa guerra così impopolare. Dudaev, il fautore del golpe, nel frattempo era caduto vittima di un attentato, ma ciò non fermò i ribelli separatisti. El’cin riuscì a vincere le elezioni e concordò un cessate il fuoco con il successore di Dudaev. Peccato che tutto rimase su carta mentre la guerra fuori continuava incessantemente. Nella capitale Groznyj, i russi erano in procinto di scatenare quello che sarebbe stato l’attacco più feroce verso i ceceni, se questi non vi avessero rinunciato a seguito della notizia che i generali dei due schieramenti erano finalmente giunti a un accordo.
Finì così la prima guerra cecena dando inizio a un, seppur breve, periodo di pace. El’cin era spaventato dal crescente consenso che il primo ministro Primakov riceveva, così lo fece sostituire da Stepašin, capo dei servizi segreti. El’cin non fu contento della sua scelta, e pochi mesi dopo sostituì Stepašin con Vladimir Vladimirovič Putin.

Il biennio 1998-1999 fu agitato sia politicamente sia civilmente. Nella neonata Repubblica Cecena si fece sempre più pressante la presenza di milizie appartenenti all’estremismo islamico. A partire dal 1996, cominciò un periodo di terrore per la popolazione russa. Le città al confine con la Cecenia furono oggetto di attacchi terroristici, che si propagarono come un’onda sonora fino a Mosca, cuore del potere centrale. Il culmine si raggiunse nel 1999, quando a Mosca venne fatta saltare in aria una palazzina residenziale abitata dalle famiglie di agenti di polizia, causando la morte di centinaia di persone. Il governo accusò i ribelli ceceni, ma già all’epoca si sollevarono dei dubbi nei riguardi dei servizi segreti russi, accusandoli di aver organizzato l’attentato per poter giustificare l’invasione della Cecenia pochi mesi dopo. I sospetti vennero confermati da un agente dei servizi segreti diversi anni dopo.
L’invasione della Cecenia cominciò con pesanti bombardamenti aerei che durarono per tutta l’estate del 1999. Quando Putin venne nominato primo ministro, l’attacco si spostò in campo politico, non riconoscendo la sovranità delle autorità cecene, e in campo terrestre, con i mezzi pesanti russi che entravano in territorio ceceno, fino a raggiungere la capitale Groznyj e bombardarla. L’invasione della Cecenia coincise con le dimissioni di El’cin come presidente e l’ascesa al potere di Putin, che godeva di largo consenso popolare, e la sua politica militare fu più drastica. Groznyj venne rasa al suolo dai continui bombardamenti, mentre i ceceni preferirono nuovamente l’approccio da guerriglia piuttosto che lo scontro diretto, puntando ai convogli che attraversavano le montagne e agli aerei russi. Quando l’esercito russo prese il controllo della gran parte del territorio, salì al potere un governatore filorusso, che altro non era se non un fantoccio di Putin, che in poco tempo proclamò la costituzione del Paese. Questo avvenimento venne accolto positivamente nella Federazione Russa, mentre incattivì ancora di più i separatisti ceceni, che continuarono con gli attacchi di guerriglia e affinarono la tecnica degli attacchi terroristici kamikaze in tutta la Russia, ispirati dagli appoggi ricevuti dalle milizie dell’estremismo islamico russo e arabo. La comunità internazionale, distratta da altri eventi come la guerra in Jugoslavia e in Kosovo e l’11 settembre, non condannò l’invasione della Cecenia, anzi, ritenne l’azione di Putin legittima. A partire dal febbraio 2005, i vari leader ceceni che si susseguirono, prima di venire assassinati, chiesero ripetutamente il cessate il fuoco, sperando così di raggiungere l’amnistia tanto agognata dal popolo ceceno. La guerra finì ufficialmente nell’aprile 2009, ma in realtà gli scontri militari andarono avanti ancora per alcuni mesi.
Questo secondo conflitto ceceno all’inizio venne ben accolto dalla popolazione russa, spaventata dal dilagante terrorismo ceceno, e Vladimir Vladimirovič Putin venne visto come il leader giusto per combattere il nemico. Man mano che il conflitto andava avanti, però, cresceva il malcontento popolare mentre la copertura mediatica in Cecenia veniva oscurata e censurata. La maggior parte della popolazione russa mal vedeva la mancanza di notizie dal fronte, specialmente chi aveva familiari tra i soldati, mentre nelle altre minoranze etniche rinacque il desiderio di autonomia e indipendenza.
Questo desiderio esplose in Ucraina, repubblica confinante e indipendente dalla Federazione Russa, quando il presidente Janukovič non accettò l’invito a entrare a far parte dell’Unione Europea, richiesta a gran voce dal popolo, anzi permise al presidente Putin di espandere la propria sfera di influenza fin dentro i confini ucraini. In tutto il paese ci furono proteste contro Janukovič, che fu costretto a dimettersi, e venne sostituito da un nazionalista ucraino. La cosa venne mal vista in Crimea, dove la maggioranza della popolazione è russa. Il governo locale indisse un referendum, il cui svolgimento e i conseguenti risultati non sono ben visti dall’Occidente, attraverso il quale si espresse il desiderio di essere annessi alla Federazione Russa, desiderio che Putin non esitò a realizzare. Da quel momento, ebbe inizio a una guerriglia al confine tra Crimea e Ucraina, fino a sfociare in una vera e propria guerra. Una pagina di storia che viene scritta sotto i nostri occhi.