La Storia dell’aborto: dall’antichità fino alla legge N°194

Il fatto che fino al 1978, poco più di quarant’anni fa – l’altro ieri, storicamente parlando –, l’aborto fosse considerato né più né meno un reato, può farci capire quanto l’argomento sia ancor oggi di stretta attualità e quanto possa essere oggetto di discussione come nei decenni o nei secoli scorsi.

L’articolo 545 e successivi del Codice Penale, precedenti alla famosa legge n. 194 del ’78, parlavano chiaro: “Chiunque cagiona l’aborto di una donna, senza il consenso di lei, è punito con la reclusione da sette a dodici anni”; “Chiunque cagiona l’aborto di una donna, col consenso di lei, è punito con la reclusione da due a cinque anni. La stessa pena si applica alla donna che ha consentito all’aborto”; “La donna che si procura l’aborto è punita con la reclusione da uno a quattro anni”.

Consenso o non consenso, condizioni che spesso erano difficili da provare

Ma facciamo un passo indietro perché la storia dell’aborto ha radici molto antiche.
Le interruzioni di gravidanza sono praticate da sempre, si perde nel tempo la pratica, e si utilizzavano utensili appuntiti e pressione addominale; come si può immaginare, con risultati a volte tragici.

La testimonianza artistica più antica di un aborto risale a dodici secoli prima di Cristo, ed è un bassorilievo in Cambogia che rappresenta l’aborto addominale praticato da un demone, mentre la più remota testimonianza scritta è riconducibile all’Antico Egitto, attorno al 1550 a.C., e precisamente alle pagine del Papiro Ebers. Il documento è oggi conservato nelle sale della biblioteca dell’Università di Lipsia, e contiene un intero capitolo dedicato all’aborto e numerose altre pagine che spaziano dalla cura dei tumori a quella delle ustioni, alla ginecologia e ai metodi contraccettivi.

Bassorilievo nel tempio di Angkor Wat in Cambogia, raffigurante un aborto datato intorno al 1150 a.C.

Fotografia di Malcolm Potts condivisa via Wikipedia con licenza CC BY-SA 3.0

Tra gli antichi greci e poi presso i romani l’aborto era una pratica comune e pienamente accettata, ma a un patto:

Che fosse il marito della gravida a darne il consenso

In questo contesto gli aborti venivano praticati attraverso l’assunzione di specifici farmaci, composti e massacranti massaggi ed esercizi che portavano inevitabilmente alla morte del feto.

Con la fine dell’età classica e il collasso dell’Impero romano d’occidente il tema dell’aborto ristagnò e compì man mano dei passi indietro, che portarono a un infruttuoso silenzio durato fino all’età moderna. In questo periodo, e precisamente sul finire del Cinquecento, al culmine del Rinascimento, la chiesa prese per la prima volta una posizione in merito attraverso papa Sisto V, che avallò il carattere omicida della pratica dell’aborto, proibendolo a tutti i cristiani. Una posizione che resterà immutata nei secoli a venire.

Ovviamente il divieto non era rispettato da tutti, anzi, e la pratica veniva svolta da medici improvvisati o in autonomia dalle donne, seguendo rituali poco sicuri, in casa o in luoghi segreti, e questo non faceva altro che aumentare il rischio di morte della donna, che spesso moriva insieme al feto.

Per lunghi periodi la tematica relativa all’aborto è rimasta in una fase di stallo inerte, e bisogna approdare al Novecento perché ci sia finalmente un dibattito sulle prime legalizzazioni avvenute tra gli anni venti e trenta in Unione Sovietica (primissima a regolamentarlo subito dopo la Rivoluzione d’ottobre), in Islanda, Svezia e, dopo la Seconda guerra mondiale, in Ungheria, Polonia, Bulgaria, Cecoslovacchia, Inghilterra e Iugoslavia.

Facciamo un inciso sull’Unione Sovietica. Alla fine dell’Ottocento, nelle grandi città, parallelamente ai sindacati e ai soviet (consigli) degli operai, nacquero i primi movimenti femministi, che riuscirono ad accreditarsi presso le istituzioni con rappresentanti sindacali e con donne che riuscirono a imporre le proprie richieste al partito comunista. Il risultato di questo dialogo fu il riconoscimento del diritto all’aborto legale. Il 18 novembre 1920, sul giornale del comitato esecutivo centrale dei Soviet, apparve il decreto di legalizzazione dell’aborto, approvato per “proteggere la salute delle donne”. Il decreto era una condanna all’aborto clandestino e illegale, che metteva a rischio la vita delle donne, e anche se consentiva “questo tipo di operazione da eseguire liberamente e gratuitamente negli ospedali sovietici”, in realtà sottintendeva la volontà del governo di estirpare questa pratica, e ricorrere piuttosto alla gravidanza pianificata.

Com’è facile immaginare, subito dopo la legalizzazione dell’aborto, solo le donne delle grandi città godettero nell’immediato di questo nuovo diritto, considerato quasi un privilegio. Nelle città minori, o peggio nelle campagne, era molto difficile trovare una struttura sanitaria statale, e addirittura quasi impossibile trovare un medico specializzato nella pratica dell’aborto.

In dieci anni circa si riuscì ad ottenere un buon livello di accesso all’aborto, che però era condizionato dall’essere ancora nei primi 3 mesi di gravidanza. Ma non fu l’unica concessione dell’Unione Sovietica, che dava pieno diritto all’aborto per le donne vittime di stupro, di coercizione o di manipolazione psicologica, se vogliamo una vera e propria rivoluzione in senso moderno. Naturalmente non mancavano gli oppositori che sostenevano che così si riducesse la popolazione russa, ma la statistica diceva che le donne che richiedevano l’interruzione di gravidanza avevano già almeno 3 figli. La favola dell’aborto in Russia finì con l’inasprirsi del terrore staliniano, che portò, nel 1937, all’abolizione della pratica legale presso gli ospedali.

L’Unione Sovietica legalizzò l’aborto nel 1920. Questo poster mette in guardia contro l’aborto non sicuro:

Fotografia di Pubblico dominio condivisa via Wikipedia

In Italia ci si arrivò un po’ in ritardo, perciò torniamo alla storia dell’aborto nel nostro Paese, regolamentato, come detto, nel 1978 con l’approvazione della legge n. 194. Fino a quel momento l’aborto era sempre stato attuato in maniera clandestina, provocando sovente la morte delle donne che vi si sottoponevano.

Come si giunse alla legge n. 194?

A cavallo tra gli anni cinquanta e i sessanta del Novecento la questione sull’interruzione volontaria di gravidanza, esplosa in America e in Francia, cominciò a prendere piede in Italia grazie allo spazio dato dai giornali alle continue morti dovute agli aborti illegali che venivano praticati in ogni angolo del Paese:

Una strage fino ad allora nascosta sotto il tappeto del buoncostume

È in quegli anni che si iniziò a parlare di depenalizzare la pena, o perlomeno a dare una regolamentazione all’aborto, come avevano già provveduto a fare altre nazioni: un dibattito acceso che coinvolse società civili e partiti politici e che, alla fine, tirò nella disputa anche la chiesa cattolica che fino a quel tempo aveva fatto, come si suole dire, orecchie da mercante.

Così fu papa Paolo VI a pubblicare la famosa enciclica “Humanae Vitae”, del 25 luglio 1968, in cui ribadì la datata posizione di condanna della chiesa contro gli anticoncezionali e l’aborto, perché il matrimonio rimanesse “aperto alla trasmissione della vita”. Nell’enciclica si sottolineò che era “assolutamente da escludere, come via lecita per la regolazione delle nascite, l’interruzione diretta del processo generativo già iniziato, e soprattutto l’aborto diretto, anche se procurato per ragioni terapeutiche”.

La chiesa però non poteva più far finta di non conoscere il dramma delle morti che insanguinava il Paese e perciò il pontefice riportò nell’enciclica una frase che suscitò moltissime polemiche: “In rapporto alle condizioni fisiche, economiche, psicologiche e sociali, la paternità responsabile si esercita, sia con la deliberazione ponderata e generosa di far crescere una famiglia numerosa, sia con la decisione, presa per gravi motivi e nel rispetto della legge morale, di evitare temporaneamente od anche a tempo indeterminato, una nuova nascita”.

Evitare temporaneamente una nuova nascita. Parole fortissime per un papa.

Con le proteste giovanili di quel periodo, si aprì strada anche alle contestazioni in piazza in difesa dell’aborto e nel 1971 fu presentata al Senato – da parte del Partito socialista italiano – la prima proposta di legge volta alla regolamentazione dell’aborto in Italia. Aborto che, con tutte le difficoltà e i rischi del caso, continuava a essere praticato e ad avere ogni giorno sempre più medici tra le fila della compagine abortista. Fila che annoveravano esponenti del Partito repubblicano e dei radicali e che attirarono sempre più ampie fasce di popolazione, tanto che, nel 1974, a seguito di un sondaggio lanciato da un famoso settimanale italiano, gli italiani fecero sentire come mai prima la loro voce, schierandosi in maggioranza a favore di un rapido intervento del parlamento in materia di aborto.

Disegno di un manoscritto del XIII secolo, raffigurante una donna incinta a riposo, mentre un’altra donna prepara una bevanda con la mentuccia, antico abortivo

Fotografia di Pubblico dominio condivisa via Wikipedia

Ormai il solco era segnato e, nonostante la chiesa confermasse la sua posizione antiabortista, nel 1975 l’ipotesi di un referendum abrogativo delle norme penali che condannavano la pratica dell’aborto e la realizzazione di una legge specifica erano inevitabili.

Si affacciò un principio nuovo:

Quello che distingueva il feto in persona già tale e in persona che ancora deve diventare

L’iter legislativo partì con continui attacchi tra cattolici, democristiani, radicali, socialisti e comunisti, ma tutti, chi più chi meno, si mossero per una legge compromesso, che non impedisse l’aborto – ipotesi oramai impossibile –, ma che ne regolasse però l’accesso, secondo le casistiche, non rendendolo totalmente libero come desiderato dai movimenti femministi.

La prima proposta di legge sull’interruzione di gravidanza pervenne alla Camera dei deputati all’inizio del 1977, ma fu successivamente accantonata per l’opposizione della Democrazia cristiana. Questo portò alla presentazione di una nuova proposta di legge, limata in alcuni aspetti, che l’anno successivo, mentre il Paese era sconvolto dal rapimento e dalla seguente uccisione di Aldo Moro, presidente della DC, riuscì a passare sia alla Camera sia al Senato.

La legge 194 “Norme per la tutela sociale della maternità e sull’interruzione volontaria della gravidanza” era ufficialmente nata e fu pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale il 22 maggio 1978.

Secondo la normativa, la donna, garantendo l’anonimato delle sue generalità, poteva ricorrere all’aborto entro i primi novanta giorni di gravidanza e tra il quarto e il quinto mese di gestazione se per ragioni di natura terapeutica, ovvero per una donna “che accusi circostanze per le quali la prosecuzione della gravidanza, il parto o la maternità comporterebbero un serio pericolo per la sua salute fisica o psichica”.

Restava vietato l’aborto per le ragazze minorenni

Donna sottoposta all’aborto

Fotografia di Sconosciuto – VD 17 di Pubblico dominio condivisa via Wikipedia

Le polemiche non si placarono però con l’intervento del legislatore e l’entrata in vigore della legge 194, sia da una parte della barricata che dall’altra, tanto che si dovette ricorrere a un referendum con doppia proposta – la prima radicale, la seconda del movimento cattolico per la vita, sostenuto dalla Santa Sede – per abrogare parte della legge sull’aborto.

Il referendum si svolse il 17 maggio 1981 con altri tre quesiti oltre ai due relativi all’aborto: quelli sull’abrogazione delle leggi del fermo di polizia, del porto d’armi e dell’ergastolo.

Le votazioni dei referendum abrogativi ricevettero in tutti e cinque i casi una maggioranza schiacciante del no, per cui tutte le normative dettate dalla legge n. 194/1978 sono rimasta intatte. Oggi in Italia è legale abortire, ma le recenti sentenze degli Stati Uniti, in cui si è lasciato libero arbitrio ai singoli stati nel decidere se mantenere legale l’aborto o meno, fanno pensare che sia un diritto da difendere, con le unghie e i denti, perché il rischio di tornare al passato è tutt’altro che lontano.

Antonio Pagliuso

Appassionato di viaggi, libri e cucina, si occupa di editoria e giornalismo. È vicepresidente di Glicine associazione e rivista, autore del noir "Gli occhi neri che non guardo più" e ideatore della rassegna culturale "Suicidi letterari".