La Storia della Fotografia della Donna Sepolta Viva in una Cassa nel Deserto della Mongolia

La donna che vediamo nell’immagine fu immortalata nel luglio del 1913 dal fotografo francese Stéphane Passet, spedito, insieme ad altri, in ogni angolo della terra da Albert Kahn. Kahn era un banchiere parigino, fra i principali pionieri e divulgatori della fotografia a colori, che fece utilizzare ai propri fotografi il processo inventato dai fratelli Lumière chiamato Autocromia. Egli finanziò una spedizione intorno al mondo per documentare usi e costumi dei popoli della propria epoca, spedendo ai quattro angoli del pianeta fotografi professionisti che realizzarono 72.000 immagini, un archivio storico di inestimabile valore chiamato “The Archives of the Planet“.

Passet attraversò anche la Mongolia, dove fotografò questa donna condannata a morire di stenti all’interno di una cassa di legno, destinata a diventare la sua tomba. Per l’esecuzione inizialmente venivano posizionate delle ciotole ai lati della cassa, e ogni tanto le veniva data dell’acqua e del cibo per rallentarne la dolorosissima morte. Il fotografo lasciò la donna nella scatola e non intervenne per non alterare l’equilibrio delle leggi e delle civiltà locali.

La foto fu pubblicata sul National Geographic nel 1922 con la didascalia “prigioniero mongolo in una scatola“. Gli editori affermarono che la donna venne condannata a morte per punire il suo adulterio. La veridicità dell’affermazione fu messa in discussione sovente, anche se l’autenticità della fotografia è indiscussa.

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L’immuramento (dal latino im – murus, letteralmente “murare”) è una forma di prigionia, di solito che porta alla fine della vita, nella quale una persona è collocata all’interno di uno spazio chiuso senza via d’uscita. Spesso, quando viene utilizzato come mezzo di esecuzione, il prigioniero viene semplicemente lasciato morire di fame e disidratazione. L’Immuramneto fu praticato in Mongolia sicuramente durante la prima parte del XX Secolo, sostituito poi dalla fucilazione. In questo stato la pena di morte fu abolita solo nel 2012.

L’esser murato vivo non sempre conduceva alla morte, ma poteva rappresentare anche una forma di tortura, come in Cina, dove i prigionieri venivano rinchiusi in casse dove non potevano stendersi o alzarsi in piedi e vedevano la luce del giorno per pochi secondi, quando il cibo veniva gettato loro attraverso un piccolo foro.

L’immagine è interna al libro: The Dawn of the Color Photograph: Albert Kahn’s Archives of the Planet, disponibile su Amazon

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La fotografia, visivamente potentissima nella sua drammaticità, ci racconta di un’epoca nella quale l’adulterio era colpito col la massima severità, soprattutto nei confronti delle donne, e finire a morire di fame, caldo e stenti dentro una cassa era tutto fuorché un’ipotesi remota.

Matteo Rubboli

Sono un editore specializzato nella diffusione della cultura in formato digitale, fondatore di Vanilla Magazine. Non porto la cravatta o capi firmati, e tengo i capelli corti per non doverli pettinare. Non è colpa mia, mi hanno disegnato così...