La storia statunitense conta ormai quarantasei presidenti, e senza dubbio uno dei più celebri è Franklin Delano Roosevelt (1882-1945), per una serie di motivi: 32° Presidente americano, è stato l’unico a vincere per più di due mandati consecutivi su ben quattro elezioni (la prima nel 1932 e l’ultima nel 1944), nonché colui che decise per l’entrata degli Stati Uniti nella Seconda guerra mondiale nel 1941, dopo l’attacco giapponese a Pearl Harbor.
Potremmo restare a lungo sulle motivazioni che rendono Roosevelt memorabile nella storia americana e mondiale, dal momento che fu anche il fautore principale delle politiche del New Deal, che portarono sollievo e progresso economico ad un Paese che era stato profondamente danneggiato dalla crisi di Wall Street del 1929; tuttavia ci limiteremo a focalizzarci su un altro degli aspetti che caratterizzò in modo decisivo la vita di Roosevelt, ovvero la malattia che contrasse all’età di trentanove anni.

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Nell’agosto 1921 Franklin Delano Roosevelt scelse di recarsi in vacanza sull’isola di Campobello, a bordo dello yacht dell’uomo d’affari Van Lear Black; pochi giorni dopo venne raggiunto anche dalla moglie Eleanor e dai figli, coi quali passò tempo tra giochi, tuffi in acqua e nuoto (attività che sperava potesse aiutarlo ad alleviare quella stanchezza che avvertiva da tempo).
Rientrando da una giornata con i figli, Roosevelt decise di dedicarsi alla lettura delle lettere che gli erano giunte: in quel momento però aveva iniziato ad avvertire dei brividi, che lo avevano convinto ad andare a letto e a saltare la cena con la famiglia.
Il futuro presidente aveva tranquillizzato la moglie Eleanor, convinto di essersi semplicemente raffreddato: in effetti i sintomi del giorno successivo suggerivano qualcosa di molto simile a ciò che Roosevelt aveva ipotizzato, non fosse che poco dopo subentrò non solo la febbre, ma anche una difficoltà molto grave nel muovere la gamba sinistra, che coinvolse velocemente anche quella destra.
A quel punto la moglie convocò d’urgenza il dottor Bennett, che seguiva la famiglia: dopo la visita, anche il medico si convinse del fatto che Roosevelt avesse contratto un banale raffreddamento, e pertanto consigliò al paziente di rimanere a letto ancora qualche giorno.
Eleanor Roosevelt, che ormai aveva assistito a diverse influenze del marito da quando si era sposata con lui nel 1905, accettò il parere del dottor Bennett, ma con qualche riserva: non aveva mai visto FDR in quelle condizioni, e ciò la insospettiva. Le giornate successive videro il quadro clinico di Roosevelt peggiorare progressivamente: la paralisi che aveva colto le gambe stava influenzando anche il torace e, ben presto, il futuro presidente scoprì di non riuscire a tenere in mano nemmeno la penna.
Quando Bennett venne riconvocato, capì di aver sottovalutato lo stato del paziente e decise di consultarsi con il dottor Keen, che era in vacanza poco lontano da Campobello (era ad agosto difficile infatti sperare di trovare medici specializzati reperibili e disponibili a raggiungere l’isola): la scelta era comunque stata ottima, considerato che Keen era stato nella squadra dei chirurghi che aveva rimosso un tumore dalla bocca di Grover Cleveland (22° e 24° presidente americano) nell’estate del 1893.
Anche la diagnosi di Keen purtroppo si rivelò sbagliata, e venne seguita da altre consultazioni errate: fu poi lo specialista di Boston, il dottor Lovett che, dopo una serie di esami, riuscì a identificare la malattia di cui soffriva Roosevelt, ovvero la poliomielite. Secondo il parere di Lovett, la forma che aveva contratto Roosevelt non era delle più aggressive, e dunque non poteva considerare impossibile un recupero completo, a patto che i massaggi consigliati dai medici precedenti fossero banditi (in quanto peggioravano non solo i dolori, ma anche le condizioni dei muscoli) e, al loro posto, fossero introdotti bagni caldi.
Lovett però fu chiaro con Eleanor Roosevelt: le disse che il dolore e l’atrofia muscolare erano solo una parte delle conseguenze della malattia, e che sarebbe probabilmente seguita la depressione. A posteriori è scorretto considerare i dottori Bennett e Keen inadempienti: un errore nella diagnosi all’epoca era infatti comune, considerato che la poliomielite veniva contratta nella maggioranza dei casi dai bambini.
Convalescenza, convivenza e trasformazione
La malattia del marito trasformò improvvisamente anche la stessa Eleanor e, ancor di più, il suo ruolo nella coppia: era già da tempo non più un mistero per la moglie la relazione extraconiugale che Roosevelt aveva con Lucy Mercer, e anche il fatto che il matrimonio stesso avesse perso sentimento nel corso degli anni. Le condizioni di FDR avevano quindi portato Eleanor a rivestire un ruolo fondamentale nella vita del marito: da lei dipendevano anche quelle azioni che noi definiamo quotidiane, ma che il futuro presidente non riusciva a compiere, come lavarsi, vestirsi, mangiare.
La donna fu quindi fondamentale nel processo di recupero di Roosevelt, sebbene avesse difficoltà a rapportarsi con il concetto stesso di malattia: la figlia Anna ricorderà, dopo la morte del padre, che Eleanor tendeva sempre a razionalizzare completamente qualsiasi disturbo fisico, forte della sua formazione da upper-class, per la quale l’argomento “malattie” doveva essere evitato. Altre testimonianze ci forniscono un’immagine di Eleanor, quella degli ultimi anni della vita del marito, insofferente circa la poliomielite di FDR, tesa costantemente a spronare quest’ultimo a non arrendersi, a fare di meglio, a non fermarsi nemmeno per una piccola pausa.

Anche i figli giocarono un ruolo importante nel recupero del padre: le attività in loro compagnia favorirono un miglioramento nelle condizioni fisiche di Roosevelt e anche mentali. Dopo una serie di terapie, il politico fece grandi progressi presso le sue dimore a Hyde Park e a Warm Springs: risultava ancora impossibile per lui camminare, quindi la paraplegia era diventata l’ultima sfida da affrontare e vincere. Nell’accettazione della sua malattia infatti, Roosevelt si era intestardito sulla necessità di tornare a dipendere esclusivamente dalle sue gambe e non solo: costante fiducia e impegno dovevano essere suoi baluardi, se voleva realmente tornare in politica (era stato già Senatore dello Stato di New York e poi assistente segretario alla Marina durante la Prima guerra mondiale).

La sua sicurezza e i temi proposti nella sua campagna elettorale riuscirono a trionfare e ad annientare gli attacchi che i suoi oppositori avevano formulato, focalizzati ovviamente sulla precarietà delle condizioni di salute del candidato democratico.
Roosevelt fu eletto Presidente degli Stati Uniti per la prima volta nel 1932: sono stati già menzionati alcuni punti salienti della sua presidenza, durata in tutto quattro mandati, fino al 12 aprile 1945, giorno della sua morte.
Un aspetto fondamentale che merita menzione è proprio legato alla poliomielite, e a come questa cambiò il presidente: una trasformazione che ha avuto riflessi sulla sua stessa politica sociale.
Un’amica intima di FDR, Frances Perkins (che fu anche Segretaria del Lavoro durante le amministrazioni Roosevelt e Truman), che lo aveva visto in condizioni di salute e poi durante la convalescenza, spiegò che, una volta contratta la poliomielite, il futuro presidente americano fu abbastanza determinato e pragmatico da sviluppare un fermo controllo su se stesso, sul suo corpo e sulla stessa malattia. Uno degli zii di FDR, Frederic Delano, lo definì un twice-born man, un uomo nato due volte, mentre uno dei suoi camerieri ricordò che durante la convalescenza, non sentì mai Roosevelt lamentarsi.
Certamente la poliomielite doveva aver rappresentato, secondo il prof. Sustein, una sorta di campanello d’allarme, suonato ben prima della Grande Depressione del 1929, che lo aveva portato a riflettere sulla vulnerabilità umana e il rischio che possano abbattersi disastri nella vita dell’uomo ai quali non vi è rimedio.
Molti dei suoi collaboratori ricordarono successivamente che l’ottimismo del presidente Roosevelt era stato contagioso: la sua stessa serenità gli aveva permesso di trovare fiducia e speranza nel futuro anche in alcuni dei momenti più bui della storia, scatenati dalla Seconda guerra mondiale. Nel suo famoso discorso sulle Quattro Libertà (che anticipava l’omonima dottrina), pronunciato nel gennaio 1941, Roosevelt menzionò tra queste anche la “libertà dalla paura“: da quella scatenata dalle guerre, dalle crisi ma anche e soprattutto, dalle malattie.
Ed ecco quindi ciò che appare un riferimento chiaro alla sua condizione personale: la poliomielite aveva provocato terrore nella vita di Roosevelt, legandosi indissolubilmente alla sua vulnerabilità ed anzi, forse amplificandola ancora di più.
La malattia aveva quindi portato il presidente a sviluppare una consapevolezza maggiore riguardo le condizioni dei cittadini americani più sfortunati, e circa la precarietà economica che ancora era realtà nella vita di molti statunitensi, e che di conseguenza non permetteva alcuna garanzia sanitaria.
Uno degli esempi lampanti di questo avvicinamento ai più deboli è da identificarsi nel suo legame (durato fino alla fine della sua vita) con le vittime di paralisi a Warm Springs in Georgia, dove speravano di poter trovare sollievo nelle terme: lo stesso FDR aveva passato lì parte della sua convalescenza. Alcuni descrissero quel rapporto duraturo quasi simile ad una fratellanza: Roosevelt era considerato parte di quella “famiglia”, alla quale non fece mai mancare sorrisi e fiducia nel progresso di ogni paziente.

Il presidente Roosevelt riservò la stessa attenzione anche agli ospedali militari e ai mutilati durante la Seconda guerra mondiale: andava a visitare le strutture, i ricoverati e, anche negli ultimi mesi di vita, continuò a infondere coraggio nei sopravvissuti.
Ce la farai, fratello: Questa era una delle tante frasi che FDR ripeteva, forse ogni volta con maggior vigore e convinzione.
La poliomielite trasformò radicalmente Roosevelt: in uno dei suoi scritti, egli sviluppò una riflessione dedicata ai cittadini americani più sfortunati, definendoli “non diversi” dal restante della popolazione, da lui stesso. “Non bevono più del resto di noi, non mentono di più, non sono più pigri degli altri” proseguiva così la riflessione; per tali motivi era assurdo pensare che gli Stati Uniti potessero autorizzare l’esistenza di un sistema capitalistico che lasciava da parte, indietro, moltissime persone malate e povere, costrette a vivere senza risorse alimentari adeguate e in una dimora fatiscente.
Il pensiero a cui Roosevelt fu fedele fino al momento della sua morte (anche con l’elaborazione del tanto sperato Second Bill of Rights), non considerava coloro che vivevano in povertà responsabili delle proprie condizioni anzi: la responsabilità della precarietà di questi individui era attribuita unicamente alla nazione.
“L’uomo migliore che io abbia mai conosciuto”
Come ricorda un proverbio, “con i se e con i ma non si fa la storia”, dunque sarebbe difficile immaginare quale impatto avrebbe avuto nella politica del dopoguerra il pensiero di Roosevelt influenzato dalla poliomielite, se non fosse morto quel 12 aprile 1945: nonostante ciò, è indubbio il fatto che la proposta formale nel 1944 della realizzazione di un Second Bill of Rights (in italiano: Seconda Carta dei Diritti), che avrebbe portato ad un generalizzato stato di benessere fisico, economico e morale, nonché ad una sicurezza maggiore in tal senso nella vita di ogni cittadino, rappresentasse il punto di partenza di una vera e propria svolta nel welfare statunitense.
La scomparsa di Roosevelt fu un colpo devastante per gli Stati Uniti, che erano ancora impegnati nella Seconda guerra mondiale (pochi mesi dopo, ad agosto, a seguito del bombardamento atomico sulle località di Hiroshima e Nagasaki, Truman annunciò la fine del conflitto, a seguito della resa del Giappone, ultima potenza dell’Asse ancora in guerra), ma non solo: l’Europa lo pianse sinceramente, soprattutto il Primo ministro britannico Winston Churchill.
Dopo la conferenza di Casablanca (gennaio 1943), Roosevelt e Churchill avevano visitato Marrakech: il presidente americano aveva posticipato la partenza perché il “collega” ed amico lo aveva convinto delle meraviglie di quella città. Dopo la breve avventura, al momento della partenza di FDR per gli Stati Uniti, Churchill si rivolse al vice-console americano, Kenneth Pendar e gli disse: “Non voglio vederlo partire, mi rende nervoso. Se dovesse succedere qualcosa a quell’uomo (Roosevelt, n.d.r), non potrei sopportarlo. E’ il più sincero dei miei amici, è lungimirante; è l’uomo migliore che io abbia mai conosciuto.”