Cosa ha a che fare l’ammiraglio Horatio Nelson, osannato eroe britannico e antagonista storico dei rivali francesi, con la spedizione dei Mille di Giuseppe Garibaldi? Nello svolgersi dei fatti, praticamente nulla, visto che l’ammiraglio muore nel 1805 a Trafalgar, l’ultima delle sue battaglie vinte contro la flotta franco-spagnola.

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Eppure, Nelson è in qualche modo coinvolto – tramite i suoi eredi – con quella che i giornalisti Gian Antonio Stella e Sergio Rizzo definiscono “la perdita dell’innocenza” dell’impresa dei Mille: i fatti di Bronte, “luogo simbolo del tradimento delle plebi meridionali”.
La vergogna di Bronte parte dunque da molto lontano, addirittura dal 1798, quando Nelson prima porta in salvo in Sicilia Ferdinando IV (poi Ferdinando I del Regno delle due Sicilie) di Borbone e la sua autoritaria moglie, Maria Carolina d’Austria, in fuga dalle truppe francesi, e poi, nel 1799, favorisce la caduta della giovanissima Repubblica di Napoli, e rimette sul trono la coppia reale.

La regina ha come fidata consigliera – forse qualcosa di più, secondo le malelingue dell’epoca – un’avventuriera inglese sposata all’ambasciatore britannico a Napoli, la sensuale e intraprendente Emma Hamilton, che rimane folgorata da Nelson e viceversa. La donna rimarrà legata all’ammiraglio e anche al marito, in un singolare menage a trois, fino alla morte di Nelson e poi, rimasta vedova, finirà miseramente i suoi giorni a Parigi.

A quanto pare è proprio lei, che ha un grandissimo ascendente su Nelson, a convincerlo della necessità di giustiziare un gran numero di insorti repubblicani, quando invece il Comandante Generale del Re, Fabrizio Ruffo, aveva garantito per la loro salvezza. Addirittura Nelson converte la pena dell’ergastolo, inflitta all’ammiraglio napoletano Francesco Caracciolo (che peraltro conosceva di persona), in condanna a morte: l’ufficiale viene impiccato su una nave della Real Marina del Regno delle due Sicilie, e, per non concedergli nemmeno l’onore di un funerale, il corpo viene gettato in mare con dei pesi assicurati alle gambe. Nonostante questo, il cadavere riaffiora proprio sotto gli occhi di Ferdinando, che in quel periodo se ne stava al riparo su una nave inglese, e i napoletani possono così dargli una degna sepoltura.
Dopo tutte queste vicende è evidente che Ferdinando si senta in debito verso Nelson, e gli conferisce il titolo di Duca di Bronte, con annesso feudo di migliaia di ettari – da allora in poi conosciuto come Ducea di Nelson – che comprendeva anche il popoloso comune di Bronte (11.000 abitanti), oltre all’antica abbazia di Santa Maria di Maniace.
Per premiare Nelson, Ferdinando dona un feudo che fin dal 1491 era stato concesso all’Ospedale Grande e Nuovo di Palermo, poi risarcito con una rendita annua che sarà sborsata anche dopo la costituzione del Regno d’Italia.
Malgrado la proprietà prenda il nome di Ducea (ducato), mantiene le prerogative di un feudo, visto che nel decreto di concessione “in perpetuo”, è previsto il “mero e misto imperio ed il diritto di vita e di morte sugli abitanti della terra e del comune di Bronte”.
Per gli abitanti di Bronte, per i contadini e braccianti non cambia nulla: rimangono soggetti al nuovo Duca come lo erano stati all’Ospedale di Palermo.
In realtà, il comune di Bronte aveva un contenzioso aperto con l’Ospedale, perché Innocenzo VIII, su intercessione di Rodrigo Borgia (poi papa Alessandro VI), dona il feudo senza averne titolo, come scriveranno poi gli avvocati del municipio: “Non era padrone di Bronte, in conseguenza non poteva trasferire in altri ciò che non avea”. La gestione del feudo da parte dell’Ospedale, dal 1491 al 1799, è quanto mai rapace e personalistica, “[…] il territorio comunale viene requisito e fagocitato nella riserva feudale, i contadini perdono i tradizionali usi civici” (Vincenzo Pappalardo) come il diritto di pascolo e di far legna nei boschi, ma non solo. I contadini non possono lasciare le terre e trasferirsi nemmeno quando epidemie, carestie ed eruzioni dell’Etna li riducono alla fame.
Nel 1523, il Comune di Bronte intraprende una causa, persa in partenza, contro l’Ospedale, sostenuto da tutte le autorità civili e religiose. Nel 1638, dietro pagamento di una somma ingentissima, saldata nell’arco di molte decine d’anni, il comune di Bronte riesce ad acquistare almeno “il mero e misto imperio” (il diritto di esercitare la giustizia civile e penale, con facoltà di comminare anche la pena di morte). Un diritto che invece viene nuovamente conferito al neo proclamato Duca di Bronte, come se nulla fosse successo nei secoli precedenti.
Nelson, sempre preso dalle sue battaglie, quasi certamente non mise mai piede nel feudo, ma era estremamente orgoglioso del titolo, tanto che dal 1799 si firmò sempre Duca di Bronte. Tutta questa vicenda fu ampiamente riportata in Inghilterra, tanto che un suo grande ammiratore, un pastore protestante che di cognome faceva Prunty o Brunty, cambiò il proprio cognome in Bronte: era il padre delle future romanziere Charlotte ed Emily Bronte.
La causa tra il comune etneo e gli eredi di Nelson prosegue fino al 1860, quando lo sbarco dei Mille a Marsala sembra finalmente portare un po’ di giustizia ai brontesi, esacerbati da secoli di sottomissione e miseria.
Dal 1799, nella Ducea Nelson si erano susseguiti vari amministratori, tutti orientati a mantenere i privilegi di tipo feudale, come la chiusura dei sentieri di campagna (le trazzere) e l’imposizione di un pedaggio a chi doveva arrivare al proprio campo o portare gli animali al pascolo, oppure il divieto di accedere ai boschi per far legna o raccogliere erbe spontanee commestibili.

Dopo i moti del 1848, qualcuno si era illuso che potesse cambiare qualcosa, ma la redistribuzione di alcuni terreni della Ducea fu fatta a vantaggio non dei braccianti nullatenenti, ma di qualche personaggio di riguardo della buona società locale: la famosa frase pronunciata da Tancredi ne Il Gattopardo di Tomasi di Lampedusa, “Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi”, può essere usata anche molto prima del contesto in cui è inserita.
Poi, finalmente arriva Garibaldi e, in pochi giorni, tutto sembra cambiare grazie ai suoi svariati proclami, che, tra l’altro, sciolgono i consigli civici composti dai sostenitori dei Borbone, aboliscono l’odiatissima e iniqua tassa sulla macinazione del grano e impongono, il 2 giugno 1860, l’assegnazione delle terre demaniali ai contadini nullatenenti.

Ma Bronte sembra essere un altro mondo: non solo le terre non vengono divise e la tassa sul macinato non viene abolita, ma il nuovo consiglio civico è formato – su pressione del console inglese – da personaggi legati ai Nelson, i Ducali, chiamati anche “Cappelli” (per il loro diritto ad indossare appunto il cappello, mentre ai contadini era concesso solo l’uso della coppola) in contrapposizione ai Comunisti, ovvero i sostenitori del Comune, che appartengono al popolino, con qualche eccezione, come l’avvocato Nicolò Lombardo, già protagonista dei moti del 1848.
Insomma, in quell’estate del 1860, viste le speranze negate e le promesse disattese, a Bronte la situazione diventa esplosiva: ci sono svariate manifestazioni popolari contro i “cappelli”, fino a che, il 2 agosto, si arriva a una sorta di resa dei conti:
“Gli interessi opposti di classe, le ambizioni deluse, la sete di vendetta, gli inveterati odii covati nel seno dei contadini resero il conflitto inevitabile, fatale”, scriverà lo storico Benedetto Radice.
A mettere in guardia nobili e notabili, già da qualche giorno andava in giro per Bronte Nunzio Ciraldo Fraiunco – il matto del paese, sicuramente istigato da qualcuno – che armato di trombetta cantilenava “Cappelli guaddàtivi, l’ura du giudizziu s’avvicina, pòpulu non mancari all’appellu”, proprio sotto le case dei Ducali.
Radice commenta: “I galantuomini, veri dementi, ridevano del matto, mentre i popolani affilavano scuri e coltelli e preparavano polveri, aprendo l’anima alla brama di selvagge vendette”.
Nella notte tra l’1 e il 2 agosto c’è tutto un silenzioso movimento di rivoltosi che arrivano dalle campagne vicine, mentre qualche notabile con la vista più lunga degli altri riesce a lasciare il paese. Tutti gli altri si ritrovano assediati nelle loro case quando tra le strade risuona il grido “Guai a chi è contro il popolo”.
Si consuma così la tragedia, in una sommossa che non ha più una guida politica e si presta anche a personali vendette, mentre l’avvocato Nicolò Lombardo non è in grado di controllare i suoi seguaci, in preda a una ferocia inaudita e aizzati anche da alcuni elementi violenti scappati dalle carceri.
Il tragico bilancio della rivolta, che si prolunga fino al 4 agosto, conta sedici morti: oltre alla guardia municipale vengono uccisi alcuni funzionari della Ducea e del Comune. Finiscono incendiate decine di case, il teatro e l’archivio comunale; le tre compagnie locali della Guardia Nazionale nulla possono per contrastare tanta violenza, e una quarta compagnia, arrivata da Catania il giorno 4, fa subito dietro-front senza intervenire. Solo il 5 agosto, quando gli animi si sono già calmati, fanno il loro ingresso a Bronte 300 soldati, comandati dal Colonnello Giuseppe Poulet, che si fa consegnare le armi.
Immediata è la reazione degli inglesi. Mentre la duchessa Charlotte Nelson Hood se ne sta in patria, a difendere i suoi interessi ci pensano gli amministratori del feudo, ma anche il Console Generale britannico, John Goodwin, che proprio su loro richiesta sollecita Garibaldi a riportare l’ordine nella Ducea, salvaguardando gli interessi della sua compatriota. Interessi che sono all’opposto di quanto propugnato da Garibaldi stesso con i suoi proclami, e vanno senza dubbio contro i diritti del popolo di Bronte.
Il Generale non perde tempo e lo rassicura, tramite il Segretario di Stato, in una lettera indirizzata al console: “A nome del Dittatore si dà l’onore di far conoscere al Sig. G. Goodwin, console di S. M. Britannica in Sicilia, che si son date oggi stesso energiche disposizioni perché non avvenga il menomo inconveniente, abuso o pregiudizio del diritto e delle proprietà di Lady Nelson, Duchessa di Bronte, e coglie questa occasione per esprimere i sensi della più distinta considerazione.” (Archivio di Stato di Palermo, Segreteria di Stato presso il luogotenente Generale Interno, anno 1860, vol. 1594, n. 217).
Perché dunque Garibaldi si sottomette al volere degli inglesi?
Il motivo è semplice: è in debito con gli inglesi, che per svariati motivi sia politici sia economici, dopo aver sostenuto a lungo i Borbone, trovano più conveniente favorire un governo indipendentista siciliano, se non addirittura provocare la caduta del Regno delle due Sicilie.
Proprio in Sicilia, rispetto al resto del regno borbonico, la spinta rivoluzionaria è più forte, perché sull’isola la repressione dei Borbone è stata più dura dopo i moti del ’48, e d’altro canto nessuna concessione di tipo liberale è stata adottata per tentare di placare gli animi.
Garibaldi accetta di guidare la spedizione dei Mille solo perché è abbastanza certo di ricevere il sostegno popolare, cosa che di fatto avviene, al contrario di quanto era accaduto, ad esempio, nella sfortunata impresa di Carlo Pisacane a Sapri.

Per questo, quando inizia a profilarsi la missione di Garibaldi, peraltro sollecitata da patrioti siciliani come Rosolino Pilo e Francesco Crispi, la Gran Bretagna decide di appoggiarla con una raccolta fondi (il Garibaldi Special Fund) e anche con il supporto di combattenti volontari. Nonostante ciò, Garibaldi tentenna fino all’ultimo, e pensa addirittura di rinunciare dopo la fallita Rivolta della Gancia a Palermo, quando 13 rivoluzionari erano stati fucilati senza processo. Dopo aver rimandato la partenza prevista per 28 aprile, il 5 maggio del 1860, Garibaldi e 1162 uomini salpano a bordo di due navi dal porto di Quarto.

Quando stanno per sbarcare in Sicilia, scelgono Marsala perché proprio un veliero inglese, ma anche una barca di pescatori siciliani, li informa che in quel porto non ci sono navi della Marina borbonica…. e non solo. A vigilare sullo sbarco ci sono in rada due cannoniere inglesi, arrivate da Malta per proteggere, almeno ufficialmente, gli interessi dei numerosi commercianti britannici residenti in Sicilia.
A onor del vero, le due navi della Royal Navy rimangono “neutrali”. Curiosamente, la corvetta della Marina borbonica inviata a Marsala per tentare di impedire lo sbarco, invece, non interviene. Guarda caso, a comandare la nave è l’ammiraglio Guglielmo Acton, discendente di una famiglia inglese poi stabilitasi nel Regno delle due Sicilie. L’alto ufficiale scambia, a suo dire, le Camicie Rosse di Garibaldi – già sbarcate – con soldati britannici dalla divisa rossa, i Red Coats (Cappotti Rossi), e quindi non impartisce l’ordine di aprire il fuoco contro di loro, a quanto pare dietro suggerimento di qualcuno vicino al governo britannico. Per inciso, l’ammiraglio poi continua la sua carriera nella Regia Marina italiana, fino a diventare ministro della Marina e senatore.

Insomma, Garibaldi ha un grosso debito nei confronti degli inglesi, che gli presentano il conto a Bronte: il Console Generale Goodwin non solo indica per nome e cognome chi deve essere arrestato, ma ha addirittura l’arroganza di dare per certe le loro condanne, senza nemmeno aspettare che sia istruito il processo. Il Console Generale, supportato anche dal suo omologo di Catania, pretende la testa dell’avvocato Nicolò Lombardo, considerato l’anima della rivolta, e di altri due patrioti già conosciuti per aver partecipato ai moti del 1848, “da far ricercare e arrestare […] onde essere giudicati dall’autorità competente e condannati a mente delle leggi.”
Ad occuparsi della faccenda, “nella più sollecita ed effettiva maniera” (come preteso da Goodwin), Garibaldi manda il più fedele e intraprendente tra i suoi luogotenenti, Nino Bixio, che arriva a Bronte il 6 agosto.

Bixio vuole liquidare quel caso il più velocemente possibile, ansioso com’è di tornare a combattere al fianco del suo generale, ormai in procinto di attraversare lo stretto e sbarcare in Calabria. A Bronte la rivolta è ormai cessata e, come ben compreso dallo stesso Bixio, “gli insorti sono naturalmente fuggiti”. Nonostante ciò, l’intero paese viene accusato di “lesa umanità”.
Il primo ad essere arrestato è Nicolò Lombardo, che, nonostante sia da molti esortato a fuggire, si presenta spontaneamente a Bixio, certo di poter dimostrare la propria innocenza. Invece non ha né modo di discolparsi, né viene ascoltato, mentre i suoi avversari politici lo accusano di essere a capo della rivolta. Intanto Bixio, in tutta fretta, istruisce un processo con esito già deciso, visto che scrive: “La commissione mista di guerra sta istruendo sommariamente i processi, i capi saranno fucilati e i complici condotti a Messina innanzi al Consiglio di Guerra”.
Il dibattimento in aula dura appena quattro ore, giusto il tempo di ascoltare i testimoni dell’accusa ma non quelli della difesa. Cinque imputati vengono condannati alla fucilazione: solo l’avvocato Nicolò Lombardo appartiene al ceto borghese, mentre gli altri sono tutti popolani, quelli che più avevano sperato nella rivoluzione garibaldina. Tra loro anche Nunzio Ciraldo Fraiunco, “lo scemo del paese” che, tenendo fra le mani un’immagine della Madonna, rimane incredibilmente illeso dopo la scarica dei fucili. Il pover’uomo implora quindi la grazia, ma viene invece finito con un colpo alla nuca.
La storia dei Fatti di Bronte non finisce qui: per tutti gli altri 145 imputati si svolge, a Catania, un processo che si conclude nel 1863, con 37 condanne e nessuna pena di morte. E’ quindi legittimo chiedersi se, con un equo processo, anche i cinque uomini fucilati in tutta fretta all’indomani dagli eventi avrebbero avuto pene ben diverse.
Nella Ducea di Bronte, comunque, nessun privilegio viene abolito, nessuna miseria riscattata: alla fin fine si ritorna sempre alle parole di Tancredi ne Il gattopardo. E lì a Bronte nulla cambia dopo la proclamazione del Regno d’Italia, l’avvento del regime fascista o la nascita della Repubblica: anche la riforma agraria del 1952 lascia la proprietà del feudo ai discendenti di Nelson. Solo tra il 1963 e il 1965 i contadini di Bronte, ancora costretti a lottare aspramente per i loro diritti, ottengono la redistribuzione delle terre della Ducea, ma la controversia tra il Comune di Bronte e i Nelson si chiude solo nel 1981, quando l’ultimo erede vende al Municipio tutto ciò che era rimasto di sua proprietà, tranne il piccolo cimitero inglese attiguo all’abbazia di Maniace e, ovviamente, il titolo di Duca di Bronte…

Tutta questa vicenda non viene troppo raccontata nei libri di storia, perché, per dirla con le parole di Leonardo Sciascia,
“Non è che non si sapesse della ingiustizia e della ferocia che contrassegnarono la repressione: ma era come una specie di «scheletro nell’armadio»; tutti sapevano che c’era, solo che non bisognava parlarne: per prudenza, per delicatezza, perché i panni sporchi, non che lavarsi in famiglia, non si lavano addirittura“.
Perché, sempre usando le parole di Sciascia, “è una storia municipale quanto mai interessante: e per i fatti dell’agosto 1860 attinge a caso di coscienza dello Stato italiano, della nazione; dice quel che il Risorgimento non è stato, idea non realizzata; speranza dolorosamente delusa; e ancora ne portiamo pena e remora“.
Lungi dall’esprimere un rimpianto per il governo dei Borbone, dal cui giogo i siciliani volevano a tutti i costi affrancarsi (e lo testimoniano tutti i moti rivoluzionari partiti proprio dall’isola e i tanti insorti che sacrificarono la loro vita), le parole di Sciascia ci pongono di fronte al naufragare di un sogno che, come tutti i sogni, si è infranto nell’agire dei singoli uomini, nella visione limitata della politica contingente, nella miseria di interessi personali, insomma nella realtà, che quasi mai nulla ha a che vedere con i sogni…
Per saperne di più: nel sito Bronte Insieme si trova un’accuratissima ricostruzione dei fatti, con documenti, testimonianze dell’epoca, fonti d’archivio e un ampio resoconto di chi si è occupato, a vario titolo (scrittori, giornalisti, storici, magistrati), di raccontare questa triste vicenda.