Quando si parla di “Misteri d’Italia”, non si sa mai da dove cominciare. Non sappiamo se la stessa cosa valga per ogni altra nazione, ma di una cosa possiamo essere certi: la Storia del nostro Paese è piena da sempre di circostanze mai del tutto chiarite, per non dire completamente oscure, su cui si possono fare soltanto delle ipotesi, anche se gli indizi a favore di una conclusione, in certe occasioni, sono evidenti.
L’uso del “segreto di Stato”, spesso e volentieri, anziché tutelare l’unità della nazione e la saldezza delle istituzioni, è servito soprattutto a coprire vergogne inconfessabili. Basti pensare che solo negli anni ’80 del XX secolo sono stati aperti agli studiosi gli archivi del Ministero dell’Interno che custodivano tutta la documentazione della lotta al “brigantaggio” nel Sud Italia dopo il 1860: e solo allora si sono avute le prove delle numerose stragi di civili compiute dall’esercito sabaudo senza praticamente nessuna ragione a parte quella di terrorizzare le popolazioni, ad esempio quelle di Pontelandolfo e Casalduni, nel Beneventano, in cui furono uccise almeno 13 persone (quelle identificate in base ai registri parrocchiali ancora esistenti, ma potrebbero essere molte di più) il 14 agosto 1861. Per non parlare del famigerato “armadio della vergogna” nascosto in un oscuro palazzo dell’amministrazione della Difesa, in cui erano occultati 695 fascicoli relativi a inchieste militari su stragi di civili italiani avvenute nella Seconda Guerra Mondiale e generalmente attribuite ai tedeschi in fuga, dai quali invece emerge il pesante coinvolgimento di elementi italiani, ritrovato casualmente solo nel 1994 durante l’inchiesta per il processo Priebke. Potremmo andare avanti all’infinito, se volessimo.
Ma il primo “mistero d’Italia” in assoluto, in senso cronologico, quale può essere considerato?
Praticamente, l’Italia unita nasce già con un suo primo mistero. Che non può passare inosservato perché, fortunosamente, coinvolge una figura abbastanza celebre di patriota e intellettuale, la cui famiglia non ha mai cessato di battersi per conoscere la verità, ma sempre invano. Dunque, raccontiamolo.
Lunedì 4 marzo 1861. Dal porto di Palermo, alle 12,20, parte un vascello a vapore, chiamato “Ercole”, diretto a Napoli. Si tratta di una nave vecchia, con 29 anni di servizio già alle spalle, più volte passata di proprietà (ha avuto 4 nomi diversi) e ripetutamente ristrutturata, non in buone condizioni soprattutto per quanto riguarda le macchine, forse destinata alla demolizione se non passerà il prossimo controllo di sicurezza a Napoli. Lunga 45 metri e larga 8, stazza 450 tonnellate, ha un equipaggio di 18 uomini, porta 232 tonnellate di carico vario e ospita un numero di passeggeri che non è stato mai completamente definito. Varia, a seconda delle principali ricostruzioni, da 40 a 60.
Sotto, vignetta con l’Ercole in partenza:
Si sa però con certezza che imbarca 11 passeggeri in Prima Classe, dove il biglietto costa 8 ducati (36 lire): in mezzo a essi, ci sono anche il vice-intendente di finanza dei Mille di Garibaldi, che hanno appena compiuto la famosa “impresa” di conquistare il Regno delle Due Sicilie, e i suoi due aiutanti.
Il suo superiore, diretto responsabile di tutte le spese e le forniture della spedizione, Giovanni Acerbi, è già rientrato da qualche tempo a Torino. Adesso deve rientrare lui, portandosi dietro una cassa con tutti i documenti e le fatture che provano le spese della spedizione, per riferire al riguardo davanti al Parlamento piemontese. Si tratta di un impegno molto importante per un giovane di 29 anni, che ha una laurea in Legge ma l’ha sempre tenuta chiusa in un cassetto, dato che a lui piace soprattutto scrivere poesia e narrativa e andare in cerca di avventure, soprattutto militari. Il suo nome è Ippolito Nievo e la retorica nazionalista lo farà passare alla Storia con il roboante soprannome di “poeta soldato”.
Nievo ha vissuto l’esperienza dei Mille in modo frustrante: avrebbe voluto trovarsi in prima linea, invece gli hanno affibbiato le scartoffie. Tutti però pensano che, se non altro, avrà l’onore di raccontare l’impresa con la sua prosa brillante. Invece, come vedremo, gliene mancherà il tempo. Il racconto, poi, ci sarà lo stesso, ma ad opera di un suo grande ammiratore, Giuseppe Cesare Abba, che ne approfitterà anche per ricordare Nievo con affetto e stima.
Nievo è nato a Padova il 30 novembre 1831 da un magistrato mantovano e da un’aristocratica friulana nella cui famiglia è rimasta vivissima la memoria della Repubblica Veneta, e che quindi non si rassegna per nessuna ragione alla sudditanza sotto l’Impero Austroungarico. Un po’ l’eredità culturale della famiglia, un po’ l’effetto delle tantissime letture (non solo molta narrativa, in mezzo alla quale predilige la scrittrice friulana Caterina Percoto, ma anche i saggi di Giuseppe Mazzini e Carlo Cattaneo), il risultato è che Nievo, già da ragazzo, comincia ad avere qualche problema con la polizia austroungarica per la sua frequentazione di circoli filo-italiani e la partecipazione alle loro manifestazioni, tant’è vero che la famiglia è costretta a spostarlo tra diverse scuole e università per allontanarlo dal pericolo del carcere, fino alla laurea che arriva nella sua città natale, Padova, nel 1855.
Nelle intenzioni della famiglia, dovrebbe fare il notaio ma, evidentemente, la sola idea gli provoca l’orticaria. Si mette a fare il giornalista a Milano, e in tale veste si becca qualche denuncia, subendo anche un processo per vilipendio in cui, patrocinandosi da solo, riesce a farsi assolvere. Anche la sua vita privata è turbolenta come quella pubblica. Sebbene i suoi rapporti con esse non siano stati mai definitivamente chiariti, un copioso epistolario dimostra che le sue attenzioni oscillano tra due ragazze, entrambe perdutamente innamorate di lui: con una, Matilde Ferrari, è anche fidanzato per un breve periodo; l’altra, Bice Melzi d’Eril, è addirittura la moglie di un suo cugino, Carlo Gobio.
Nei frequenti soggiorni presso il castello dei nonni materni a Colloredo di Monte Albano, oggi in provincia di Udine, scrive le sue opere narrative, dal “Novelliere campagnuolo” ai romanzi “Il conte pecoraio”, “Angelo di bontà” e, soprattutto, “Le confessioni di un Italiano”, destinato a diventare uno dei principali classici italiani del XIX secolo. Oltre a poesie, traduzioni e brevi saggi (ogni tanto viene ancora scoperto qualche suo scritto inedito).
Nel 1859 passa finalmente alla tanto agognata azione, combattendo la Seconda Guerra d’Indipendenza nei Cacciatori delle Alpi accanto a Garibaldi, del quale diviene amico. Da qui a far parte dei “Mille” che salpano da Quarto il 5 maggio 1860 (è imbarcato sul “Lombardo” comandato da Nino Bixio ed è qui che conosce Abba), il passo è breve. Della spedizione, ha il tempo di redigere un diario relativo alle prime tre settimane di scontri, ma ne parlerà molto anche nelle numerose lettere che invia a Matilde e a Bice.
E ora gli tocca adempiere a quest’ultimo dovere, dopo di che sarà smobilitato e potrà tornare a casa a riposarsi. Nell’ultima lettera a Bice scrive della sua stanchezza, “meno male che presto questa vitaccia sarà finita…”, senza sapere che queste parole si riveleranno un’atroce profezia. Sono le 12,55 quando l’”Ercole” non è più visibile dal porto di Palermo.
Dopo di allora, non si sa se sia stato più rivisto
Un’altra nave, il “Pompei” parte da Palermo per Napoli tre ore dopo ma, sebbene sia più veloce, non lo incontrerà mai. In compenso, sappiamo dal libro di bordo del “Pompei” che, durante il viaggio, alle 2 di notte, il Mar Tirreno Meridionale fu attraversato da una tempesta che raggiunse il suo culmine verso le 5. Il “Pompei” però riuscì a superarla e arrivò a Napoli la sera del 5 marzo, in ritardo come tutte le altre navi che erano incappate nel maltempo. Tutte, tranne una, perché l’”Ercole” non arrivò mai.
La vicenda, a questo punto, è già misteriosa, ma lo diventa ancora di più subito dopo
Nonostante la presenza di Nievo e dei suoi aiutanti Maiolini e Salviati, e soprattutto degli importantissimi documenti che i tre stavano scortando, per oltre 10 giorni, nessuno si chiede che fine abbia fatto l’”Ercole”, nessuno lo cerca, da nessuna parte. Il primo a porsi il problema è il superiore di Nievo, Acerbi (un altro destinato a una precoce fine: morirà a 44 anni, nel 1869, per le conseguenze di un incidente in carrozza), che il 16 marzo spedisce un telegramma a Palermo, sollecitando il suo vice a raggiungerlo quanto prima a Torino con le carte.
Ippolito Nievo e la sua firma:
Quasi con perfetto tempismo, il giorno dopo, il 17, il giornale napoletano “Omnibus” pubblica la notizia del naufragio, attribuendolo a un “colpo di mare”, ossia a un’onda anomala, e parla anche di un “incerto numero di naufraghi”.
L’articolo di “Omnibus” è un’eccezione. I giornali vicini alla linea governativa (ossia praticamente tutti, perché quelli che criticavano il governo venivano sequestrati immediatamente) non ne parlano. In Parlamento, è in corso una violenta polemica tra filo-garibaldini e anti-garibaldini: i primi vorrebbero l’assorbimento di tutti i garibaldini nell’esercito, mantenendo il grado; i secondi si oppongono fermamente, dato che tra i garibaldini vi sono parecchi repubblicani. I secondi accusano anche i garibaldini di aver commesso ogni sorta di illeciti durante la spedizione (e probabilmente è vero, perché la scarsa o nulla resistenza dell’esercito borbonico tranne che in poche occasioni si può spiegare solo con la corruzione dei suoi vertici, compiuta quasi certamente dagli inglesi, che erano in conflitto con il Regno delle Due Sicilie per il dominio del Mediterraneo meridionale e avevano tutto l’interesse a favorire una sua conquista da parte del Piemonte). Le carte trasportate da Nievo potrebbero essere decisive per dimostrare quanto è effettivamente accaduto.
Sono, in pratica, carte che scottano
Il governo resta stranamente inerte ma le opposizioni premono e, alla fine, viene attrezzato un vapore, il “Generoso” per andare alla ricerca di relitti e naufraghi (12 giorni dopo!). Il “Generoso” è seguito da altre navi, che però non trovano nulla. Né un relitto, né un corpo. E anche questo è strano, perché c’erano a bordo dalle 60 alle 80 persone ed è come se si fossero volatilizzate.
Il 1° aprile, sempre dall’”Omnibus”, arrivano due notizie clamorose: la prima, che le persone a bordo erano almeno 130; la seconda, che c’è un superstite.
Di questo superstite, però, si perdono subito le tracce
Allora la famiglia Nievo spedisce a Napoli un amico, Cesare Cologna, con il compito di scoprire la verità. E Cologna viene a sapere, a forza di parlare con giornalisti e marinai, compreso almeno uno dell’equipaggio del “Generoso”, che il 18 marzo, lo stesso giorno in cui il “Generoso” è tornato a Napoli senza trovare ufficialmente nulla, un uomo ignoto e semicosciente è stato ricoverato all’ospedale militare di Napoli ed è stato messo in stanza con un vecchio che soffre di depressione (all’epoca non si chiamava così ma era comunque considerata una condizione patologica), il quale è stato dimesso alcuni giorni dopo. Questo vecchio, subito dopo, va raccontando in giro che il suo compagno di stanza, deperito e sofferente, delirava parlando con accento settentrionale di un naufragio, e tutti i dettagli della nave oggetto del racconto coincidono con quelli dell’”Ercole” (il vecchio non poteva conoscerli, in quanto analfabeta e chiuso nell’ospedale), che sarebbe naufragato in seguito all’esplosione delle macchine dopo Punta Licosa, che delimita a Sud il Golfo di Salerno.
In seguito a questa rivelazione, un giornalista si reca all’ospedale militare per saperne di più e gli viene risposto che lì non è stato mai ricoverato nessun naufrago misterioso e che il vecchio è solo un ubriacone dalla fervida fantasia.
Nei mesi successivi, si parlerà ancora dell’”Ercole” e saranno rese note almeno 7 teorie sulla sua scomparsa:
- secondo il capitano del “Pompei”, sarebbe stato affondato dalla tempesta a Sud di Capri, all’alba del 5 marzo;
- secondo il capitano Paynter, della nave inglese “Exmouth”, coincide con un relitto da lui avvistato il 5 marzo davanti alle coste della Calabria meridionale;
- secondo l’armatore Florio, affondato nella notte al largo di Capri, per cause ignote;
- secondo il Ministero della Guerra, affondato in un punto imprecisato, per incendio a bordo;
- secondo la stampa siciliana, capovolto e affondato la sera stessa del 4 marzo, per cause imprecisate;
- secondo la stampa napoletana, reso ingovernabile da problemi alle macchine e infine affondato presso Ischia, la mattina del 5, con alcuni cadaveri gettati a riva;
- altre fonti parlano di dirottamento o sabotaggio.
La versione del Ministero della Guerra – la 4 – diventerà quella ufficiale.
Ma colpisce molto la versione dell’”Exmouth”, perché l’”Ercole” era di fabbricazione inglese, aveva battuto bandiera inglese all’inizio della sua attività ed era ben noto ai marinai inglesi, che lo avrebbero riconosciuto facilmente. E anche per una coincidenza che, sul momento, è sfuggita a tutti.
Il 4 marzo 1861, la guerra di conquista della Sicilia non è ancora conclusa, perché da mesi la piazzaforte di Messina sta resistendo a tutti tentativi di occupazione. Quel giorno, l’ammiraglio piemontese Persano, comandante della squadra navale che sostiene l’assedio dal mare, ha ordinato il blocco navale totale: sparare a vista su qualunque nave si avvicini a Messina.
La misura avrà l’effetto di accelerare la caduta della città, che sarà finalmente conquistata il 13 marzo. È possibilissimo che l’”Ercole”, abituato a navigare seguendo la linea della costa (il metodo di navigazione, definito cabotaggio, più sicuro da sempre, dal tempo dei Fenici) e ignaro di questa disposizione, sia incappato in qualche nave militare che lo ha bombardato e affondato. Ovviamente, questa imbarazzante circostanza sarebbe stata poi nascosta dal Ministero della Guerra.
Resta il fatto che dell’”Ercole” e di Ippolito Nievo non si troveranno mai più tracce
La tragedia avrà ripercussioni terrificanti sulla famiglia, portando quasi alla pazzia la madre, che crederà di potersi mettere in contatto con il figlio parlando con un pappagallo addomesticato, e accelerando la precoce scomparsa delle due donne che lo amavano alla follia. Matilde si ammala per lo sforzo di cercare notizie sulla sorte di Ippolito, impegno che la porta per ben due volte in Sicilia (dove troverà anche un appassionato corteggiatore nell’ufficiale siracusano Nicola Sauro, ma il matrimonio sarà reso impossibile dalla mancanza di una dote della donna), e per quello di assistere il padre Ferdinando, affetto da una forma di demenza che lo ha portato a dilapidare tutto il patrimonio familiare.
Matilde morirà a 38 anni, nel 1868
Bice, alla notizia della scomparsa di Ippolito, cade in una depressione da cui il marito Carlo, che la ama disinteressatamente ed è pronto a tutto per lei, cerca di aiutarla a uscire. I due hanno un altro figlio (il terzo, ma una bambina è morta neonata) ma subito dopo il parto le condizioni di Bice si aggravano e la donna muore nel 1865, a 33 anni. Sul letto di morte, chiede di essere sepolta con la camicia rossa da garibaldino che Ippolito le ha donato: sarà accontentata. Con infinita pazienza e comprensione, Carlo donerà al fratello di Ippolito, Alessandro, il manoscritto di “Le confessioni di un Italiano”, che Nievo aveva affidato a Bice, e le lettere che i due si sono scambiati: grazie a questo dono sarà poi possibile pubblicare un capolavoro della letteratura italiana (1867) e poi, per i biografi, ricostruire tutti i più importanti passaggi della vita di Nievo.
Nievo muore pochissimo conosciuto come scrittore, ma i suoi familiari non si rassegnano a lasciarlo dimenticare: per decenni, continuano a far ristampare a loro spese le sue opere e a distribuirle negli ambienti letterari (questa vicenda poco nota è stata oggetto di un saggio da parte della studiosa Marcella Gorra, “Nievo tra noi”, uscito nel 1970). Fino a quando, anche e soprattutto per l’interessamento degli scrittori ex garibaldini come Abba, circa 30 anni dopo la sua morte, comincia finalmente a essere universalmente conosciuto e apprezzato. Oggi è presente in tutte le antologie scolastiche.
Un suo pronipote, Stanislao Nievo, vissuto dal 1927 al 2006, ingegno eclettico (è stato naturalista, scrittore, giornalista e cineasta), ha ricostruito la storia della scomparsa dell’illustre antenato in uno dei più importanti bestseller degli anni ’70: “Il prato in fondo al mare”, uscito nel 1974 e vincitore del premio Campiello nel 1975.