Il vecchio Re Artù è ferito e stanco dopo aver combattuto il maledetto Mordred, suo nipote, che lo ha sfidato per ottenere il potere e assurgere al trono di Camelot. Egli, piegato su se stesso, si trascina in mezzo al bosco fino a raggiungere una radura e uno splendido lago, sul cui sfondo una cascata di acqua cristallina riflette la luce del sole al tramonto, rendendo dorate le frasche degli alberi e le rocce tutt’intorno. Una lieve bruma sta scendendo quasi ad accompagnare il Re nel suo ultimo viaggio.
Artù consegna la mitica Excalibur al fedele cavaliere che lo accompagna, Bedivere. Non ha più forze e quindi gli ordina di gettare la spada nel lago. Il cavaliere si rifiuta, non comprendendo il significato del gesto. Poi, rassegnato, obbedisce al suo signore morente. Impugna Excalibur e con le lacrime agli occhi la getta con tutta la forza che ha in corpo. L’acciaio fende l’acqua come le carni di mille nemici, poi scompare. Il vecchio Re, ormai cieco, chiede al cavaliere di riferirgli cosa vede: nulla, solo il pelo dell’acqua appena increspato da cerchi concentrici. Poi un prodigio!
Excalibur ricompare lucente, impugnata da una candida mano di donna
Sotto, Re Artù estrae la spada e riceve la lama dalla dama del Lago:
È la Dama del lago, che riceve da Artù la spada magica che gli aveva consegnato. Sarà lei ad accompagnarlo verso la fine nella mitica isola di Avalon.
Questa scena del Ciclo Bretone, che affonda le sue radici nella mitologia celtica prima di essere sviluppato molti secoli più tardi da autori medievali come Chrétien de Troiyes, ci offre l’essenza del rapporto nella tradizione celtica tra divinità femminili e acqua, contemporaneamente fonte di vita e dispensatrice di morte.
Ma dalla Cornovaglia e dai freddi mari del nord scendiamo verso un’altra terra generata dalle acque. Un’immensità creata dal Grande Fiume che nasce dal Monviso all’estremo nord-ovest e si riversa a est nell’alto Adriatico formando il delta. È l’acqua creatrice quella che ha portato i sedimenti e lentamente li ha fatti adagiare, originando la terra. È l’acqua mortifera quella livida e ristagnante delle paludi.
La Pianura Padana, bacino idrografico del Po, è una delle più vaste pianure dell’Europa meridionale. Sullo sfondo, la maestosa corona delle Alpi costituisce la grande quinta di un unico palcoscenico dove si sono avvicendati, incontrati e scontrati popoli e culture diverse sulla scena della Storia. Alcune civiltà, come quella romana, lasciano segni tangibili sul territorio, plasmandolo parzialmente e determinando il paesaggio come lo conosciamo.
La Dama del lago, dipinto di Nicola Marchi (autore dell’articolo):
Altre civiltà, invece, più antiche e tecnologicamente meno avanzate, hanno affondato il proprio sigillo nella dimensione metafisica dell’inconscio collettivo, lasciandoci in eredità tutta una serie di usi, rituali e leggende arcaiche sopravvissute sino a tempi recentissimi, come una flebile eco nell’oscurità. Tribù celtiche dall’Europa continentale si sono stanziate nell’Italia settentrionale, sull’arco alpino e in pianura, tra cui quelle dei Lingoni, dei Boi e dei Senoni nella zona del delta del Po e a sud verso l’Appennino Tosco-Romagnolo.
La religione ufficiale, il paganesimo di matrice greco-romana prima e il cristianesimo poi, fiorisce negli spazi urbani, mentre le valli montane e le zone periferiche resistono all’evangelizzazione mantenendo fortissimi legami con gli antichi culti celtici connessi alla ciclicità delle stagioni, aspetto fondamentale nel contesto rurale.
L’archetipo del Femminino Sacro, che si ritrova in tutti i culti delle popolazioni italiche preromane, si declina in un variegato pantheon di divinità femminili minori. Il paganesimo celtico ha una forte connotazione animista, secondo cui ogni fonte, ogni albero, ogni montagna, ogni cosa in natura è viva e ha uno spirito divino in essa immanente, che ne costituisce l’essenza e ne garantisce la protezione. Nel ciclo bretone la Dama del lago è la divinità femminile che vive nel lago e lo protegge, che dona ad Artù Excalibur e che accoglie sotto la sua protezione il giovane cavaliere Lancillotto rimasto orfano.
La Dama ha molti nomi (Viviana e Nimue sono i più frequenti) e normalmente ha caratteristiche benigne mentre, in altre versioni del mito, si sovrappone alla figura negativa della strega Morgana, che seduce e imprigiona Merlino. Ciò a significare l’ambiguità del divino, tipica del paganesimo, secondo cui ogni divinità ha una parte benevola e una parte malevola. Pertanto i Druidi, casta sacerdotale dei Celti, svolgono rituali segreti, sacrifici umani, per ottenere il favore e la benevolenza della divinità e placarne l’ira che si concretizza nella forza distruttrice della natura.
Un esempio di culto celtico animista è certamente quello da cui ha avuto origine la devozione mariana alla Madonna nera nel Santuario del Sacro Monte di Oropa, il quale domina tra i boschi a circa 1.000 metri di altitudine la città di Biella. L’immagine della Madonna nera, una stupenda statua lignea del XIII secolo conservata nella chiesa antica edificata a ridosso di un “masso erratico” (roccia lasciata sul posto da un ghiacciaio poi ritiratosi), rivela un precedente culto, in seguito “cristianizzato”, di una divinità femminile legata a quella roccia con caratteristiche tanto peculiari da essere scelta dalla popolazione locale come prodigio della natura degno di venerazione.
La Spada di Vigliano
Fine del II secolo a.C. Rive del Torrente Cervo presso l’attuale comune di Vigliano Biellese. Le acque del torrente scorrono impetuose dalla gola formata tra le Alpi biellesi per riversarsi nel fiume Sesia più a valle. Uno dei più forti e sanguinari guerrieri della tribù locale ritorna al villaggio sul proprio cavallo. Il volto è una maschera grottesca su cui il sangue dei nemici massacrati in battaglia si confonde con la tinta di colore blu con cui si è dipinto prima del combattimento.
Fotografia di Nicola Marchi:
Ugualmente il petto nudo e le brache sono infangate e coperte di sangue. Al collo del cavallo sono orrendamente appese teste umane recise e rapite come trofei di guerra, che andranno ad adornare la capanna in segno di vittoria e onore. La comunità lo accoglie festosa e gli occhi azzurri tra la chioma bionda della moglie, acconciata in lunghe trecce, è la più bella visione che si possa avere.
Il druido ringrazia la divinità del fiume che ha protetto la tribù dall’attacco dei nemici
Tutto il villaggio, donne, uomini e bambini si spingono sulle rive del Torrente Cervo. Il druido dalla lunga barba entra in acqua bagnando la tunica bianca. Leva le braccia al cielo pronunciando sottovoce formule segrete a lui solo intelligibili. Lo segue il grande guerriero. Egli snuda la spada, la solleva sulla propria testa, a tutti la mostra, splendida e lucente. A un cenno del sacerdote si inginocchia nel greto del torrente e adagia la spada sotto una roccia nell’acqua che scorre. L’offerta alla divinità è compiuta.
Il Guerriero, dipinto di Nicola Marchi (autore dell’articolo):
Quell’arma, la “spada di Vigliano”, è uno dei più pregiati ritrovamenti archeologici che arricchiscono le collezioni del Museo del territorio Biellese a Biella. Ovviamente non si sa come si sia svolto il rituale e in che occasione sia stato officiato, per cui la scena precedente è solo una ricostruzione verosimile utile a descrivere il contesto storico. La spada è stata ritrovata fortuitamente sotto un masso a Vigliano Biellese, in un luogo dove anticamente scorreva il Cervo.
Dalle analisi è emerso che la spada, deposta nel greto del torrente intenzionalmente nel corso di un rituale, era inserita in un fodero di legno di ontano, di cui sono rimaste tracce mineralizzate. La radiografia della lama ne ha svelato la forma del nucleo a spina di pesce, segno di una lavorazione a barre d’acciaio ritorte, tipica di area celtica a partire dal II secolo a.C. Si tratta di una tecnica di forgiatura che conferisce alla lama grande resistenza e flessibilità, tanto apprezzata da essere poi adottata dalle legioni romane nella produzione delle loro armi.
La Leggenda della Borda
Quando la natura positiva dell’entità soprannaturale femminile si eclissa cedendo il passo alla “metà oscura”, ecco che ha origine la leggenda nera della Borda. Nelle zone palustri attorno al delta del Po, dalle Valli di Comacchio sino a gran parte della Bassa emiliana, la civiltà contadina ha ereditato, e mantenuto viva nell’immaginario collettivo sino al secolo scorso, una figura a dir poco inquietante il cui nome presenta la radice celtica “bor”, connessa ai concetto di ambiente umido, bagnato dall’acqua e di vapore acqueo.
Borvo è il dio celtico della medicina che si diceva risiedesse nelle ribollenti acque termali e Bormio è, appunto, una nota stazione termale delle alpi lombarde. Infine il sostantivo bruma, sinonimo di nebbia, deriva dalla medesima radice. E proprio con la nebbia, al crepuscolo di un giorno d’autunno, o a notte fonda, la Borda appare a chiunque abbia l’ardire di avventurarsi troppo tra le paludi livide, tra effluvi malefici, sulle scivolose rive dei fiumi o vicino alle gore dei mulini.
È lo spettro di un’orribile vecchia bendata, dal volto butterato, ammantata di una veste lacera simile a un sudario ammuffito, che ghermisce con corde e lacci lo sventurato che la incontra, strangolandolo e portandolo con sé negli acquitrini da cui era giunta. Lo strangolamento rievocherebbe uno dei metodi usati dai druidi nei sacrifici umani. Le sue vittime predilette sono i bambini. La Borda è infatti lo spauracchio che nonni e genitori usavano per intimorire i bambini, evitando che si avvicinassero troppo all’acqua mettendosi in pericolo. Solo una leggenda per spaventare i bambini, adattissima al genere del gotico rurale del grande Eraldo Baldini. O forse no. Provate ad avventurarvi nella nebbia, di notte, tra le paludi e sfidare con arroganza l’ignoto e si vedrà chi riuscirà a tornare per raccontarlo.