Sedotte e abbandonate: pare che il destino delle eroine dell’antichità, almeno nella narrazione dei poeti e tragediografi greci e romani, sia quasi sempre questo. Gli uomini, gli eroi guerrieri, devono portare a termine le loro imprese e non possono trovare stabilità e riposo prima di averle compiute. L’amore dunque non può essere d’ostacolo a un destino superiore, solitamente deciso da una qualche divinità.
Gli esempi sono diversi, e tra i tanti eroi spicca Giasone, che regolarmente abbandona le principesse che seduce, fino a che la poco accomodante Medea gliela fa pagare cara.
Poi c’è Arianna, abbandonata dall’ingrato Teseo sull’isola di Nasso, dopo che lei l’aveva aiutato a uccidere il Minotauro, la mostruosa creatura che viveva a Creta in un labirinto. A lei non va poi così male, visto che alla fine sposa Dioniso, dio assai allegro e vitale.
Molto peggio va alla povera Didone, regina cartaginese nota per essere stata abbandonata dal troiano Enea, che ha un compito assai più importante che sposarsi con lei:
Fondare la città eterna, Roma
Didone secondo Andrea Mantegna
Lui stesso è, in un certo senso, una vittima (si sarebbe volentieri fermato a Cartagine con i troiani) del volere degli dei, che lo richiamano all’ordine e al senso del dovere, o ancor di più del Fato, una forza che non si può contrastare, ancora più potente di qualsiasi divinità. Tristemente confessa a Didone: “Italiam non sponte sequor” (L’Italia, costretto io la cerco).
Per nulla consolata da quelle parole, la sventurata decide di suicidarsi quando, dopo molte suppliche, capisce che la decisione dell’uomo tanto amato, per il quale ha tradito la memoria del defunto e sempre rimpianto marito, è irrevocabile. Si getta su una pira ardente, trafiggendosi anche con la spada di Enea, ma non prima di aver maledetto lui e tutti i suoi discendenti. E la maledizione funziona, visto che Cartagine sarà una delle più acerrime nemiche di Roma.
Rovine di Cartagine
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Eppure Didone, suicida per amore, non è certo una donna debole e indifesa, anzi. La sua vita, prima del fatidico incontro con Enea, racconta di una donna coraggiosa, decisa e intelligente, capace di guidare i suoi sudditi, quelli che le sono rimasti fedeli, nell’avventurosa ricerca di una nuova terra dove fondare una città sulla quale lei – donna e regina sola, priva del supporto di un uomo – governerà con saggezza.
La figura leggendaria di Didone, come fondatrice di Cartagine e vittima dell’amore infelice per Enea, viene cristallizzata da Virgilio nel suo poema Eneide.
In realtà Didone (che forse non è solo una figura leggendaria) viene ricordata da fonti greche e romane antecedenti: ne parla lo storico greco Timeo di Taormina, ai cui resoconti (quasi interamente perduti) si rifanno autori romani, come Pompeo Trogo, che nelle sue Storie Filippiche compendia una storia universale, e racconta anche della fondazione di Cartagine e della regina Didone.
Nella città fenicia di Tiro (nell’odierno Libano) regna Belo, che ha due figli, Didone appunto (chiamata anche Elissa), presumibilmente nata intorno all’839 a.C., e Pigmalione. Il sovrano vuole che alla sua morte entrambi i figli salgano al trono, ma Pigmalione non ci sta, vuole governare da solo e lasciare alla sorella solo un ruolo di facciata. Il nuovo re di Tiro non è solo avido di potere, ma anche di ricchezze, tanto da assassinare il più ricco di tutti i fenici, Sicheo, marito di Didone, che è sacerdote del dio Eracle. Proprio mentre il cognato è nel tempio a compiere sacrifici, Pigmalione lo uccide e occulta il suo corpo, sperando di impadronirsi dei tesori nascosti del sacerdote, mentre tiene buona la sorella raccontando falsità sulla scomparsa del marito. Ma l’anima senza pace dell’uomo, che non ha ricevuto una degna sepoltura, si palesa a Didone e la esorta a fuggire da Tiro, non prima di aver recuperato i tesori nascosti. Per far questo la regina mostra grande astuzia: finge di volersi trasferire nella reggia di Pigmalione e ordina, agli schiavi inviati dal fratello per aiutarla, di gettare in mare tutti i sacchi d’oro appartenuti al marito, come offerta in suo onore. In realtà quei sacchi contengono solo sabbia, ma quando Pigmalione se ne accorge, lei è già lontana, fuggita via con una nave e un buon seguito di sudditi fedeli.
Il gruppo di fuggiaschi arriva sulle coste nordafricane (nell’odierna Tunisia), passando per Cipro e Malta, dove Didone individua un luogo poco apprezzato dai locali, vicino al mare, che già la regina vede svilupparsi in uno strategico porto.
Rotte commerciali dei Fenici
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Agli esuli fenici occorre però il consenso del sovrano berbero che regna su quel territorio, Iarba, che non è proprio uno qualunque, visto che suo padre è il re degli dei, Giove.
Didone mostra ancora una volta la sua astuzia: chiede a Iarba un pezzo di terra che possa essere racchiusa in una pelle di bue.
Quanto deve aver riso Iarba alla richiesta della donna! Probabilmente però ha riso molto meno quando la regina ha iniziato a tagliare in sottilissime strisce la pelle di bue che, unite insieme, riescono a circoscrivere un’intera collina, il nucleo originale di Cartagine, la Città Nuova, che sarà poi anche chiamata Byrsa, ovvero “pelle”, in ricordo della stratagemma usato da Didone. La città cresce e prospera, tanto da far gola a Iarba, che pretende di sposare la regina fenicia, minacciando, in caso di rifiuto, di muovere guerra.
Peccato che Didone avesse giurato solennemente di rimanere fedele alla memoria del defunto marito e non può, né vuole, acconsentire alle nozze. Fa quindi preparare una pira funebre con la scusa di fare un ultimo solenne sacrificio in onore di Sicheo, prima del nuovo matrimonio, ma poi sale sulla pira e si trafigge con una spada. Secondo questo racconto la fondazione di Cartagine sarebbe avvenuta nell’814 a.C.
Questa narrazione ha delle basi storiche, come l’esistenza di un re di Tiro, il Pigmalione del racconto, identificato con Pumayyaton, che governò la città fenicia tra l’820 e il 774 a.C.
Lo storico Menandro di Efeso compila, nel II secondo secolo a.C., una lista dei re di Tiro (andata perduta, ma citata da Giuseppe Flavio) dove compaiono Belazerus (nonno di Pigmalione e Didone), lo stesso Pigmalione, del quale riferisce che “visse cinquantotto anni e regnò per quarantasette. Fu nel settimo anno del suo regno che sua sorella prese il volo e costruì la città di Cartagine in Libia”. Anche la data della probabile fondazione della città di Cartagine coincide con il racconto tramandato da Pompeo Trogo.
Se si prende per buona questa data, 814 a.C., è evidente che non fu possibile nessun incontro tra Didone ed Enea: la guerra di Troia, se mai ci fu così come è stata raccontata da Omero, dovrebbe aver avuto luogo in un periodo compreso tra il XIII e il XII secolo, molto molto prima della nascita di Didone.
Questa discrepanza temporale non può minimamente interessare Virgilio, che si rifà alla narrazione di Pompeo Trogo, ma intesse una trama volta a dare lustro alla fondazione di Roma e antenati di tutto rispetto al nuovo imperatore, Ottaviano Augusto, discendente direttamente da Enea che, tra l’altro, è figlio della dea Venere.
Virgilio dunque fa naufragare le navi di Enea, dirette verso l’Italia, sulle coste dove sorge Cartagine (chiamate Libia), ancora in costruzione. Un naufragio provocato dalla dispettosa Giunone, da sempre nemica dei troiani, che vuole impedire il realizzarsi di una profezia secondo la quale l’eroe meno affascinante della mitologia, Enea, sarebbe stato il fondatore di una città che avrebbe governato il mondo e distrutto la prediletta Cartagine.
Venere invoca l’aiuto di Giove, ma intanto si dà da fare perché Enea trovi una buona accoglienza nella città fenicia: chiede a Cupido di lanciare una delle sue frecce per far innamorare Didone di quel suo errabondo figlio.
Enea viene quindi ben accolto dalla regina, che gli chiede di raccontare la sua storia durante il banchetto allestito in suo onore.
Enea racconta la guerra di Troia a Didone
“Infandum regina iubes renovare dolorem” (Regina, tu mi costringi a rinnovare un dolore inesprimibile): inizia così la narrazione delle vicende finali della guerra di Troia, della morte dell’amata moglie Creusa, della fuga con il padre Anchise sulle spalle e il figlioletto Ascanio (chiamato anche Iulio, da cui discende la gens Iulia e quindi Giulio Cesare e Ottaviano Augusto).
Fuga di Enea da Troia
Quella freccia scoccata da Cupido giunge a segno: la regina si innamora di Enea, nonostante sia combattuta dalla promessa di eterna fedeltà alla memoria del marito. Ma neppure la decisa Didone può qualcosa contro la volontà degli dei: un temporale scoppiato all’improvviso durante una battuta di caccia, costringe la regina e l’eroe troiano a rifugiarsi in una grotta, dove consumano il loro amore.
Didone ed Enea , da un affresco romano a Pompei
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Anche nell’antichità il mondo è piccolo e la gente mormora, così la notizia di quell’amore arriva alle orecchie di Iarba, pretendente respinto di Didone, che si rivolge a suo padre, Giove, perché punisca quel torto da lui subito.
Il re degli dei manda immediatamente il suo messaggero, Mercurio, per riportare all’ordine Enea, campione di devozione, e ricordargli qual è la sua missione.
Mercurio ordina a Enea di lasciare Cartagine
Enea obbedisce, forse a malincuore o forse no, e scatena l’ira di Didone, che si sente tradita e ingannata. A nulla valgono prima le sue implorazioni e poi le minacce: lui scappa nottetempo sulla sua nave, spaventato dalle maledizioni della regina.
In un’alba tragica Enea si volta per l’ultima volta verso Cartagine, vede il fumo che si alza dalla pira funebre, e comprende: Didone è morta, ma lui deve compiere il suo destino.
La morte di Didone
Enea rincontrerà Didone, nel suo viaggio agli inferi, e vorrebbe chiederle scusa (!!), ma lei non lo degna di una sguardo e si allontana per raggiungere il marito, Sicheo.
La povera Didone poi finirà all’inferno, quello dantesco, nel girone dei lussuriosi (insieme a Paolo e Francesca), dove è condannata a essere travolta per l’eternità da un turbine, metafora della passione carnale.
Forse il vero Virgilio, non quello che accompagna Dante nel suo viaggio ultraterreno, non sarebbe stato d’accordo…