L’aspetto straordinario di ogni tradizione folkloristica è il suo essere così visceralmente connessa alla propria terra, al punto da creare un rapporto di assoluta dipendenza per cui l’una smarrisce il suo significato senza l’altra. Nulla può descrivere ciò che i luoghi natii suscitano nell’animo di ognuno come un canto popolare o una danza tipica, che rendono comprensibile il sentimento di appartenenza senza inutili giri di parole. Il Salento sarebbe una regione come un’altra se avesse da offrire solo un bel mare ed un clima mite quasi perenne. Il Salento è tale perché patria della pizzica, quella danza ancestrale accompagnata da tamburelli, fisarmoniche e violini, che nell’ultimo decennio ha conosciuto una fama quasi mondiale, pur rimanendo fedele alle proprie origini.
Da salentina, sono colpevole di non aver mai approfondito l’affascinante storia che si cela dietro al frastornante ritmo dei tamburelli, relegando questa musica popolare al puro e semplice intrattenimento delle mie nottate estive trascorse fra sagre e feste di paese. C’ è un aneddoto però, che non può lasciare indifferente nemmeno il più apatico degli osservatori, e che riguarda la nascita stessa della pizzica salentina: essa altro non è che un puro e semplice ‘esorcismo musicale‘. Destinatarie dello scongiuro ritmico erano quelle contadine leccesi (e, in minima parte, anche gli uomini) che, durante il lavoro nei campi, venivano morse dalle tarantole.
Fotografia di Carlo Raso condivisa con licenza CC BY-SA 2.0 via Flickr:
Il veleno, non mortale, le portava da lì a breve in uno stato di agitazione che sfociava in delirio e depressione. A questo punto, le ‘tarantate‘ cadevano in un torpore dal quale si usciva solo grazie al ritmo convulso dei tamburelli, trasformando i musicanti in veri e propri guaritori. Non appena i cimbalini cominciavano a tintinnare, eccole contorcersi in un ballo frenetico, gettandosi per terra o arrampicandosi sui muri. Queste donne perdevano letteralmente il contatto con la realtà, spogliandosi di ogni pudore pur di riconquistare il senno. Infatti, la tradizione narra che la danza della taranta fosse un modo per simulare l’uccisione dell’animale stesso: più ci si contorceva, più si portava il ragno allo sfinimento e alla morte, liberandosi dalla sua possessione.
Vedere queste donne vestite di un bianco verginale e coi lunghi capelli neri spettinati davanti al viso dimenarsi nervosamente come se la loro stessa vita dipendesse da quella danza, e il sangue macchiare i tamburelli dei musicisti impegnati a salvarle, dettando con il ritmo i loro movimenti, spogliava i testimoni di ogni possibile scetticismo, regalando loro una visione quasi mistica. Molti anziani ricordano di aver visto donne possedute riuscire a ballare sul bordo della pediera del letto, o addirittura strisciare sotto le gambe di una sedia.
Come si può contestar loro che no, non è scientificamente possibile una cosa del genere?
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La tradizione è anche questo: una leggenda che ha dell’incredibile, ma se a raccontartela è qualcuno che l’ha vissuta, ti rimane sempre un po’ il dubbio che anche la scienza possa piegarsi alla magia.
Le possedute venivano poi condotte alla piazza del paese, in modo che tutta la comunità partecipasse all’esorcismo: si creavano delle ronde intorno alle donne, in cui ognuno impugnava un tamburello dando vita ad un unico ritmo, in una sorta di rituale parossistico, che non terminava prima di alcune ore, non prima cioè di aver liberato le contadine da questo male.
Come ogni tradizione popolare, anche quella delle tarantate ormai non esiste più se non simulata dai balli e raccontata dai canti popolari della mia terra, che continuano a sopravvivere al susseguirsi delle generazioni e a dare vita alle ormai famose nottate estive salentine.