Sospeso per il piede ad una trave, oppure al ramo di un albero, il ginocchio che cade ripiegato perpendicolarmente all’altra gamba, a mò di croce, l’impiccato, l’appeso, o il traditore, è il dodicesimo degli arcani maggiori dei tarocchi. Raffigura un giovane dalle mani legate dietro la schiena, colto nel terribile momento della tortura o della gogna pubblica, il cui volto appare tuttavia inspiegabilmente sereno, segno forse dell’accettazione del proprio destino. Questo tarocco dalla simbologia ambigua e controversa ha un’origine tanto antica quanto sorprendente, che risale a quella che, in ambito artistico, è nota come “pittura d’infamia”.
La pittura d’infamia o infamante, fu una forma di arte nata in Italia, in area centrosettentrionale, in epoca comunale e rinascimentale, dalla curiosa funzione di pittura “punitiva” per i fuorilegge.
Era destinata ad additare al dileggio pubblico i criminali sfuggiti alla giustizia. La pittura d’infamia, commissionata dalle autorità locali, consisteva nel far affrescare i condannati in contumacia nei luoghi più visibili e significativi della città, mentre venivano sottoposti alle punizioni che sarebbero state loro inflitte se li avessero acciuffati. Una didascalia accompagnava le immagini, spesso esprimendo disprezzo per i fuggiaschi.
Emblematico fu il caso del capitano di ventura Muzio Attendolo, capostipite degli Sforza che, ritenuto colpevole di tradimento, fu fatto dipingere dal papa all’inizio del Quattrocento sulle porte della cinta muraria e sui ponti di Roma.
Fu tuttavia Firenze il luogo in cui la pittura d’infamia raggiunse i suoi livelli più alti, complici le turbolente vicende della città e l’assegnazione della loro esecuzione ad artisti di grande fama. Se lo scopo delle raffigurazioni era quello di rappresentare delle vere e proprie foto segnaletiche ante litteram, affinché chi si fosse macchiato di crimini potesse esser riconosciuto e assicurato alla giustizia, allora le pitture dovevano risultare il più verosimili e fedeli possibili alle sembianze del modello originario, ovvero il condannato, e la scelta per la loro esecuzione non poteva che ricadere su artisti di comprovata perizia.
A Sandro Botticelli, ad esempio, vennero commissionate le pitture infamanti destinate a ritrarre i partecipanti alla congiura dei Pazzi, che si erano sottratti alla sommaria giustizia popolare.
La congiura dei Pazzi del 1478, culminata con l’assassinio di Giuliano de’ Medici ed il ferimento di Lorenzo il Magnifico, ebbe una lunga scia di sanguinose conseguenze per i congiurati e i loro alleati. Testimone di eccezione dell’impiccagione di uno dei responsabili del tradimento ai danni della dinastia medicea fu Leonardo da Vinci, che assistette all’impiccagione di Bernardo Bandini Baroncelli – autore della prima stilettata mortale inferta a Giuliano – che si era rifugiato a Costantinopoli, da dove fu estradato a Firenze, per essere poi giustiziato con ancora i medesimi abiti di foggia turca che indossava al momento della cattura. Impressionante per il suo realismo è il disegno che ci ha lasciato Leonardo, in cui il cadavere del condannato è colto mentre penzola nel vuoto, nel suo elaborato ed esotico costume.
Nei secoli scorsi le esecuzioni pubbliche erano eventi allestiti in luoghi ben visibili e vicini ai centri del potere, per divenire un preciso monito per la popolazione, che si riuniva ad assistere alla fine dei malcapitati in grandi masse, combattute tra l’orrore e il fascino per il macabro.
Teatro prediletto, con le sue mura, delle pitture infamanti fiorentine fu la sede del capo della polizia locale, il Bargello, già dimora del Capitano del Popolo e successivamente del Podestà.
Fu sulla facciata del Bargello che Andrea del Castagno dipinse, dopo la battaglia di Anghiari del 1440, le sembianze dei fuggiaschi Albizi, Strozzi e Peruzzi impiccati, e lo fece tanto bene che ne derivò l’odiato nomignolo di “Andreino degli Impiccati”. Ad Andrea del Sarto, nel 1529, furono invece commissionati i ritratti d’infamia a seguito dell’Assedio di Firenze, che vide tre capitani tradire la Repubblica passando al nemico.
Narra il Vasari che il pittore, pur accettando l’incarico, memore dell’esperienza del suo collega, mise in giro la falsa voce che gli affreschi sarebbero stati eseguiti materialmente non da lui, bensì da un collaboratore della sua bottega.
Pochi sono gli esempi di pittura infamante giunti sino a noi, perché gli affreschi venivano spesso rimossi per la cattura o per il perdono concesso ai caduti un tempo in disgrazia.
Alla fine del XVI secolo la pittura infamante, con il suo fantasioso corredo di corpi impiccati e capovolti, colti in pose oscene o grottesche, scomparve. Era stata l’espressione di una cultura che rispondeva ad un codice medievale, in cui il pubblico disonore rappresentava la più grave forma di punizione, accanto a quella dell’essere bandito dalla propria città e a quella di vedere i propri beni confiscati. Un libro in inglese riguardo l’argomento è stato scritto dallo studioso Samuel Edgerton, “Pictures and Punishment”, ed è oggi disponibile in Italia su Amazon, mentre in italiano da Gherardo Ortalli “La Pittura infamante – Secoli XIII-XVI”.