La storia popolare (tanti gli studi in materia) frequentemente propone l’immagine del vescovo, o del valoroso condottiero, nell’atto di liberare vittoriosamente il suo popolo dal pericolo del drago o del biscione. Possiamo ricordare, tra i più eclatanti in Romagna, il drago di Forlì (ammansito a quattro mani, o più precisamente a doppio colpo di stola, da San Rufillo, vescovo di Forlimpopoli e da San Mercuriale, vescovo di Forlì), il drago di Imola (ammansito con incessanti preci e con la reliquia del velo di Maria da Basilio, vescovo di Imola) e il biscione di San Pancrazio (ucciso dal cavaliere Ghilardo). Questa liberazione altro non era che l’atto di bonifica di ampie zone paludose, ove l’acqua stagnante era fonte (purtroppo non dissetante) di continuo odore malsano e di ricorrenti epidemie di malaria. E collocandoci attorno al IV e V secolo d.C., la liberazione era anche l’invito alla conversione al cristianesimo in luogo di quei residui di paganesimo ancora largamente presenti nelle fasce della popolazione.
Quei residui che, nonostante la capillare diffusione del cristianesimo, sono continuati e continuano ancora oggi sotto le vesti delle credenze e delle superstizioni popolari, cariche di un fascino irresistibilmente ancestrale.
Ma con i residui del paganesimo, è il caso di dirlo, conviveva l’eresia ariana, che in terra ravennate aveva un numero di seguaci tali da dedicare, per mano di Teodorico, una cattedrale (dedicata alla Resurrezione del Signore) ed un battistero (ancora oggi detto degli Ariani), dunque strutture indipendenti e riservate alle loro celebrazioni. Le teorie di Ario – che negavano la divinità di Cristo, pur considerandolo superiore a tutti gli uomini – porteranno alla convocazione, per mano dell’imperatore Costantino, del primo Concilio Ecumenico della Chiesa, che si celebrò a Nicea nel 325 e che formalmente si pronunciò per l’eresia delle sue dottrine.
Fu questo l’inizio di una sempre più marcata divisione tra l’oriente e l’occidente.
Per restare nel territorio forlivese, lo studioso Cortesi ha individuato con precisione la località in cui avvenne la deposizione del drago, che da quel momento divenne creatura innocua. Si tratterebbe dell’attuale quartiere cittadino di Bussecchio, la cui etimologia deriverebbe proprio da Pozzecchio ovvero un pozzo in cui lo spaventoso drago sarebbe stato scaraventato.
Se non è possibile trovare un’esatta coincidenza, per lo meno anatomica, con il drago, la tradizione popolare ricorda – specie in ambito ravennate – la bisciabova, una sorta di serpente dalle dimensioni fuori dal comune e terribilmente pericoloso. In particolare, come scrive lo studioso CALVETTI nel volume Voci del dialetto romagnolo, si pensava che la bisciabova “fosse un serpente (besa), dotato d’una gran bocca, da cui il bambino poteva essere morso, succhiato, ingoiato, vomitato”. Non erano però escluso che il rettile in discorso avesse poteri straordinari.
Sembra che l’elemento acquatico possa accomunare il drago e la bisciabova, in quanto entrambi scelgono le acque come loro abituale dimora.
Da ultimo, non possiamo non ricordare l’usanza faentina del drago di pezza,come ricordata anche da BALDINI. Un drago sopra un’asta veniva portato in processione durante i riti delle rogazioni dal duomo della città manfreda sino al quartiere del Borgo, e successivamente distrutto dal popolo. Il rito venne poi vietato per ordine delle autorità, per il gran tumulto che si creava durante questa del tutto particolare processione.
Nella scienza araldica il drago è simbolo di vigilanza e di custodia fedele.