Nel XVIII secolo era di moda, tra gli aristocratici europei amanti delle arti e della cultura, vivere l’esperienza formativa del Gran Tour. Architetti, incisori, pittori, poeti, studiosi di statuaria e numismatica si spostavano verso l’Italia e tanti arrivavano fino in Sicilia, attratti dal passato glorioso del mondo classico, affascinati dai miti, desiderosi di arricchire le proprie conoscenze ed ammirare da vicino le opere di artisti rinascimentali e neoclassici.
Tra questi giovani artisti spiccavano nomi come l’abate umanista e archeologo Richard De Saint Non; lo scrittore Johan Wolfang Goethe; il precursore della museologia, incisore ed egittologo barone Vivant Denon; l’incisore e pittore francese Jean Pierre Houël; il pittore inglese Patrick Brydone; l’architetto e scrittore tedesco Friedrich Maximilian Hessemer, tutti curiosi di scoprire siti archeologici, assistere a fenomeni naturali ed acquistare opere e cimeli.
Itinerario del grand tour in Sicilia e a Malta di Vivant Denon
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Giunti nella città di Catania immortalarono nelle loro opere diversi scenari, e tra questi una fonte sopravvissuta all’eruzione del 1669, tanto da attirare l’attenzione dell’intero continente e tramandare sino ad oggi la fama della leggenda di Gammazita.
Era il 1282 e Gammazita, secondo il credo popolare catanese, era una bellissima e virtuosa ragazza corteggiata da un soldato francese, un droetto (Drouet), appartenente alla milizia della dominazione straniera, che pare si ostinasse a pretendere il suo amore, e non accettasse il rifiuto di lei già prossima alle nozze. Il giorno del suo matrimonio la giovane Gammazita si recò al pozzo in via Calogero a prendere l’acqua, e il soldato, che pare non la perdesse di vista, trovandola sola l’aggredì, ma la ragazza pur di non perdere la sua virtù preferì gettarsi nel pozzo. Un gesto ricordato in una canzone popolare catanese:
“Tu di lu cori sì la calamita
La mia palora non si cancia e muta;
Ti l’hè juratu e ti saroggiu zzita
Chista mè porta ppi l’autri è chiujuta:
Cala li manu si mi voi pi zzita,
l’ura di stari ‘nzemi ‘un è vinuta:
si cchiù mi tocchi, comu Gammazita,
Mi vidi ‘ntra lu puzzu sippilluta.”
(Tu del cuore sei la calamita/ La mia parola non cambia, né muta/ Ti ho giurato e ti sarò fidanzata/ Questa mia porta per gli altri è chiusa/ Non toccarmi se mi vuoi fidanzata/ L’ora di stare assieme non è ancora giunta:/se ancora mi tocchi, come Gammazita,/ Mi vedrai nel pozzo seppellita)
Il popolo riconobbe in lei un esempio di patriottismo e virtù tipico delle donne catanesi, e reagì inferocito alle galanterie rivolte da un francese ad una ragazza siciliana, ritenute oltraggiose in un ambiente nella quale le donne praticavano un costume di grande riservatezza, ereditato dall’influenza della dominazione musulmana.
I Vespri Siciliani di Domenico Morelli: tre figure femminili che fuggendo si sottraggono all’oltraggio delle truppe francesi
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Per individuare il Droetto, gli abitanti di Catania fecero pronunciare ad ogni passante la parola “ciciri” (ceci in dialetto), ricorrendo a questo “Shibboleth” (parola o termine dialettale con una fonologia complessa) per individuare lo straniero all’interno del quartiere e giustiziarlo. L’episodio scatenò così una delle rivolte della guerra del Vespro, che si ripercosse subito in tutta l’isola e a cui si legò la nobiltà locale (in realtà la rivolta iniziò nella città di Palermo, nel 1282, per l’affronto di un soldato francese – tale Drouet – a una nobildonna sposata e vendicata dal consorte).
Francesco Hayez – Drouet trafitto dalla spada viene ucciso, da I Vespri siciliani
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Per i catanesi i depositi di ferro che macchiavano di rosso le pareti ed il fondo del pozzo erano un’indiscutibile testimonianza delle tracce del sangue della giovane Gammazita ed il simbolo virtuoso del suo sacrificio.
L’ex pozzo di Gammazita
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Una seconda narrazione che si lega alla leggenda tradizionale e ricorrente nell’immaginario popolare, vuole che Gammazita fosse fidanzata col giovane Giordano, un servitore di Donna Macalda di Scaletta, vedova del barone Ficarra. La nobildonna, ammirata da siciliani e francesi per la sua bellezza, era perdutamente innamorata del suo paggio, e accecata dalla gelosia, decise di separare i due giovani servendosi di un’imboscata, ordita dal soldato francese De Saint Victor. Il complice francese trasse coll’inganno Gammazita alla fonte e tentò di disonorarla. Saputo del suicidio dell’amata, il servo Giordano pugnalò il soldato a morte, scatenando un tumultuoso scontro tra siciliani ed oppressori.
Macalda di Scaletta
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Un’altra storia, per spiegare il nome del pozzo, racconta di un uomo con una gamba rigida, che abitava in una grotta sita accanto alla fonte, il cui toponimo pare trovasse origine nella sua disabilità, detta in siciliano jamma zita, gamba zita.
È interessante anche l’incisione che, si dice, fosse vergata sull’antico muro che affianca il pozzo, due lettere dell’alfabeto greco: Gamma (γ) e Zeta (ζ), che purtroppo restano un mistero.
La fonte del pozzo che porta il nome di Gammazita era sita in uno dei due quartieri ebraici, denominato Judeca Suttana (o Iudeka inferiore), accanto alle mura edificate da Carlo V, vicino al Castello Ursino, in un’area commerciale costituita da concerie, macellerie e dalla pescheria, una zona paludosa per la presenza del fiume Amenano (oggi sotterraneo), che veniva adoperata anche per i bagni rituali delle donne.
I naviganti dell’epoca, per denominare un luogo tranquillo che permettesse d’imbarcare acqua potabile e rifornirsi della produzione agricola dell’entroterra usavano il termine arabo “Gawsit”, che sta ad indicare proprio “un luogo d’acqua dolce”, caratteristica del quartiere ebraico.
Nel 1618 don Francesco Lanario duca di Carpignano, venne nominato vicario a Catania, durante la dominazione del vicerè Don Francesco di Lemos, conte di Castro e duca di Taurisano. Tre anni dopo, come soprintendente generale delle fabbriche e delle fortificazioni cittadine ebbe il compito di creare un abbeveratoio sotto la cortina di Gammazita, ristoro per i cavalli in caso di attacchi nemici. In quell’occasione il vicario effettuò un’opera di restauro del pozzo, durante la quale le acque della fonte di Gammazita furono congiunte a quelle del fiume Amenano, arricchendo con una serie di fontane pubbliche la nuova strada lastricata che conduceva al mare.
Don Giacomo Gravina scrisse un componimento celebrativo (panegerico) in onore del duca di Carpignano, descrivendo l’unione delle due fonti in chiave mitologica, come due sfortunati amanti: la ninfa Gemma ed il pastore Amenano. La prima trasformata in una fonte da Plutone, invaghito di Gemma e geloso di Amenano, ed il pastore trasformato anch’egli in un corso d’acqua dolce dagli dei, che così, per quietare il suo animo disperato, diedero modo ad entrambi di riversarsi insieme sulla spiaggia oltre le mura di cinta.
Foce dell’Amenano nel 1905
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Ma il restauro non durò a lungo. Dopo 50 anni un disastro naturale si ripresentò devastando l’intera area urbana.
Nel 1669, tra il 25 febbraio e l’11 marzo, si susseguirono una serie di terremoti lungo il versante sud-orientale dell’Etna, in una zona compresa tra Pedara e Nicolosi, che causarono la formazione di diverse fratture eruttive. La colata lavica, dopo aver distrutto diversi paesi situati ai piedi del vulcano, superò a nord-ovest le mura fortificate della città di Catania. Il 17 aprile il fiume incandescente raggiunse il centro cittadino e la popolazione provò in tutti i modi ad arginarlo senza successo. In pochi giorni la lava circondò il Castello Ursino – fortezza costruita sotto Federico II di Svevia, che non vide alterata la sua struttura, ma perse la sua imponente posizione strategica militare – colmando il fossato e l’intero quartiere, seppellendo la fonte di Gammazita per oltre 10 metri, e infine per la prima volta la lava arrivò al mare, ampliando la costa di oltre 3 chilometri quadrati.
L’eruzione del 1669 in uno storico affresco di Giacinto Platania: sulla sinistra, il castello Ursino circondato dalla lava
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Solo a metà del XVIII secolo la fonte di Gammazita fu riportata alla luce dai cittadini, che con ogni mezzo scavarono fino a ricavare un pozzo artificiale all’interno di una voragine circondata dalle mura cinquecentesche, e sul fondo si accumulò ciò che rimaneva della fonte originaria.
Il Pozzo trovato sotto la lava del 1669 – Jean Louis Desprez
Immagine di Davide Mauro via Wikimedia Commons – licenza CC BY-SA 4.0
Nel 1957 il maestro scultore Domenico Maria Lazzaro, fondatore dell’Istituto Statale d’Arte, con la collaborazione dello scultore Domenico Tudisco, suo allievo, dedicò uno dei quattro candelabri artistici in bronzo che adornano piazza Università, proprio alla leggenda di Gammazita, arricchendo così la scenografia del centro urbano.
Oggi, all’interno di un quartiere di costruzione ottocentesca, è possibile accedere all’antica fonte scendendo i sessantadue gradini di una scala che conduce direttamente al pozzo, a 14 metri sotto il livello stradale, scoprendo così gli antichi resti della vecchia città sommersa dal manto lavico.
Malgrado l’umidità peggiori sempre più le condizioni, il pozzo di Gammazita, con la sua leggenda, resta per i catanesi il simbolo dell’etica siciliana indomabile e virtuosa.