Per sua natura l’essere umano è partato a temere il diverso, a fuggirlo e se necessario ad eliminarlo. Superare la sottile linea che divide il normale dall’anormale, il conosciuto dallo sconosciuto, scuote le pareti del castello delle nostre certezze fino a farne tremare le fondamenta, e il crollo sembra imminente. Questo ce lo insegna la storia.
Sarebbe sbagliato pensare a essa come un semplice compendio di guerre e lotte di potere, perché è molto di più. La storia è testimone diretta dell’agire umano, è lo specchio delle nostre azioni che, a volte, si rivelano deleterie per lo stesso genere umano.
Ghettizzare, escludere e reprimere: un sistema che si è ripetuto un’infinità di volte nel tempo, di generazione in generazione, e che si ripete ancor oggi. Un semplice schema che ha trovato forma anche nei manicomi.
Il concetto di manicomio quale struttura adibita al contenimento e al ricovero dei malati di mente risale al medioevo. I sistemi organizzativi sono mutati con il passare del tempo, ma l’idea alla base non è mai veramente cambiata fino a poco prima dell’epoca odierna.
Il “diverso” viene braccato, messo all’angolo e condannato a una vita misera; una vita, sì: per un malato mentale la condizione di “pazzo” è socialmente debilitante, la persona dietro al disturbo non esiste e di conseguenza la sua esistenza termina all’interno delle mura manicomiali.
In questi posti era possibile trovare di tutto: uomini, donne e bambini traumatizzati, sofferenti, rimasti intrappolati in una realtà che sembra non appartenergli e dalla quale si dissociano nei modi più disparati. Ma non solo. I manicomi erano luoghi costruiti sulle ossa degli indigenti, non era necessario essere malato per entrarvi.
Persone sole, povere, alcolizzate, figli rinnegati ma anche orfani abbandonati che sono poi cresciuti lì. Il manicomio era spesso questo: un deposito di resti, una discarica degli scarti della società. Miserie e disgrazie di questi alienati che oggi vediamo nei film sono soltanto una parte di ciò che realmente era la loro vita.
È il 1904 e in Italia viene promulgata la legge Giolitti, la prima normativa italiana riguardante i manicomi, che riconosce la funzione pubblica della psichiatria ed ufficializza il legame tra malattia mentale e pericolosità.
La salute mentale diventa una questione di stato e il numero dei pazienti aumenta: oltre i soggetti più fragili vengono internati anche dissidenti politici e chi dà pubblico scandalo. Una volta varcata la soglia di quel grande edificio la vita come la si conosce termina.
Il mondo del paziente viene rinchiuso tra quelle quattro mura dove tutto perde colore, il tempo si appiattisce, le ore si dilatano e il giorno e la notte non sono più distinguibili.
Vivi ma in realtà morti dentro, chiusi nel girone infernale della propria mente sedata dall’elettroshock, pratica diventata comune e sostenuta da molti psichiatri dell’epoca per “calmare” i deliri del paziente. Avviene poi il boom degli psicofarmaci, utilizzati a sproposito per renderlo ancor più innocuo.
Definito da molti come un carcere, da tanti altri un vero e proprio lager dove la vita del paziente era più simile a quella di un condannato a morte poiché recluso, solo e senza aiuto.
Sono questi i comuni denominatori delle tante storie di persone che questa realtà l’hanno vissuta sulla propria pelle e che hanno avuto il coraggio di riaprire quella porta e raccontare il dolore subito.
Nel manicomio non esistono limiti di età: bambini e adolescenti vengono trattati allo stesso modo degli adulti. Abbandonati dalle proprie famiglie e tirati su come si può nel più tremendo dei posti; molti non sopravvivono, altri invece crescono, privati dell’infanzia ormai perduta. Non esiste altro per quei bambini, solo dolore e oscurità, nessun riso scherzoso ma soltanto urla di terrore e sofferenza, niente giochi, soltanto pasticche da ingurgitare e scosse da subire.
“Indemoniate, ninfomani e agitate”: vengono definite così tutte le donne disturbate o più semplicemente non conformi al ruolo impostogli dalla società del tempo. “Disadattate”, e quindi pazze e senza pudore.
Così come loro, anche gli uomini venivano internati nei loro reparti, come vecchie scarpe usurate, a prender polvere. Nel manicomio viene anestetizzata e repressa la libertà di pensiero: le proteste di anarchici, antifascisti e dissidenti vengono sedate eliminando l’individualità dell’internato.
La follia di questo schema viene rotta da qualcuno che non era disposto ad accettare le condizioni di vita di quelli che non considerava carcerati ma pazienti. Era Franco Basaglia, psichiatra e neurologo, un dottore ma prima di tutto un uomo, nel vero senso della parola.

Basaglia rivoluziona il campo della psichiatria partendo da un concetto basilare: la malattia mentale è parte della vita del paziente e questi può vivere nonostante essa.
Per fare ciò, sostiene Basaglia, è necessario distruggere il manicomio, trovare una soluzione alternativa al trattamento del paziente, che va considerato come tale e non come cavia oppure oggetto di discriminazione ed esclusione.
Con i suoi metodi il dottore riesce ad ottenere risultati positivi una volta diventato direttore del manicomio di Gorizia durante gli anni ’60. È qui che può applicare il suo schema: curare e non segregare; non sottoporre il malato mentale ad uno stato di sudditanza nei confronti degli operatori sanitari (medici, infermieri) bensì trattarlo come un paziente con possibilità di miglioramento.
Basaglia è parte integrante delle istituzioni ed è proprio dal suo interno che riesce a scardinarne rigidi preconcetti e diffondere una nuova consapevolezza, anche grazie alla moglie Franca Ongaro, attivista e politica, con la quale scrive, redige e traduce testi che saranno delle colonne riguardo la materia psichiatrica.
In un periodo in cui anche in Italia la rivoluzione culturale degli anni ’60 porta migliaia di persone in piazza, Basaglia dà inizio a una nuova riforma: il vento cambia e l’aria nuova arriva anche a Roma, precisamente nel manicomio di Santa Maria della Pietà.
È qui che nel 1974 gli infermieri si ribellano ai loro superiori e dimostrano coscienza delle condizioni disumane che essi, seppur dall’altro lato della barricata, vivono ogni giorno assieme ai “pazzi”. Gli operatori distruggono gli strumenti di controllo e tagliano le reti divisorie del manicomio lasciando i malati liberi di muoversi e di pranzare tutti insieme, uomini e donne, per la prima volta.

Nel 1978 il governo approva la legge 180, chiamata a livello popolare Legge Basaglia, in onore dell’uomo che ha rivoluzionato le teorie psichiatriche precedenti e che è stato il simbolo del nuovo corso della psichiatria moderna italiana. La norma prevede la chiusura dei manicomi e regolamenta il trattamento sanitario obbligatorio, istituendo i servizi di igiene mentale pubblici.
Basaglia, intervistato da Maurizio Costanzo, disse:
“Non è importante tanto il fatto che in futuro ci siano o meno manicomi e cliniche chiuse, è importante che noi adesso abbiamo provato che si può fare diversamente, ora sappiamo che c’è un altro modo di affrontare la questione; anche senza la costrizione“.
La legge, per quanto rivoluzionaria, è comunque difficile da applicare perché entra in contrasto con una realtà impreparata a livello organizzativo, economico e sociale. Di fronte a questa situazione Basaglia afferma la necessità di “Violentare la società” perché è essenziale che la comunità dei sani accetti la presenza di coloro che hanno della malattie mentali, più o meno gravi.
La legge 180 prevede che l’assistenza al malato venga sostenuta dalla regione d’appartenenza ma come (purtroppo) previsto, il Servizio Sanitario Nazionale non è sufficientemente preparato a sostenere spese tali da assicurare un supporto completo, e di conseguenza diventa difficile applicare la normativa.
Molte famiglie si trovano in difficoltà a gestire il malato, e d’altra parte è il malato stesso a non esser pronto al cambiamento: chi ha passato la sua intera vita in manicomio viene catapultato in una realtà sconosciuta e molti preferiscono rimanere fra quelle strette e vecchie mura che non nel mondo reale, libero ma terrificante.
Gli anni passano e gli ultimi manicomi chiudono i battenti negli anni ’90. Di alcuni rimangono vecchi ruderi polverosi, con finestre asserragliate dalle sbarre coperte di ruggine, lunghi corridoi vuoti, stanze sporche, piene di vestiti logori e documenti ingialliti appartenenti ai malati che popolavano queste necropoli.
Non serve molta immaginazione per riuscire a vedere i fantasmi di queste persone aleggiare da un padiglione all’altro, e non occorre nemmeno un grande sforzo per sentire i silenzi rotti dalle loro stesse urla.
Grazie al rivoluzionario lavoro di Franco Basaglia, di sua moglie e di molte altre persone i manicomi sono stati definitivamente chiusi, ma per molte persone la vita non è realmente cambiata; c’è chi con la propria mente è rimasto ancora lì, traumatizzato, troppo debole per andare avanti, estraniato ed escluso dalla società.
Come immaginato dallo stesso Basaglia, la legge 180 è soltanto l’inizio di un lungo percorso verso la cura del paziente e la sua integrazione nella società. Oggi esistono i Dipartimenti di salute mentale delle Asl, dotati di un Centro di salute mentale (Csm), di centri diurni, comunità terapeutiche e Servizi psichiatrici di diagnosi e cura (Spdc), ossia i reparti psichiatrici degli ospedali.
Il progresso avviato dal dottor Basaglia e dai suoi sostenitori ha portato a sviluppare una profonda consapevolezza; sono tante le persone impegnate nella cura di chi soffre mentalmente, dedite ad ascoltarle e comprenderle.
Altrettanto numerosi sono coloro che oggi soffrono di disturbi mentali: adulti e giovani che da soli non riescono ad affrontare i propri demoni; potrebbero essere persone che conosciamo o che semplicemente ci passano accanto per la strada.
Chiunque può soffrire, a tutti è permesso di crollare, ognuno ha il diritto di essere assistito e aiutato. Ciò non può avvenire soltanto attraverso medici e sanitari, è necessario l’intervento delle istituzioni e di conseguenza della società stessa, perché soltanto attraverso l’accettazione possiamo realizzare il vero cambiamento.
“La follia è una condizione umana. In noi la follia esiste ed è presente come lo è la ragione. Il problema è che la società, per dirsi civile, dovrebbe accettare tanto la ragione quanto la follia”. Franco Basaglia.
Bibliografia
Matti per sempre
Ianni-1-2019.pdf (nomos-leattualitaneldiritto.it)
La storia degli infermieri ribellatisi nel manicomio più grande d’Europa (vice.com)
Franco Basaglia e la legge 180 | Storia | Rai Cultura.