Nel 1830 Katsushika Hokusai ha quasi settant’anni. É ancora considerato un grande artista, un personaggio eccentrico e geniale che, in più di mezzo secolo, ha letteralmente fatto scuola tra gli illustratori e i disegnatori suoi contemporanei. Ma ne viene da un biennio profondamente desolante, e non solo a causa degli acciacchi della vecchiaia.

Fino a poco tempo prima ha ospitato in casa il problematico figlio della sua primogenita Omiyo, un giovane ambizioso e vizioso che ha finito per prosciugargli quasi tutti i risparmi, fatto che lo ha obbligato a cambiare città costringendolo a risiedervi sotto mentite spoglie, per sfuggire ai numerosi creditori che gli stanno dando la caccia.
[…] “e poiché ho sprecato un intero anno grazie al mio ostinato nipote, in quello nuovo non ho un soldo da spendere, né vestiti da indossare, né alcunché per mangiare!”
E come se non fosse già abbastanza la sua seconda moglie, morta nel 1828, l’aveva lasciato in balìa di un vuoto esistenziale gigantesco. La voglia di lavorare, quella almeno gli era rimasta. Deciso a riprendersi in mano la sua vita, scrive numerose lettere al suo fidato editore Nishimuraya Yohachi, a cui presenta l’idea per un progetto che ha in mente già dal 1823, che riguarda una serie di disegni raffiguranti diverse vedute del monte Fuji, a simboleggiare le diverse “stagioni dell’anima”. L’idea prende forma velocemente, confluendo in una delle opere più iconiche della storia dell’arte moderna.
Ukiyo-e (lettaralmente “Mondo fluttuante”) è un termine di matrice buddhista. Scritto con kanji differenti (憂き世) si può tradurre come “Mondo di sofferenza” che è uno dei concetti chiave della filosofia sopra citata ed è collegato al ciclo, claustrofobico, di morte-rinascita non proprio caro ai buddhisti. Ma durante tutto il periodo Edo questo termine assume una connotazione totalmente diversa: è così che “Mondo Fluttuante” diventa sinonimo di “Vita immersa nel piacere”, a rovesciare completamente quel significato negativo che gli era stato assegnato in precedenza, e diventa un vero e proprio movimento culturale che porta il nome di Ukiyo-e.

Si diffonde intorno al XVII secolo, contestualmente alla distribuzione degli ehon (libri illustrati) il cui contenuto comprende tavole disegnate a mano e poi stampate su carta utilizzando matrici in legno. E acquisiscono immediatamente una grandissima popolarità, tanto che iniziano a essere venduti non solo come testi illustrati ma anche come poster per gli spettacoli di kabuki, uno dei generi teatrali più in voga del periodo.
E a proposito di teatro, particolarmente interessante è la figura dell’attore Sharaku, sulla cui identità le supposizioni si sprecano: c’è infatti chi crede sia uno pseudonimo utilizzato da un collettivo di artisti , chi invece sostiene che dietro al suo nome si celi niente-popo-di-meno-che lo stesso maestro Hokusai. Ad ogni modo, è una delle leggende più strettamente legate al movimento.

Il contesto in cui questo nuovo fenomeno si sviluppa è quello di una società rinchiusa in un forte isolamento internazionale, costituita da una gerarchia culturalmente esasperante, tanto da generare una netta suddivisione in classi: al di sopra di tutte vi è l’imperatore, che si tiene ben distante dagli affari politici e preferisce restare chiuso, assieme alla sua corte, fra le mura dorate del fastoso palazzo di Edo (l’attuale Tokyo); poi ci sono i samurai capitanati dalla figura del potente shogun, impossibilitati a svolgere una qualsiasi attività da comuni mortali in quanto protagonisti indiscussi di un’élite che non può esprimersi in altro modo se non con una “sacra” katana tra le mani; infine le due classi considerate “inferiori”, i chonin, caratterizzate da una forte connotazione urbana e di cui fanno parte contadini, mercanti, artigiani e quelli che vivono di rendita dei propri terreni. In pratica la maggior parte della popolazione, quella che abita nei rioni più “coloriti” della città.

Avrete notato che, in questa veloce ma concisa descrizione, non ho nominato le donne. Sì perché, seppur indispensabili in un’economia basata quasi esclusivamente su un sistema di trasmissione di mestieri che avviene per discendenza, esse sono in realtà relegate ai margini della società. All’interno dell’ambiente casalingo è il capo-famiglia l’unico leader indiscusso, il solo responsabile dei beni e delle azioni di tutti quanti. Mentre le donne si trovano in una condizione di totale subalternità dovendo assecondare, whatever happens, il simpatico principio della “triplice sottomissione” (sanju): ai genitori da figlie, al marito da spose, al figlio maggiore quando questi fosse diventato capo famiglia/ai secondogeniti e compagnia cantante da madre (della serie mai una gioia!).
Converrete sul fatto che la possibilità di diventare una “donna di piacere”, seppur mal vista, non doveva essere una prospettiva poco allettante per queste giovani; tanto più se la capacità di regalare ore liete al fortunato di turno, negli ambienti underground rappresenta un lustro, una preziosa arte da tramandare alle generazioni a seguire.

È soprattutto per la gente del popolo che si sviluppa l’Ukiyo, un genere rivoluzionario che è diametralmente opposto a quel linguaggio colto, e un po’ snob, che aveva caratterizzato la cosiddetta “scuola realista” fino a quel momento. Esso viene distribuito attraverso un’enorme quantità di stampe xilografiche impresse, come abbiamo detto, su matrici in legno, tutte incentrate sul concetto di “mondo fluttuante” inteso come universo del sentire finalizzato al piacere.
I soggetti principali di queste opere sono soprattutto scenari e personaggi presi dai quartieri dei divertimenti e della perdizione: da cortigiane, lottatori di sumo e attori di teatro intenti a svolgere le loro attività quotidiane, a paesaggi suggestivi e animali affascinanti che suscitano sensazioni profonde e, talvolta, inconfessabili.

Qui anche erotismo e sessualità esplicita trovano il modo di palesarsi con vigore, esprimendo senza remore quei valori propri di una società di cui sono parte attivissima. Conosciute principalmente col nome di shunga – ovvero “immagini di primavera” – le stampe erotiche rappresentano una testimonianza indispensabile per comprendere la portata del fenomeno dello Ukiyo-e sulla società del tempo, poiché documentano non soltanto l’evoluzione della concezione di pudore, ma soprattutto una trasformazione stilistica: da una parte la consapevolezza, crescente, dell’eros; dall’altra il passaggio a un modo di disegnare completamente nuovo, contraddistinto da linee nervose che tracciano un universo sessuale quasi animalesco, molto più vicino al concetto di istinto che a quello di ragione. Più genuino insomma, in fondo in certe situazioni a cosa serve formalizzarsi?
Con la diffusione dell’Ukiyo-e prende vita un processo standardizzato di ideazione, realizzazione e produzione in serie, pilotato da specifiche figure professionali che lavorano come una vera e propria catena di montaggio degna delle migliori produzioni industriali contemporanee – disegnatori, intagliatori, stampatori – la cui sperimentazione, nel corso dei decenni, perfezionerà il genere che arriverà a trattare, soprattutto nei primi anni dell’Ottocento, quella moltitudine di temi oggi considerati i capisaldi della storia dell’arte giapponese.

Un genere che racconta storie di attori e geishe, che dispensa consigli da adottare tra le lenzuola ma che strizza l’occhio al buddismo e al taoismo, ed è anche capace di interrogarsi sul senso stesso della vita.
Hokusai in particolare rappresenta una vera rivoluzione, essendo anche il primo a trasferire la propria passione per la pittura occidentale nella pittura tradizionale giapponese che esprime in una cospicua serie di disegni a tema grandi onde (in tutto se ne conteranno circa una quarantina).
Vista da vicino, La Grande Onda di Kanagawa – titolo originale Kanagawa Okinami Ura 神奈川沖浪裏 – altro non è che una stampa dalle dimensioni sorprendentemente modeste: 26,5 x 39 cm. Può sembrare un quadretto da comodino ma il suo contenuto, vi assicuro, è una suggestione così potente da riuscire a descrivere alla perfezione tutta la perdizione emotiva di fronte all’imponderabile: la minaccia di un pericolo inevitabile che impedisce a un essere vulnerabile di trovare un posto sicuro in cui rifugiarsi. A testimonianza di come molte delle dinamiche del comportamento umano, siano poi sempre le stesse. Del fatto che siamo tutti uguali di fronte allo smarrimento.
E la perfezione di alcuni particolari del disegno, resi ancora più straordinari dalla bellezza del pigmento principale, il celebre “blu di Prussia” – il preferito di Hokusai – rende il tutto ancora più suggestivo.

I kanji che l’artista sceglie di utilizzare per rinominare quella sua particolare visione, non sono casuali: il primo, nami 波 è semplicemente “onda”; il secondo, ura 裏, esprime un insieme di concetti che hanno a che fare con ciò che è sconosciuto alla vista, con il lato oscuro dell’esistenza. Quel mare oscuro e minaccioso rappresenta la perfetta sintesi dell’Ukiyo-e che, se da un lato evoca un profondo senso di impotenza, dall’altro esprime tutto il desiderio – o la necessità? – di non opporsi eroicamente alla paura ma di arrendersi ad essa, lasciandola andare “come una zucca galleggiante sulla corrente di un fiume” (Ukiyo Monogatari – Racconti del mondo fluttuante, 1661).
Anche la scelta di suddividere l’opera in diversi strati di prospettiva, non è finalizzata al solo scopo di rendere l’idea di profondità: è necessaria per quel particolare gioco di immagini grazie al quale, guardassimo soltanto le linee essenziali del disegno, vedremmo che mare e cielo prendono le sembianze di un grande simbolo dello Yin e Yang, onnipresente nella tradizione taoista.
Lo stesso che esprime la teoria secondo cui ciascuno di noi sarebbe abitato da un dualismo costante caratterizzato, in egual misura, da ombre e luci, da razionalità e istinto, in un equilibrio che è tutto fuorché precario. Concetto che, riuscissimo a comprendere sul serio, ci darebbe le armi per contribuire all’estinzione di un’intera categoria di strizzacervelli, ma ci permetterebbe anche di fare del gran bene a noi stessi e al nostro portafogli (così, giusto per!).

Ad ogni modo, Hokusai e la sua opera più celebre avranno un enorme successo, e l’uomo vivrà i successivi vent’anni in serenità, lavorando e traendo profitto dalle sue opere fino alla fine dei suoi giorni. Abbandonerà il mondo terreno alla veneranda età di 90 anni, portandosi dietro un unico rimpianto: quello di non aver potuto vivere ancora un pò per riuscire a diventare un pittore completo. Si riteneva infatti non troppo soddisfatto di quelle circa trentamila opere sparse per il Giappone, e non solo!
Una cosa è certa: il pittore ha saputo restituire il ritratto di una cultura in grado di coltivare e catturare la bellezza in ogni sua forma. E lo ha fatto descrivendo i labirinti dell’anima, ma anche esplorando l’universo dei piaceri più effimeri. Gli stessi che, se ci pensate, inquietano l’uomo sin dall’inizio dei tempi. Ma alleviano anche il dolore, medicando molte delle ferite dello spirito.