La Grande Fuga: la drammatica evasione da un campo di prigionia tedesco

Lo Stalag Luft III, campo di prigionia tedesco per tutti i militari delle forze aeronautiche alleate, non è, tutto sommato, un inferno. Niente a che vedere con i famigerati campi di sterminio per ebrei, dissidenti, rom e omosessuali.

Lì, allo Stalag Luft III, tutto il personale di guardia, il direttore e il suo vice, sono membri della Luftwaffe (ufficiali troppo anziani per combattere o giovani troppo provati dalla guerra) che non possono essere paragonati agli aguzzini nazisti delle SS che operano negli altri campi di concentramento, o di prigionia.

Il vice comandante, Gustav Simoleit, è un uomo colto, un ex professore dai mille interessi in grado di parlare molte lingue, che addirittura, andando contro le regole, tributa gli onori militari ai soldati che muoiono nel campo, perfino a un pilota di origini ebree.

Friedrich Wilhelm von Lindeiner-Wildau, comandante dello Stalag Luft III

Certo, lo Stalag Luft III non è un Grand Hotel: in ogni stanza di meno di 10 metri quadrati dormono in quindici, in cinque letti a castello a tre piani, ma in compenso il cibo non è poi così scarso, e le razioni alimentari fornite dai tedeschi vengono integrate da altre fornite dalla Croce Rossa americana e anche dai pacchi che possono ricevere i prigionieri.
Allo Stalag c’è una biblioteca, un teatro (i prigionieri allestiscono due spettacoli alla settimana), una radio interna, e poi campi sportivi per pallavolo, basket, boxe, scherma, ping pong, e perfino una piscina, che però può essere usata di rado.

Non per questo i militari detenuti si sentono meno prigionieri

La sorveglianza è strettissima, e il luogo dove far sorgere il campo è stato scelto proprio per rendere più difficili eventuali evasioni. Il terreno è sabbioso, e scavare tunnel è oltremodo complicato, mentre in superficie è di un bel colore giallo brillante: ogni rimessa di terra scavata sarebbe saltata subito all’occhio.

Plastico di uno dei compound dello Stalag Luft III, usato per il film La Grande Fuga

Immagine condivisa via Wikipedia – licenza CC BY-SA 3.0

Per maggior sicurezza, i tedeschi costruiscono le baracche sollevate di 60 centimetri dal suolo, così possono controllare meglio eventuali scavi, e distribuiscono dei microfoni lungo il confine del campo per rilevare ogni rumore sospetto. Provano anche a infiltrare delle spie tra i prigionieri, che ovviamente non si fidano di nessuno e spesso le smascherano.

Dal canto loro, i detenuti tengono meticolosamente traccia di ogni movimento delle guardie, in un registro che in un’occasione viene addirittura usato dal comandante del campo per punire due sorveglianti che si sono allontanati senza permesso.

Nonostante tutte le difficoltà e la stretta sorveglianza, nell’ottobre del 1943, nel compound Est, tre prigionieri riescono ad evadere grazie a una sorta di Cavallo di Troia, in realtà un cavallo da ginnastica che copre l’accesso a un tunnel, scavato nell’arco di tre mesi, mentre i compagni si producono in salti ed esercizi vari per confondere i microfoni. Quella fuga si conclude bene, e i tre non saranno più ripresi.

Michael Codner, scappato dallo Stalag Luft III a ottobre del ’43

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Molto più complicata e drammatica è la cosiddetta Grande Fuga, progettata da un pilota britannico, Roger Bushell, già evaso da altri due campi di prigionia, e per questo spedito allo Stalag Luft III, dal quale è (quasi) impossibile scappare.

Roger Bushell

Immagine via Wikipedia/Giusto Uso

Bushell, nome in codice Big X, detenuto nel Compound Nord, pensa in grande: non vuole organizzare una fuga per pochi, progetta invece di far evadere circa duecento prigionieri, con l’avallo dell’ufficiale britannico più alto grado, il comandante Herbert Massey, che ha una gamba ferita e non può pensare di scappare.

Bushell concepisce il progetto già a marzo del ’43, e infiamma gli animi dei colleghi con parole ben studiate: “Tutti qui in questa stanza vivono in un tempo in prestito. Per diritto dovremmo essere tutti morti! L’unica ragione per cui Dio ci ha regalato questa ulteriore razione di vita è che possiamo rendere la vita un inferno per gli Unni… Non sono ammessi tunnel per le imprese singole. Verranno scavati tre tunnel lunghi, profondi e sanguinanti: Tom, Dick e Harry. Uno riuscirà!”

Ecco il piano di Bushell: scavare tre tunnel perché almeno uno possa essere finito. La parola “tunnel” è rigorosamente vietata, ogni galleria deve essere chiamata con il nome proprio, pena la Corte Marziale per chi la pronuncia.

Tom viene individuato dai tedeschi, Dick viene abbandonato perché andrebbe a sbucare in un punto che, nel corso dei lavori, viene incluso nel perimetro del campo. Non è comunque inutile, perché i prigionieri lo useranno per rovesciarci la terra, e anche come officina e nascondiglio per documenti e abiti civili.

Il punto d’inizio di Harry

Immagine di vorwerk via Wikimedia Commons – licenza CC BY-SA 3.0

Harry, che ha l’imbocco all’interno della baracca 104, sotto una stufa tenuta sempre accesa, sbuca nei boschi ai margini nord del campo, corre a nove metri di profondità ed è largo poco più di mezzo metro.

Diagramma del tunnel Harry

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I tedeschi non si accorgono che i prigionieri usano il legno dei letti e dei pacchi viveri per contenere le pareti della galleria, le lattine del latte in polvere per costruirsi strumenti e lampade di fortuna, il grasso che galleggia sulle zuppe per alimentarle. Non si accorgono nemmeno che i prigionieri costruiscono una pompa per canalizzare aria fresca nel tunnel. Chi scava si nasconde addosso la sabbia, in mutandoni lunghi, nelle tasche, nei calzini, poi la mescola alla terra che possono legittimamente rigirare là dove hanno un orto da coltivare.

“Harry”

Immagine di pubblico dominio via Wikipedia

In realtà i tedeschi avvertono che c’è nell’aria qualcosa che non quadra, trasferiscono una ventina di prigionieri in un altro campo, ma non arrivano a realizzare cosa stia veramente succedendo.

Ci sono poi guardie tedesche che collaborano con i prigionieri, procurano abiti civili, orari ferroviari e documenti che possono essere falsificati. In cambio ottengono sigarette e cioccolata.

A settembre del ’43 i tedeschi scoprono Tom, e i prigionieri decidono di interrompere per un po’ lo scavo di Harry, che riprende a gennaio del ’44. Bushell capisce che il tempo stringe quando, sempre all’inizio dell’anno, la Gestapo si presenta allo Stalag e chiede ulteriori misure di sicurezza.

Il punto di uscita di Harry

Immagine di vorwerk via Wikipedia – licenza CC BY-SA 3.0

La fuga, prevista per giugno, viene anticipata a marzo. Duecento uomini, scelti tra quelli che avrebbero avuto più probabilità di cavarsela – per esperienza in altre evasioni, perché sanno parlare tedesco, etc. – aspettano con ansia una notte senza luna e si preparano alla fuga.

La breve distanza tra la recinzione del campo e l’uscita di Harry

Immagine di vorwerk via Wikipedia – licenza CC BY-SA 3.0

E’ insolitamente freddo quella notte tra il 24 e il 25 marzo, il ghiaccio ostruisce la botola d’uscita e ci vorrà oltre un’ora di tempo prezioso per liberarla. Il primo prigioniero ad emergere dal tunnel realizza che l’uscita è troppo vicina alle postazioni di guardia, e strisciare sul terreno è escluso, perché la scia lasciata sulla neve sarebbe troppo evidente.

Il piano di fuga rallenta inevitabilmente: in un’ora possono uscire dodici persone anziché le sessanta previste. Poi ci si mette anche un raid aereo, che toglie luce a tutto il campo, e quindi anche al tunnel, che all’incirca all’una patisce dei crolli e deve essere ripristinato.

Sono le 4.55 del 25 quando una guardia vede un prigioniero tra gli alberi, al di là del filo spinato. E’ Leonard Trent, che si arrende subito, dando modo agli altri di allontanarsi. I tedeschi non sanno da dove parta il tunnel, e iniziano a perquisire le baracche. L’imbocco è talmente ben mimetizzato che l’unico modo per trovarlo è ripercorrerlo al contrario: un guardia tedesca si infila nel tunnel, arriva fino alla fine ma non può venirne fuori, perché l’uscita è bloccata. Solo le sue grida di aiuto convincono i prigionieri a svelare l’accesso.

“Harry”

Immagine di Jacques Lahitte via Wikimedia Commons – licenza CC BY 3.0

Hitler è furibondo quando viene informato che 76 prigionieri di guerra sono fuggiti, portando via da sotto il naso alle sue guardie, tavoli, sedie, panche, materassi, coperte, lampade, materiale elettrico, posate e molto altro ancora. La sua furia si scatena con gli operai tedeschi che avevano lasciato incustodito del filo elettrico e poi non avevano fatto parola della sua sparizione.

Sono i primi a essere giustiziati dalla Gestapo

Non va molto meglio agli evasi: solo tre riescono a sfuggire alla caccia dei nazisti, gli altri 73 vengono riacciuffati. Il fuhrer ordina che siano tutti fucilati, ma qualche alto ufficiale (tra cui Göring) gli fa notare che, oltre a essere contrario alle convenzioni internazionali, quel massacro avrebbe potuto provocare delle vendette ai danni dei loro piloti prigionieri degli alleati. Hitler ordina comunque che almeno la metà dei fuggitivi vengano giustiziati. Il capo delle SS Himmler delega il generale Arthur Nebe (lo stesso che partecipa al complotto contro Hitler a luglio, e sarà quindi passato per le armi) la scelta di quelli che devono morire, e lui non si risparmia:

Ne seleziona cinquanta, e li fa fucilare tutti

Memoriale per le cinquanta vittime fucilate dalla Gestapo

Immagine di pubblico dominio via Wikimedia Commons

Tra loro c’è anche Big X, Roger Bushell.

La tomba di Roger Bushell a Poznan

Immagine di Adsk via Wikipedia – licenza CC BY-SA 3.0

Poi, in tutti i campi di prigionia, compare un cartello con su scritto “La fuga dai campi di prigionia ha smesso di essere uno sport”.

Alla fine della guerra diciotto tra soldati e ufficiali nazisti sono processati per quella strage, e tredici di loro saranno condannati a morte.

A celebrare quella incredibile se pur drammatica impresa, il regista John Sturgess, con un cast di attori stellare, dirige il film “La grande fuga”, che si ispira al libro di memorie di uno dei (pochissimi) sopravvissuti, il pilota australiano Paul Brickhill.

Annalisa Lo Monaco

Lettrice compulsiva e blogger “per caso”: ho iniziato a scrivere di fatti che da sempre mi appassionano quasi per scommessa, per trasmettere una sana curiosità verso tempi, luoghi, persone e vicende lontane (e non) che possono avere molto da insegnare.