La Ginecologa di Auschwitz: la difficile “scelta” di Gisella Perl

Ad Auschwitz è l’internata n. 25404 e non più Gisella Perl, dottoressa specializzata in ginecologia. Il suo nome e la sua storia non hanno nessuna importanza per i nazisti, ma quella laurea in medicina sì, soprattutto perché è ginecologa, e donna.

Sotto, il video racconto dell’articolo sul canale Youtube di Vanilla Magazine:

Il famigerato Josef Mengele, il Dottor Morte di Auschwitz, l’uomo che decide chi deve vivere o morire fra i nuovi arrivati al campo, sceglie con grande cura le persone adatte ai suoi scopi, anche tra i medici ebrei arrivati con i carri bestiame alla loro destinazione finale.

Ebrei Ungheresi arrivano ad Auschwitz-Birkenau nel 1944. Immagine di pubblico dominio

Perl diventa la ginecologa di Auschwitz, un incarico che nulla ha a che fare con la sua vocazione di dottoressa, con la gioia di far nascere un bambino, con la felicità di una madre che abbraccia per la prima volta la sua creatura. Lì, in quel campo di concentramento dove i nazisti avevano deciso di “cancellare le basi biologiche dell’ebraismo” (Comandante ad Auschwitz, autobiografia di Rudolf Höss), Gisella Perl si vede costretta a dispensare la morte anziché la vita. Difficile immaginare quanto le sia costato fare quello che ha fatto, ma lì, ad Auschwitz, non ci si poteva nascondere dietro un astratto concetto di etica, occorreva “sporcarsi le mani”, e non solo in senso metaforico.

Copertina di “Ero un Dottore ad Auschwitz” – memorie di Gisella Perl. Immagine via Wikipedia – Giusto Uso

Gisella Perl, nata nel 1907 a Sighet, una piccola città dell’Ungheria (che poi sarebbe diventata parte della Romania), è una studentessa modello: si diploma a 16 anni con il massimo dei voti, unica donna e unica ebrea del suo corso. La famiglia è benestante e Gisella, come i suoi numerosi fratelli, ha la possibilità di andare all’università.

La ragazza è ben decisa a laurearsi in medicina, nonostante l’iniziale opposizione del padre, che vede in quegli studi un pericolo e teme che la figlia possa perdere la fede e si allontani dal giudaismo. Gisella giura sul suo libro di preghiere che sarebbe rimasta per sempre una “vera ebrea”, e vince la sua battaglia, tanto che va a perfezionarsi a Berlino, dove la metà dei medici sono ebrei, almeno fino al 1933, quando Hitler sale al potere e tutto cambia.

Perl torna in Ungheria, a Sighet, dove può svolgere la sua amatissima professione, insieme al marito, Ephraim Krauss, che è chirurgo. Sono ancora tempi “umani”, dove è possibile per una famiglia ebrea vivere la normalità quotidiana: lavorare, stare con i figli e godersi una domestica tranquillità.

Ma l’orrore è alle porte: nel marzo del 1944 la Germania invade l’Ungheria, sua alleata ma tentata da un accordo con gli Stati Uniti. Iniziano i rastrellamenti e Gisella Perl con la sua famiglia, compresa quella d’origine, finisce nel ghetto di Sighet; solo la figlia Gabriella sfugge all’internamento, perché si nasconde presso una famiglia non ebrea, salvandosi la vita.

Due fratellini ebrei ungheresi aspettano la selezione ad Auschwitz – Maggio 1944. Immagine di pubblico dominio

Nel giro di un paio di mesi oltre 440.000 ebrei ungheresi finiscono ad Auschwitz. Tra loro c’è anche Gisella Perl, subito separata dal marito e dal figlio. La prima impressione è traumatica: “Simile a grandi nuvole nere, il fumo del crematorio aleggiava sull’accampamento. Affilate lingue di fuoco rosso lambivano il cielo e l’aria era piena dell’odore nauseabondo della carne bruciata”.

Una donna anziana e alcuni bambini, ebrei ungheresi, si avviano alla camera a gas. Immagine di pubblico dominio

Gisella Perl, destinata all’ala femminile di Birkenau (noto come Auschwitz II) viene destinata all’ospedale del Campo, se così si poteva chiamare quel luogo di cura che lasciava ben poche speranze di guarigione. Nonostante la drammatica situazione, la sporcizia e nessun strumento medico a disposizione, la dottoressa Perl si illude di poter essere in qualche modo utile alle detenute. E in effetti riesce a curare molte persone, qualche volta con rudimentali mezzi medici e qualche altra, in mancanza di meglio, con le parole, “raccontando loro storie bellissime, dicendo che un giorno avremmo avuto di nuovo i compleanni, che un giorno avremmo cantato di nuovo”.

Josef Mengele

Il dottor Mengele in persona la incarica di segnalargli tutte le donne incinte, per destinarle a un altro campo, dove avrebbero avuto latte e un’alimentazione migliore. Gisella gli crede, anche perché vede quelle donne andare via su camion della Croce Rossa. Peccato che quei mezzi altro non fossero che una mascherata:

“All’inizio gli credevo, ma in seguito ho saputo che le usava (le donne incinte), insieme a portatori di handicap fisici e gemelli, per i suoi esperimenti medici disumani. Quando finiva con loro, sono stati tutti uccisi nelle camere a gas.”

Il blocco 10, dove Mengele eseguiva gli esperimenti ad Auschwitz. Immagine di VbCrLf  via Wikipedia – licenza CC BY-SA 4.0

Gisella Perl si rende presto conto che il destino della donne incinte ad Auschwitz è uno solo: finire nelle camere a gas. Se possibile, quel destino diventa ancora più tragico quando Mengele inizia a sottoporle ai suoi esperimenti e poi lascia le donne tra le grinfie delle guardie:

“Erano circondate da un gruppo di SS, uomini e donne, che si divertivano a dare a queste creature indifese un assaggio d’inferno, dopodiché la morte era un’amica gradita … Furono picchiate con mazze e fruste, dilaniate dai cani, trascinate per i capelli e prese a calci nello stomaco con pesanti stivali tedeschi. Poi, quando sono crollate, sono state gettate nel crematorio – vive”.

L’unica camera a gas rimasta intatta ad Auschwitz Immagine di Pensierarte via Wikipedia – licenza CC BY-SA 3.0

La ginecologa di Auschwitz, dopo aver assistito a scene così raccapriccianti, decide “che non ci sarebbe mai più stata una donna incinta ad Auschwitz”.

Di notte nell’ospedale, a lume di candela, o nelle baracche luride del campo, Perl pratica qualcosa come tremila tra aborti e infanticidi, “usando solo le mie mani sporche”.

E’ l’unica scelta possibile per salvare la vita di quelle donne, nella speranza che in un giorno a venire, in un mondo migliore, potessero diventare madri: un drammatico modo per opporsi al genocidio, quando alla dottoressa Perl non era concesso il lusso di preoccuparsi dell’etica. Il destino di quei bambini era comunque segnato: sarebbero stati uccisi dai nazisti, secondo le direttive di Mengele, e sarebbe finita nella camera a gas anche Gisella Perl, se l’avessero scoperta.

Donne e bambini di Auschwitz si incamminano alle camere a gas – Maggio 1944. Immagine di pubblico dominio

Una volta la dottoressa non ha cuore di togliere la vita a un neonato, ma dopo due giorni il rischio che il suo pianto venga udito dalle guardie diventa troppo forte. Difficile immaginare lo strazio di Gisella Perl, che racconta l’episodio con poche, stringate, parole, perché quell’orrore è indicibile:

“Ho preso il corpicino caldo tra le mani, ho baciato il viso liscio, ho accarezzato i lunghi capelli – poi l’ho strangolato e ho seppellito il suo corpo sotto una montagna di cadaveri in attesa di essere cremati.”

Verso la fine della guerra Gisella Perl viene trasferita a Bergen Belsen, ed è alle prese con un parto il 15 aprile del 1945. Il bambino sta bene ma la mamma, debolissima, rischia di morire. Per la prima volta dopo un anno però, la dottoressa può fare qualcosa per la paziente, e soprattutto può gioire per quella nascita: durante il travaglio il campo viene liberato dall’esercito britannico. Perl chiede subito a un soldato ciò che fino ad allora era stato un lusso mai concesso: acqua pulita, un antisettico e delle bende.

“Mezz’ora dopo avevo l’acqua, il disinfettante e potevo lavarmi le mani ed eseguire l’operazione, non come prigioniera indifesa, ma come dottore”.

Donne sopravvissute a Bergen Belsen, aprile 1945. Immagine di pubblico dominio

Gisella Perl torna ad essere medico, nel senso che aveva dato alla sua missione prima dell’internamento, e rimane a Bergen Belsen per curare i sopravvissuti allo sterminio (13.000 ex prigionieri del campo non ce la faranno comunque), ma dopo qualche mese parte alla ricerca della sua famiglia: vaga da un campo all’altro finché viene a sapere che tutti, tutti i suoi parenti sono morti nelle camere a gas: il marito, il figlio, i genitori e molti altri.

Dopo aver curato, sostenuto e salvato migliaia di persone con grande coraggio, Gisella Perl non trova per sé stessa lo stesso coraggio e tenta il suicidio. Però si salva e inizia a portare in giro per il mondo la sua testimonianza sugli orrori di Auschwitz, poi nel 1948 pubblica le sue memorie sulla terribile esperienza di medico nel lager nazista. Vorrebbe vedere Mengele sotto processo, ma quella è una soddisfazione che non potrà mai togliersi, perché il Dottor Morte vivrà da uomo libero in Sud America, fino alla sua morte.

Josef Mengele nel 1956, in Sud America. Immagine di pubblico dominio

Nel 1948 Gisella Perl si ferma negli Stati Uniti (anche se avrà molte difficoltà per avere il permesso di soggiorno, proprio per quegli aborti praticati ad Auschwitz), dove riprende la sua attività di ginecologa. Prima di entrare in sala parto prega silenziosamente, sempre con le stesse parole: “Dio, mi devi una vita, un bambino vivo”.

Nel 1978 Perl si trasferisce in Israele (dove si riunisce con la figlia, sopravvissuta alla guerra) per lavorare come volontaria in una clinica ginecologica. La dottoressa, soprannominata “l’angelo di Auschwitz”, farà nascere bambini fino alla fine della sua vita, arrivata nel 1988.

Il giudizio sull’operato di Gisella Perl ad Auschwitz è controverso: c’è stato qualcuno (occorre precisare che si tratta nella maggior parte dei casi di negazionisti dell’olocausto, o antisemiti) che l’ha accusata di collaborare con Mengele per avere vantaggi personali, ma la stragrande maggioranza delle testimonianze dei sopravvissuti di Auschwitz conferma la storia raccontata da Perl, il suo terrore di Mengele e, in definitiva, l’impossibilità di esprimere un giudizio morale sulle sue scelte, avvenute in un luogo dove la parola “scelta” non aveva molto significato.

Eppure Gisella Perl la fece quella scelta drammatica di “sporcarsi le mani”, ma nessuno può dire, e nemmeno immaginare, quanto le sia costata.


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