La diga del Vajont: le controversie di un disastro annunciato

9 ottobre 1963, ore 22.39: uno tsunami devasta la Valle del Vajont, portandosi via case e persone, una tragedia annunciata che cancella quasi per intero una comunità, quella di Longarone, un piccolo paese di montagna in provincia di Belluno.

Il campanile della chiesa di Longarone, simbolo del disastro

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Come può uno tsunami colpire un paese di montagna? Può essere inesatto definire quella terribile inondazione come uno tsunami, eppure sembra il termine più adatto a descrivere la portata di quella tragedia dovuta a un’onda gigantesca.

La valle dopo la frana, con il laghetto formato dall’onda di ritorno ricaduta sulla frana stessa

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E’ una sera come tante di un ottobre particolarmente piovoso, là nella valle del Vajont, con le famiglie riunite davanti alla televisione a guardare una partita di calcio, la finale della Coppa dei Campioni.

Qualcuno si prepara ad andare a letto, proprio quando sembra scatenarsi una tempesta, con un rumore sordo che arriva da fuori. Non c’è il tempo di affacciarsi a guardare fuori, improvvisamente il buio avvolge la valle e si scatena l’apocalisse.

La diga dopo il disastro

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270 milioni di metri cubi di roccia e terra si staccano dal Monte Toc, precipitando nella diga sottostante: la grande massa della frana e la sua velocità provocano un’onda d’urto talmente forte da essere paragonata, in seguito, a un’esplosione nucleare.

Quel vento fortissimo spazza via case e persone ancora prima che il gigantesco muro d’acqua alzato dalla frana inondi i paesi a est e a ovest dalla diga. Quello tsunami si alza fino a 250 metri sopra il bordo dell’invaso, poi dilaga verso est portando morte e distruzione su tutte le frazioni di Erto e Casso, mentre a ovest si rovescia nella valle del Piave e miete il maggior numero di vittime: a Longarone muore l’80% degli abitanti, 1458 persone.

Longarone prima e dopo la frana

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Sotto alla massa di fango e detriti rimangono 1918 persone, ma si tratta solo di un numero stimato di vittime, perché i corpi di molti dispersi non vengono mai trovati, probabilmente polverizzati dalla potenza dell’onda d’urto, mentre si trovano all’aperto. Solo 750 dei cadaveri recuperati saranno identificati.

 Il cimitero delle vittime del Vajont prima del 2003

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Il cimitero delle vittime del Vajont, ricostruito nel 2003

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Anche in questa drammatica circostanza l’Italia si divide in due: c’è chi parla di una tragedia annunciata, che si poteva evitare se solo si fosse dato ascolto ai segnali della montagna e a quegli esperti che l’avevano prevista da tempo. C’è invece chi parla di una tragedia imprevedibile, dovuta al caso e al maltempo.

La Valle del Vajont nel 1957

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Eppure di segnali ce n’erano stati tanti, a partire da una frana che nel novembre del 1960 aveva rovesciato nell’invaso settecentomila metri cubi di terra e roccia. E, a dirla tutta, ancor prima di quella frana, non esistevano i presupposti per costruire una diga in quella valle, sotto al Monte Toc. Ancor prima di iniziare i lavori, l’esperto Leopold Müller aveva concluso che la costruzione di un impianto idrico avrebbe potuto provocare frane anche di grandi masse di terra e rocce.

La diga in costruzione – 1959

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Eppure quel progetto va avanti, perché la fame di energia elettrica è forte negli anni della ricostruzione post-bellica, e le centrali idroelettriche sembrano la giusta soluzione per ovviare alla italica mancanza di combustibile fossile. Lo sviluppa un’azienda elettrica privata, la SADE, di proprietà di un ex ministro fascista, Giuseppe Volpi di Misurata, che evidentemente aveva ancora amicizie importanti a diversi livelli.

Foto a colori della diga

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Quando iniziano i primi controlli di fattibilità, nel 1949, gli abitanti della valle protestano, anche perché non vogliono vedersi espropriare i loro terreni, ma nel 1956 i lavori iniziano comunque, anche se l’approvazione definitiva del ministero arriverà solo a luglio del ’57.

Nel 1959 qualcuno si accorge che il versante sinistro del Toc presenta i segni evidenti di una paleofrana, che stava a indicare quanto fosse ad alto rischio quel luogo, specialmente se compromesso da inevitabili infiltrazioni d’acqua. Qualcun altro invece attesta che le rocce sono compatte, con una trascurabile quantità di detriti.

La diga completata

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Nel 1959 i lavori sono completati e sembrano un successo: è la diga più alta al mondo, che raccoglie le acque di un piccolo torrente di montagna, il Vajont.

Il grande muro di cemento che chiude la gola è ancora lì, intatto, a ricordare le tragedie provocate da chi, consapevolmente, non si arrende alle ragioni della natura per perseguire un interesse personale o politico.

Il muro della diga dopo la frana

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Dopo la frana del ’60, nessuno ha più dubbi su cosa prima o poi accadrà, ma solo sull’entità del disastro annunciato. Annunciato anche sui giornali, o meglio, sul quotidiano L’Unità, dalla giornalista Tina Merlin, che già due anni prima della tragedia cerca di denunciare i rischi che corrono gli abitanti della valle. Nessuno l’ascolta, anzi: il presidente della SADE la denuncia per “diffusione di notizie false e tendenziose atte a turbare l’ordine pubblico”. Il tribunale di Milano la assolve, ma nessun editore pubblicherà il suo libro sulla tragedia, fino al 1983.

La giornalista Tina Merlin

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Non la vogliono nemmeno alle udienze del processo contro i responsabili del disastro, perché la giornalista scrive per il giornale del PCI, il Partito Comunista, sgradito a gran parte della magistratura. Riuscirà a essere presente in tribunale solo dopo l’intervento di un giudice istruttore di Belluno.

Di opinione completamente diversa è il giornalista Indro Montanelli (e altri), che vede negli articoli della Merlin (e di chi la pensa come lei) uno scopo puramente politico, uno sciacallaggio volto a sostenere chi, come il PCI, auspica una nazionalizzazione dell’industria elettrica, mentre quel disgraziato incidente è una calamità, certo, ma non prevedibile. Solo anni dopo Montanelli ammetterà di aver commesso un errore…

Il lago del Vajont, con il segno dello scivolamento della frana del 1960

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La mattina di quel 9 ottobre il direttore dei lavori della SADE, l’ingegner Alberico Biadene scrive al suo vice Mario Pancini, in quei giorni in ferie in America, che ci sono dei segnali preoccupanti e conclude con “Iddio ce la mandi buona”, invitandolo a rientrare in tutta fretta. Alle dieci di sera la persona di guardia alla diga avverte che la “montagna sta cedendo a vista d’occhio”, ma sempre l’ingegner Biadene gli raccomanda semplicemente di “dormire con un occhio solo”. La centralinista di Longarone, che ascolta la telefonata, chiede se c’è pericolo, ma l’ingegnere le dice di non preoccuparsi e di “dormire bene”. A nessuno passa per la testa di aprire gli scarichi di alleggerimento, che avrebbero ridotto la quantità d’acqua nell’invaso.

Eppure sanno che il bacino raggiunge in quel momento i 700 metri s.l.m., livello considerato estremamente pericoloso in caso di frana. Nessuno però riesce a immaginare le conseguenze di quell’evento pronosticato, perché tutti i calcoli e le stime si basano su modelli sbagliati, sia sulla portata della frana sia sulla sua velocità, che raggiungerà i 100 chilometri all’ora.

Longarone dopo il disastro

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Nei tre gradi di processo che vedono imputate 11 persone, dopo varie condanne e successivi ribaltamenti, alla fine sono solo in due, gli ingegneri Biadene e Francesco Sensidoni, a essere dichiarati colpevoli per inondazione aggravata dalla previsione dell’evento e per gli omicidi colposi, mentre tutti gli altri sono assolti. Nel frattempo due indagati sono morti, mentre l’ingegner Mario Pancini si era suicidato alla vigilia del processo di primo grado.

I due condannati ricevono il beneficio del condono, pari a tre anni, e in conclusione Sensidoni non passa nemmeno un giorno in carcere, mentre Biadene, quello che aveva detto di “dormire bene” alla centralinista di Longarone, passa appena un anno in galera e poi viene rilasciato per buona condotta…

Annalisa Lo Monaco

Lettrice compulsiva e blogger “per caso”: ho iniziato a scrivere di fatti che da sempre mi appassionano quasi per scommessa, per trasmettere una sana curiosità verso tempi, luoghi, persone e vicende lontane (e non) che possono avere molto da insegnare.