Racconta la Bibbia (Genesi) che Dio decise di impedire agli uomini di costruire una torre “la cui cima tocchi il cielo”, non tanto perché lo considerava un atto di superbia (secondo l’interpretazione di alcuni esegeti) quanto per “disperderli” su tutta la Terra, perché la popolassero. Per far ciò, Dio decise di confondere la loro lingua, “perché non comprendano più l’uno la lingua dell’altro”.
Una lingua condivisa dunque rappresenta, fin dall’inizio del mondo, l’indispensabile mezzo che hanno gli uomini per comprendersi e comunicare tra loro. Ma non sempre chi ha la capacità di fare da interprete fra due culture lontane fra loro raggiunge risultati positivi per entrambe. E’ il caso della donna azteca che fece da interprete a Hernán Cortés, e che in Messico è oggi considerata in due modi:
Grande traditrice del suo popolo o vittima degli spagnoli
Lei è Malinalli, chiamata anche Malinche o Doña Marina, e questa è la sua storia
Il 12 marzo 1519 Hernán Cortés sbarca sulle coste meridionali del Messico, nel Tabasco, e rischia di doversi ritirare di fronte agli agguerriti guerrieri nativi, come erano stati costretti a fare, un paio d’anni prima, i comandanti di due diverse spedizioni, Francisco Hernández e Juan de Grijalva. Cortés però sfodera un’arma segreta, la sua cavalleria (i cavalli erano animali sconosciuti ai Maya), che mette in fuga i guerrieri del Tabasco.
Hernán Cortés
Fa parte della spedizione spagnola Bernal Diaz del Castillo, che molti anni dopo (nel 1568), scriverà la sua cronistoria dell’avventura messicana: Historia verdadera de la conquista de la Nueva España.
Tre giorni dopo la vittoria di Cortés, i cacicchi locali inviano regali preziosi agli spagnoli: gioielli in oro di diversa fattura e stoffe, queste ultime definite “di scarso pregio”. Strano a dirsi, ma quei conquistadores, più che i gioielli apprezzano un altro dono:
“Ma tutti questi doni furono nulla in confronto a venti indiane, fra le quali c’era anche una donna eccellente, conosciuta poi come Donna Marina, ché così si chiamò dopo che fu battezzata (…)”.
Donne dunque, elencate alla stregua di oggetti tra i numerosi doni portati agli spagnoli. Solo una però è degna di essere ricordata, Doña Marina, perché è anche grazie a lei che Cortés riesce a sconfiggere gli orgogliosi Aztechi. Qual è dunque la grande dote di quella donna? Lei parla, sa e può (e forse vuole) raccontare la sua terra e la sua gente agli spagnoli, aprendo una strada senza ritorno.
Hernán Cortés e Malinche (estrema destra), nel Codice Azcatitlan, manoscritto pittorico indigeno dell’inizio del XVI secolo
Prima del suo incontro con Cortés, prima di Marina (che trasposto nella lingua nahuatl diventa Malinche), c’è però Malinalli, o forse Tenepal, una ragazza di nobili origini azteche.
La sua storia, passando attraverso i racconti di chi narra la Conquista, diventa sempre più stringata, e viene raccontata con più di qualche piccolo cenno solo da Bernal Diaz, che forse ci aggiunge qualcosa di suo, tanto la sua narrazione appare intrisa di elementi fiabeschi cari alla cultura europea. Secondo Bernal Diaz, il padre e la madre di Malinalli erano cacicchi in un territorio nell’est dell’impero azteco. Purtroppo, il padre muore quando lei è ancora piccola, la madre si risposa e mette al mondo un altro figlio “che essendo maschio, fu naturalmente il preferito”.
Il patrigno e la sua stessa madre decidono di disfarsi della bambina per lasciare il caciccato solo al nuovo erede, e la consegnano “a certi indiani di Xicalango”, facendo poi credere a tutti che fosse morta. Venduta come schiava ad altre tribù, finisce nel Tabasco, e infine “donata” agli Spagnoli, insieme ad altre 19 donne, destinate a diventare le serve e le concubine (per usare un eufemismo) dei conquistadores. Prima però le ragazze dovevano essere battezzate, perché le rigide norme dell’epoca consentivano ai cattolicissimi spagnoli di avere rapporti more uxorio solo con donne cristiane (quando si dice la morale…).
La Malinche e Hernán Cortés nella città di Xaltelolco, in un disegno dal codice della fine del XVI secolo
Secondo Francisco Lopez de Gómara, Malinalli, figlia di genitori ricchi, imparentati con il signore locale, viene rapita e poi venduta come schiava nel Tabasco. Il cronista quindi non fa riferimento a episodi che potrebbero apparire romanzeschi, mentre altri autori parlano semplicemente di una schiava originaria della Città di Messico, finita poi nelle terre dei Maya.
Qualunque fossero le sue origini, Malinalli diventa Doña Marina (il titolo onorifico di doña confermerebbe la sua origine nobile), che viene assegnata da Cortés a un suo parente, Alonso Hernadéz Portocarrero.
Intanto, prima ancora di aver sconfitto i Maya del Tabasco, Cortés tenta di entrare in contatto con qualche spagnolo disperso in quelle terre, che deve pur esserci, visto che i nativi indicano gli spagnoli come “castillán”. E difatti, Cortés non si sbaglia: nel 1511, una caravella partita da Panama e diretta Santo Domingo, era naufragata sulle coste dello Yucatan. A bordo c’erano quindici uomini e due donne, fatti prigionieri dai nativi locali: “Alcuni erano stati sacrificati, altri erano morti di dolore, mentre le donne erano perite perché le avevano costrette a lavori pesanti”. (Bernal Diaz)
Sopravvivono in due, Jeronimo de Aguilar e Gonzalo Guerrero. Solo il primo si ricongiunge agli Spagnoli, mentre il secondo, ormai integrato nella società maya e fattosi indigeno, non si fa vedere.
Geronimo de Aguilar viene presentato a Cortés dopo 11 anni in cui è stato tenuto prigioniero dalla gente del posto
Aguilar funge da interprete fra i Maya e gli Spagnoli, ma quando la spedizione prosegue verso le terre degli aztechi, che parlano il náhuatl, non è più in grado di essere d’aiuto a Cortés. Per caso, qualcuno scopre che la schiava Marina parla invece quella lingua, ed è quindi l’unica persona in grado tradurla: Cortés parla in spagnolo con Aguilar, che traduce in lingua maya per Marina, la quale poi riferisce agli “Indios” in náhuatl. Tutto questo fino a che Marina non si impadronisce anche dello spagnolo e rimane l’unica interprete di Cortés, che per i suoi servigi le promette ricchezza e libertà, oltre a un marito spagnolo.
Cortes nomina La Malinche come suo interprete
Ma il legame tra Marina e Cortés non si esaurisce qui, malgrado i cronisti dell’epoca abbiano sorvolato sulla questione.
Solo uno, Antonio Solís y Ribadeneyra, approfondisce il comportamento di Cortés:
“…egli l’avvinse alla sua intimità con legami meno onesti di quanto avrebbe dovuto, perché ebbe da lei un figlio …. Quello di Cortés fu un biasimevole mezzo per rendersela fedele (…). A noi pare, tuttavia, che si sia trattato piuttosto dell’errore di una passione male indirizzata, perché non è cosa nuova nel mondo chiamare ragione di stato la debolezza della ragione”. (Historia de la conquista de México)
Per raggiungere meglio lo scopo, Cortés rispedisce in Spagna Alonso Hernadéz Portocarrero (forse non voleva rischiare una lite in stile Agamennone/Achille).
La fedeltà di Marina ai conquistadores non può essere messa in dubbio, e l’esempio più evidente è ciò che avviene a Cholula, dove gli spagnoli si fermano per qualche giorno, mentre i nativi organizzano una trappola per gli spagnoli. Una donna del luogo racconta tutto a Marina, presumendo che lei, azteca, sarebbe stata dalla parte della sua gente.
L’interprete invece riferisce tutto a Cortés, che compie una strage
Non sono di secondaria importanza, ai fini della conquista, anche le alleanze che Marina riesce a strappare a popolazioni ostili agli aztechi. La spedizione finisce con la definitiva conquista e la distruzione della capitale Tenochtitlàn, la morte dell’imperatore Montezuma e l’insediamento del governo spagnolo.
L’incontro di Cortés e Montezuma, con Malinche in qualità di interprete
Marina, nonostante sia stata per un certo periodo la concubina di Cortés, nonostante abbia dato alla luce il suo primogenito, si allontana via via dalla storia.
Arriva in Messico la moglie di Cortés (della sua repentina morte, un paio d’anni dopo, sarà sospettato proprio il marito), Marina sposa un nobiluomo spagnolo e riacquista la libertà, secondo le promesse del conquistador. Poi, di lei non si sa più nulla.
Una volta esaurita la sua funzione di mediatrice tra Nuovo e Vecchio Mondo, diventa un’ombra, una figura ormai senza importanza per i nuovi padroni del Messico.
Certamente non ha avuto una vita lunga: muore, probabilmente di vaiolo, prima del 1529, perché in quell’anno il marito risulta già vedovo. Quello che lascia è un paese quasi spettrale, devastato dalle epidemie, molto diverso dal Messico che tanto aveva fascinato gli spagnoli: “…somigliava alle cose d’incantesimo narrate nel libro di Amadigi, per via delle alte torri, dei templi e degli edifici che stavano sull’acqua. Tutti fatti di pietra. C’erano alcuni nostri soldati che si chiedevano se non stessero sognando… “ (Bernal Diaz).
Oggi, La Malinche fa parte del mito, da alcuni vista negativamente come traditrice, e assolta da altri come vittima e al tempo stesso come “madre fondatrice” di un nuovo popolo.
Per chiarire un po’ la posizione di Marina, interviene la professoressa di linguistica Frances Karttunen:
“Come si può porre questa lunga e tragica storia (la conquista del Messico) ai piedi di una giovanissima donna che era stata privata della sua identità ancora prima che gli spagnoli entrassero in scena? Il destino inevitabile di Marina era lo stupro, non cucinare tortillas. Non aveva assolutamente scelta dall’essere usata come schiava sessuale, e da chi. Quando è stata data a Cortés non aveva nessuno a cui rivolgersi, nessun posto dove fuggire, nessuno da tradire. Non era azteca, non maya, non “indiana”. Già da tempo non era la donna di nessuno e non aveva niente da perdere. Questo l’ha resa pericolosa, ma non dice nulla sulla sua moralità. Questa non è una storia d’amore, né una storia di cieca ambizione e tradimento razziale, né un gioco di moralità. È la storia di una donna linguisticamente dotata in circostanze impossibili, che si ritaglia la sopravvivenza un giorno alla volta”.
Di lei, resta solo l’immagine di una donna d’America che aiuta gli uomini d’Europa, senza mai prendere in considerazione i suoi sentimenti, i dubbi o le certezze che deve pur avere avuto. Alla fin fine, pur nel suo ruolo di mediatrice della parola, di padrona di un linguaggio utile alla comunicazione, Marina è condannata al silenzio.
Un destino che condivide con molte altre donne, di molte altre epoche e di tanti altri luoghi.