Nel Giappone dei primi del Novecento le donne erano confinate in casa e l’educazione che ricevevano era generica e superficiale. Sada Abe, invece, fu spinta dalla madre a studiare canto e musica, attività spesso di competenza delle geisha, donne emancipate ed erudite soprattutto nell’ambito delle arti.
Sada Abe
Sada ambiva a diventare una di loro e per un momento pensò di poter realizzare quel sogno quando il padre, a quindici anni, la vendette alla okiya (casa di geisha) di Yokohama, in seguito a un brutto episodio di violenza sessuale di cui era stata vittima. Il suo sogno però andò presto in frantumi: aveva già superato l’età massima per iniziare il lungo apprendimento cui erano sottoposte le geisha. Le furono perciò affidate mansioni domestiche e il compito più ingrato: intrattenere sessualmente i clienti. È proprio durante uno di questi incontri che Sada contrasse la sifilide e decise di abbandonare quell’ambiente e quelle mansioni, anche poco remunerate, per esercitare la prostituzione legale, che l’avrebbe fatta guadagnare meglio e soprattutto le avrebbe garantito maggior tutela. Si trasferì a Osaka e per un po’ le cose sembrarono andare bene, ma finì per essere arrestata per aver derubato dei clienti. Riuscì a farsi rilasciare e si diede alla prostituzione senza licenza, che però la espose a maggiori rischi e prevaricazioni, con la conseguenza di finire spesso nei guai.
Stanca di quella vita pensò che fosse giunto il momento di voltare pagina
Ritornò a Tokyo per assistere i genitori e trovò lavoro come cameriera in un ristorante di proprietà di Kichizo Ishida, un quarantenne sposato che non disdegnava cercare nuove compagnie femminili. Presto l’intraprendente ristoratore fece conoscere alla nuova apprendista tutto il suo ardore, e lei non tardò a farsi coinvolgere in quella liaison. Durante una fuga d’amore, che doveva durare appena qualche giorno, i due amanti furono talmente sopraffatti da una passione indomabile che fecero ritorno solo dopo due settimane.
Per Sada fu il punto di non ritorno
Sopraffatta da un vortice di gelosia e angoscia arrivò a minacciare di morte il suo amante: Kichizo era l’uomo della sua vita e non poteva accettare che giacesse di nuovo con la moglie. Quel pensiero era insopportabile. Lui però non prese seriamente quell’avvertimento ma, al contrario, lo eccitò. Durante i loro incontri avevano sperimentato l’asfissia erotica e Kichizo si lasciò trasportare dalla fantasia, fino a quando la perdizione dei sensi li portò a una nuova fuga d’amore. Trascorsero due giorni chiusi in un hotel l’uno tra le braccia dell’altra. I tormenti di Sada però non erano svaniti e decise di stringere per l’ultima volta il suo obi (cintura del kimono) intorno al collo di Kichizo.
Nella notte del 18 maggio 1936 Sada si liberò del pesante fardello che la affliggeva.
Rimase vicino al suo amato ancora qualche ora prima di mutilarlo, asportandogli i genitali per portarli via con sé avvolti in fogli di giornali. Come un’adolescente usò il sangue per scrivere sulle lenzuola e su quel corpo inerme frasi che sancivano il loro legame, e all’alba si chiuse alle spalle quella porta e quella storia.
L’edificio dove avvenne il delitto
Nei tre giorni successivi Sada si nascose sotto falso nome in una locanda della zona, contemplando il suo feticcio e meditando il suicidio. Quando la polizia l’arrestò non oppose alcuna resistenza. Si dichiarò subito colpevole tanto che il processo durò pochi giorni. Gli psichiatri che la visitarono la dichiararono affetta da isteria e ninfomania. Considerando l’epoca storica, nella quale alle donne non era consentito esprimere liberamente i propri sentimenti e desideri, tantomeno quelli sessuali, era scontato che qualsiasi donna che avesse compiuto quel gesto sarebbe stata tacciata di ninfomania, così come qualsiasi comportamento al di fuori della norma diventava isteria.
Sada era solo una donna che non aveva represso i suoi istinti come si conveniva, e aveva continuato a parlare apertamente della sua vita sessuale senza mai nascondere nulla. Quei racconti così espliciti suscitarono molta curiosità e tutti seguirono quel caso con interesse. Sada fu condannata a sei anni di carcere nonostante l’efferatezza del delitto.
Foto di giornale scattata poco dopo l’arresto di Abe, maggio 1936
I giudici conclusero che durante l’omicidio fosse affetta un’infermità psichica transitoria per cui non era pienamente consapevole dell’atto che compiva. Una volta scontata la sua pena, Sada cercò di condurre un’esistenza tranquilla senza attirare attenzioni; voleva lasciarsi tutto alle spalle e andare avanti con la sua vita.
Cercò un impiego e si arrangiò come poteva, ma quando veniva a galla il suo passato per lei non c’era più posto e doveva iniziare di nuovo la sua ricerca. Quella vicenda, che l’aveva vista protagonista, non era stata dimenticata, ma soprattutto tutti ricordavano quei racconti erotici su cui la stampa aveva tanto speculato.
Un’immagine di Sada Abe nel 1947
Non riuscì mai a scrollarsi di dosso quello stigma fino a quando, nel 1970, si persero le sue tracce. Cosa ne sia stato di lei non è dato saperlo ma quell’omicidio, che tanto aveva fatto discutere, fu d’ispirazione per film e libri che hanno consacrato Sada, nell’immaginario giapponese, come un’icona di libertà contro la “falsa moralità” dell’epoca.
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