La censura ai tempi delle reti sociali: questione di giudizio

C’era una volta il mondo prima di Internet, che ora non c’è più. C’erano le enciclopedie, che si consultavano al posto di Wikipedia, per fare ricerche attendibili e trovare informazioni che servissero in merito a qualsiasi argomento. C’erano le ricerche affannose in biblioteca, su quei libri usati da molti, ma fonte di un sapere di una certa qualità. Poi la rivoluzione, una rivoluzione del sapere che ha preso tutti alla sprovvista, di cui nessuno aveva capito davvero la forza e la sconcertante entità. Internet come il grande libro del Sapere, il luogo dove è possibile trovare notizie in ogni lingua e in ogni forma, con immagini di ogni grandezza e tipo, e di immediata reperibilità soprattutto.

Nell’arco di poco sono arrivati anche le reti sociali, Facebook vantava uno slogan del tutto innocente: “Facebook aiuta a connetterti e rimanere in contatto con le persone della tua vita”. Una dichiarazione d’intenti candida e dal sapore positivo. Poi Instagram con l’enorme successo raggiunto venne acquistato da Facebook. Siamo dunque divenuti tutti creatori di contenuti, abbiamo iniziato a condividere le nostre parole e immagini su queste piattaforme digitali in grado di assicurare una visibilità praticamente globale per tutti in potenza. E se in principio usavamo le reti per uso personale, poi la storia è cambiata, e invece di promuovere le nostre relazioni intime abbiamo iniziato a promuovere quello che facevamo, contribuendo a fare diventare le reti un luogo per fare vedere agli altri il nostro lavoro, insieme ai nostri eventi, su scala sempre più grande.

Ogni campo del sapere beneficia ormai di una nuova dimensione. In primis visiva, in secondo luogo anche testuale, perché si sono sviluppate nuove forme narrative, nuove maniere di raccontare le cose oltre che di esporle. Viviamo immersi in un flusso continuo di immagini e parole di cui possiamo usufruire in una certo senso a nostro piacimento…o più o meno. L’ utilizzo dei mezzi “social” si è diffuso al punto che istituzioni e personaggi pubblici si servono ormai in pianta stabile di questi per diffondere capillarmente messaggi di ogni sorta. I musei ad esempio posseggono team assunti ad hoc per condividere contenuti rilevanti per la propria attività divulgativa.

Nei tempi più recenti si sono purtroppo verificate numerose censure di immagini di tipo artistico postate on line: è accaduto a Palazzo Strozzi che ha visto una immagine di Natalia Goncharova venire “punita” prima dell’apertura della mostra, mentre sempre ultimamente il critico Vittorio Sgarbi si è scagliato a difesa di alcuni nudi di Canova anch’essi censurati dai social, minacciando di fare causa a Facebook ( e proponendo l’assunzione di persone fisiche invece di lasciare il giudizio della moralità o meno delle immagini ad una macchina).

Sotto, la Goncharova censurata:

Possono dunque quadri, sculture, manufatti di valore storico e artistico innegabile, venire giudicati come non adeguati alla visione di un grande pubblico? Possiamo lasciare che sia una rete sociale a definire quello che offende la morale condivisa? Per rispondere a simili domande occorre intavolare una discussione che sia allo stesso tempo pratica e filosofica (visto che parliamo di morale, giudizi e similia).

Stiamo vivendo in un momento storico in cui possiamo dare giudizi attraverso like ed emoticon. Questo basterebbe per dirla tutta. E lo stesso mezzo che ce lo permette ha il potere di censurare l’immagine di un artista. In quanto esseri umani siamo chiamati a effettuare giudizi ogni giorno per scegliere cosa sia bene, e cosa sia male, per poi comportarci di conseguenza. Cosa sia giusto vedere e non vedere non dovrebbe essere un potere di pertinenza di una rete sociale. Cosa sia offensivo o meno è un giudizio che solo gli esseri umani possono dare: crescendo ci costruiamo un sistema di credenze che ci permette di distinguere, di comprendere le intenzioni degli altri, di condannare una azione come adeguata o meno ad un contesto.

L’intenzione di un artista a volte è interpretabile in molteplici modi, ma viene mai dall’intenzione di offendere qualcuno, o di ledere la morale altrui. Non fa parte dello scopo dell’Arte. Lo scopo dell’Arte è anche quello di accendere le nostre sensibilità personali, e quindi solleticare la morale condivisa per trarre giudizi, su ogni genere di contenuto. Un quadro, una scultura, una immagine che contiene dei capezzoli ad esempio, non significa necessariamente una offesa alla pubblica morale. Si tratta dell’interpretazione della realtà di una mente creativa, che descrive quello che conosce con dei mezzi materiali.

Natalia Goncharova, una donna, dipingendo il corpo femminile, non desiderava offendere nessuno. Allo stesso modo: come possiamo pensare che Canova, scolpendo dei corpi nudi, possa avere voluto offendere qualcuno? Il corpo umano a volte viene usato come un mezzo per esprimere un messaggio di bellezza nella sua forma più pura, come metafora di qualcos’altro, un’idea intellegibile che simbolizza un pensiero più grande della finitezza dell’immagine stessa.

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Allora un’opera d’arte sotto che rispetto può essere giudicata come “immorale”? Quello che è definito morale o meno dipende da molti fattori che possiamo tenere in conto noi esseri umani quando ci troviamo in un contesto storico, con delle regole stabilite a livello sociale, con un sistema di credenze più o meno condiviso.

Ma Facebook non opera come un essere umano, non è in grado di stabilire criteri di giudizio degni dell’intelletto e della sensibilità umana. E’ una questione di libertà d’espressione da un lato (quella di un artista), e dall’altro è una questione di capacità interpretativa. Facebook (come Instagram) si arroga un diritto che non detiene, quello di operare un giudizio significativo su un patrimonio universale come l’Arte.

Che il contenuto sia offensivo è una interpretazione scorretta della funzione stessa di quell’oggetto, che costituisce un manufatto artistico creato con i più buoni intenti. Anzi, quando siamo esposti al Bello, quando consumiamo immagini significative dal punto di vista artistico, le nostre capacità di giudizio vengono stimolate in direzione costruttiva: siamo interpreti più “educati” sul mondo che ci circonda. Le immagini artistiche fanno parte di un patrimonio condiviso che non può essere filtrato da una rete sociale.

La censura delle opere d’arte lede la possibilità di tutti di godere della vista di immagini al contrario edificanti per l’umanità intera.
Bisogna perciò ricordare cosa è Arte, mentre cosa sia la pornografia lo lasciamo spiegare ad altri. L’Arte è qualcosa che ci eleva come esseri umani anzitutto. Lo stesso corpo nudo significa cose diverse a seconda dei contesti in cui viene rappresentato. Un’opera d’arte che raffiguri un corpo nudo costituisce una interpretazione del mondo che ci circonda da parte di un artista, vedere il mondo attraverso questi occhi è un privilegio, significa assumere una prospettiva diversa, priva di connotazioni aberranti.

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Quindi le conclusioni da trarre sarebbero più d’una: in primo luogo non possiamo accettare che una azienda privata metta bocca sul patrimonio universale della Storia dell’Arte, arrogandosi il diritto di discernere per noi cosa possiamo vedere o meno, in secondo luogo bisognerebbe trovare delle soluzioni pratiche per ovviare a questi incidenti imbarazzanti di censura. “Come” è qualcosa difficile da capire per adesso, mentre l’importante è concordare sul fatto che ci troviamo in un epoca in cui le immagini hanno un peso, sono portatrici di significati e a volte di valori che per essere esaminati richiedono un cervello, un cuore e un mondo reale a cui fare appello per comprendere quello che esiste fuori da noi stessi. La speranza è che gli strumenti che usiamo (come le reti sociali) non prendano il sopravvento sulle capacità degli esseri umani di pensare, sentire e giudicare.


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