La cattura, il processo e la morte di Giovanna d’Arco

30 maggio 1431 – La città di Rouen è in fermento. I cittadini abbandonano le attività quotidiane e si affrettano a raggiungere la piazza del Mercato Vecchio, dove le autorità hanno allestito una grande pira. Dal castello si muove una schiera di soldati che scorta una giovane donna dai capelli corti, vestita con un lungo abito bianco. Il suo nome è Giovanna. La incatenano a un grande pilastro dove attorno è stata disposta moltissima legna. Tutto è pensato affinché la morte non sopraggiunga per asfissia, ma per mezzo del fuoco.

L’eretica deve soffrire

Sotto, il video sul canale di Vanilla Magazine:

Cade subito in ginocchio, invoca l’arcangelo Michele, santa Caterina e santa Margherita, i protagonisti delle sue mistiche visioni, chiede il perdono di tutti i presenti e offre loro il suo perdono.

Ritratto di Giovanna d’Arco, dal registro del Parlamento di Parigi (1429) tenuto da Clément de Fauquembergue – Immagine di pubblico dominio

A un certo punto l’assale il terrore, e mendica un crocifisso. Un soldato inglese si impietosisce, raccoglie due rami secchi, li lega fra loro a mo’ di croce e li affida alle mani tremanti della Pulzella d’Orléans. Il boia riceve il segnale, avvicina una torcia ed esegue la condanna appiccando il fuoco. Un monaco, tale Isambart de la Pierre, si mette davanti alla ragazza e le mostra un’effige di Cristo. Le immagini sono agghiaccianti e la folla osserva allibita quel macabro spettacolo. Prima che il fuoco la avvolga del tutto Giovanna raccoglie le forze e si appella un’ultima volta alla grazia del Signore. Poi il silenzio… interrotto soltanto dallo scoppiettio della legna. Aveva appena 19 anni.

Le origini

La vita di Jeanne d’Arc, conosciuta in Italia come Giovanna d’Arco, è stata una delle più documentate dell’epoca, soprattutto grazie alla rilevanza che assunse il processo a suo carico, accompagnato da una mole enorme di trascrizioni degli atti. Probabilmente nacque nel 1412, in Lorena. Era la figlia di Jacques d’Arc, un umile contadino del villaggio di Domrémy (oggi Domrémy-la-Pulcelle), e di sua moglie, Isabelle Romée. Quando era bambina si dimostrò una bambina altruista, caritatevole e devota. Quando aveva 13 anni si trovava nel giardino di casa quando un improvviso bagliore la avvolse, seguito dalle apparizioni dell’arcangelo Michele, di santa Margherita e di santa Caterina. Era mezzogiorno d’estate e quelle voci le commissionarono una missione per conto di Dio.

Matrimonio di Carlo IV con Maria del Lussemburgo – Immagine di pubblico dominio

Il contesto storico

Le vicende di Giovanna d’Arco si intrecciano con un capitolo di storia medievale molto complesso. Nel 1328, Carlo IV, Re di Francia, morì senza eredi maschi e l’evento innescò la cosiddetta guerra dei Cent’anni, una serie di conflitti quasi ininterrotti che videro contrapposti il regno di Francia e quello d’Inghilterra. La corona francese passò a Filippo VI, cugino del defunto sovrano, ma Edoardo III d’Inghilterra, anch’egli imparentato con la monarchia francese, affermò di avere più diritti di successione del rivale.

Giovanna d’Arco classificata in miniatura – Immagine di pubblico dominio

Il braccio di ferro si protrasse fino al Quattrocento e l’esercito inglese giunse a occupare numerosi territori francesi, in particolare quelli di Parigi e Reims. Ai tempi di Giovanna, la guerra si inasprì ancora di più in seguito al trattato di Troyes del 1420. Il trattato stabiliva che, alla morte di Carlo VI di Francia, soprannominato “il folle”, la corona sarebbe passata a Enrico V d’Inghilterra. Il Delfino Carlo, erede al trono di Francia, si trovò tagliato fuori dalla linea di successione, ma avanzò diritti di nascita al trono francese in virtù della conclamata instabilità mentale del padre.

Al servizio del Delfino

Nell’ottobre del 1428, gli inglesi, coadiuvati dai loro alleati francesi, i Borgognoni, avevano cinto d’assedio Orléans. La città godeva di un’ottima posizione strategica, sul lato settentrionale della Loira, e rappresentava l’ultimo baluardo dell’esercito del Delfino francese. Nel 1429 la roccaforte era ormai conquistata, ma le voci che sentiva nella sua mente la sedicenne Giovanna si fecero sempre più insistenti e la esortarono a intervenire.

Giovanna partì da Vaucouleurs per raggiungere Carlo a Chinon, insieme a un gruppo di uomini fedeli alla corona già noti al Re e all’esercito, e si presentò al suo cospetto. Circa trecento nobili la osservarono nella sala grande del castello, e la giovane subito s’inginocchiò al Delfino perché, come da lei dichiarato durante il processo, le voci le avevano suggerito un segno per riconoscerlo. Per metterla alla prova, Carlo negò di essere il sovrano, ma lei insistette nell’affermare di avere di fronte colui che avrebbe dovuto servire. Il Delfino volle approfondire la vicenda e sottopose Giovanna a ben due esami in materia di fede, uno più breve e uno più lungo di addirittura tre settimane. La ragazza riuscì a convincere i chierici che le aveva messo di fronte Carlo e questi le concesse il permesso di accompagnare un gruppo di soldati in partenza per Orléans.

Giovanna all’assedio di Orléans, quadro di Jules Eugène Lenepveu (1886-1890), esposto al Panthéon de Paris – Immagine di pubblico dominio

L’esercito era praticamente allo sbando e fidarsi della Pulzella rappresentava un ultimo disperato tentativo di scongiurare l’invasione inglese anche nel sud della Francia. Come le era stato profetizzato, la fanciulla giocò un ruolo fondamentale nella disfatta degli avversari della corona, e si guadagnò la simpatia del suo futuro compagno d’armi, Jean de Dunois, altresì noto come il Bastardo d’Orléans.

La ragazza riformò completamente l’esercito. Basta coi saccheggi, con le prostitute e con la deriva continua dei costumi. I soldati si sarebbero dovuti confessare, avrebbero smesso di bestemmiare e avrebbero sostenuto la popolazione locale anziché depredarla. L’effetto della sua “dieta” fu immediato: la popolazione sostenne l’esercito e con questo riuscì a contrastare prima gli assedianti d’Orléans, poi in altre battaglie, riuscendo nell’impensabile compito di contrastare efficacemente gli invasori inglesi.

La fama di Giovanna crebbe a dismisura, di pari passo con i successi militari di cui fu protagonista. Le voci non l’abbandonarono mai, e Giovanna guidò i soldati fino alla decisiva riconquista di Reims. Il 17 luglio del 1429, il Delfino fu ufficialmente incoronato re di Francia sotto il nome di Carlo VII.

La cattura e il riscatto

Il 6 maggio del 1430, la Pulzella giunse alle porte di Compiègne per difenderla dall’assedio delle truppe anglo-borgognone, e il 23 maggio progettò un’incursione a sorpresa contro Margny, una città limitrofa presidiata dagli inglesi. Tuttavia, non tutto andò secondo i piani e incappò in una tenace e inaspettata resistenza. I rivali respinsero gli attacchi francesi per tre volte e Giovanna comandò la ritirata, ma rimase indietro per difendere il rientro dei soldati e cadde vittima di un’imboscata degli uomini di Jean de Luxembourg, un nobile filo-borgognone. Secondo altre fonti, in realtà, fu il governatore di Compiègne a orchestrare l’episodio. Forse si era accordato in gran segreto con gli inglesi e aveva ordinato la chiusura delle porte cittadine per abbandonarla alla mercé dei nemici. Giovanna cadde nelle mani dei nemici e fu imprigionata prima nella fortezza di Clairox, poi nel castello di Beaulieu-les-Fontaines e, infine, nel castello di Beaurevoir. Come da tradizione per i prigionieri di guerra, Jean de Luxemburg fissò un riscatto per la sua liberazione: 10.000 lire tornesi, una cifra altissima per l’epoca. A Beaurevoir Giovanna fu trattata con tutte le attenzioni che si sarebbero riservate a un Re, prigioniera di una corte dorata.

Nel settembre del 1430, giunse a Beaurevoir Pierre Cauchon, vescovo di Beauvais, con la somma necessaria per liberare Giovanna. Il re d’Inghilterra in persona gli aveva affidato il denaro e, in virtù della mistica nomea della fanciulla, desiderava farla processare secondo il diritto ecclesiastico. Solitamente il riscatto serviva per restituire la libertà; a Giovanna, invece, costò la vita. Ormai in mano agli inglesi fu trasferita a Rouen, e le fu riservato il trattamento di un prigioniero di guerra.

Anziché essere rinchiusa in una prigione ecclesiastica, sorvegliata da donne, i suoi aguzzini la incatenarono mani e piedi per scongiurare qualsiasi tentativo di fuga e la misero in una stretta cella del castello, dove tre soldati all’interno e due all’esterno la guardavano a vista. L’Inghilterra pretendeva la sua condanna. Con la religione il processo aveva ben poco a che fare, anzi il procedimento era di natura marcatamente politica, perché mirava a infangare l’eroina della fazione francese e quindi, indirettamente, lo stesso Re di Francia Carlo. La questione era sotto gli occhi di mezza Europa e l’esito, seppur già stabilito, doveva seguire il corso di tutta la procedura. L’obiettivo era celebrare una farsa spacciandola per un processo regolare.

Il processo

Tutti gli ecclesiastici francesi erano a conoscenza delle macchinazioni del governo di Londra e l’istruzione del processo fu molto travagliata. Affinché avvenisse il passaggio di testimone alla santa inquisizione, era necessario coinvolgere in prima persona l’inquisitore di Francia. Quest’ultimo era impossibilitato a sovrintendere, perché già impegnato altrove (e probabilmente ben poco desideroso di ficcarsi in una bega simile), allora, Cauchon, incalzato dalla foga degli inglesi, si rivolse al suo vice, che però si dichiarò indisposto.

Alla fine, il vescovo di Beauvais ottenne il permesso richiesto e, burocraticamente, il processo poté avere inizio. La procedura andava rispettata, gli inglesi erano stati categorici, ma l’accusa da usare contro Giovanna era ancora sconosciuta. Questo è uno dei tanti esempi delle reiterate violazioni delle norme ecclesiastiche che accompagnarono l’evento. Il compito dell’inquisizione consisteva nello spingere l’imputato a dichiararsi colpevole; in caso di mancata abiura, o di ricaduta nel peccato, era previsto il rogo….

Ma in base a cosa Giovanna poteva essere tacciata di eresia?

Cauchon non aveva alcuna idea per formulare una valida incriminazione e si avvalse di una vasta cerchia di collaboratori, formata dai più illustri teologi dell’epoca. Il 22 febbraio ebbero inizio le indagini preliminari e inviò tre notai clericali nella città natale della Pulzella per raccogliere testimonianze. La spedizione a Domrémy ebbe esito negativo: i concittadini di Giovanna dichiararono che era sempre stata una ragazza tranquilla e devota alla chiesa; nulla di esecrabile.

L’approccio investigativo fallì e il vescovo tentò di screditarla attraverso le voci sulla sua presunta purezza. La fanciulla aveva affermato a più riprese di aver fatto voto di castità, e dimostrare l’infondatezza di quelle parole si sarebbe rivelato un eccezionale passo in avanti. Già nel 1429, ai tempi delle perplessità di Carlo, era stata sottoposta all’esame della verginità, anche detto delle matrone, e nel 1431 Anna di Borgogna, duchessa di Bedford che supervisionò il tutto, la dichiarò nuovamente illibata.

A seguito dell’inconcludenza delle inchieste preliminari, il processo ebbe inizio il 21 febbraio del 1431 senza un capo d’imputazione. La chiesa ignorò qualsiasi raccomandazione di imparzialità, così come le proteste di Giovanna, che chiese ovviamente che vi fossero anche sacerdoti fedeli a Carlo, e nominò una giuria di soli ecclesiastici filo-inglesi. A capo della messinscena vi erano Cauchon e il vice-inquisitore, affiancati da quarantatré assessori. Tutto ciò che avvenne da quel momento in poi fu ampiamente documentato, e non di rado accadde che gli incaricati alle trascrizioni falsificarono gli atti a sfavore di Giovanna, quindi noi non conosciamo con precisione ciò che accadde. In molti casi la giovane si premurò, come suo diritto, di farsi rileggere i testi, intimando ai giudici di correggere ciò che, in realtà, non aveva detto.

Gli esordi dell’inquisizione prevedevano una serie di udienze pubbliche nella cappella del castello di Rouen. Giovanna era analfabeta come la totalità o quasi delle donne dell’epoca, ma si dimostrò un inaspettato e ostico avversario. In più di un’occasione, oltre che a rispondere con sarcasmo e ironia, rivaleggiò con tutti i tranelli teologici che, nelle macchinazioni di Cauchon, avrebbero dovuta trarla in inganno. Il piano dell’inquisitore era semplice: bisognava sfruttare gli interrogatori per estrapolare un valido capo d’imputazione.

Eppure, la diciannovenne di Domrémy seppe affrontare qualsiasi questione con accortezza. All’inizio di ogni sessione le veniva imposto di giurare di dire la verità su ciò che le sarebbe stato chiesto, anche in materia di fede, e la sua risposta era sempre la stessa: non avrebbe mai affermato il falso, ma aveva giurato a Dio che tutto ciò di inerente alle sue visioni era un’esclusiva di Carlo.

Il processo si concentrò sui più disparati argomenti. Le fu chiesto di narrare le modalità delle prime apparizioni, gli eventi legati alle voci celesti, del famoso “segno” suggeritole per riconoscere il Delfino. Il caso più eclatante si verificò il 24 settembre, durante la terza sessione. Cauchon le domandò se si considerasse o meno nelle grazie del Signore. La dottrina della Chiesa sosteneva che nessuno poteva averne la certezza e il quesito era un sottile tranello accademico. Una risposta affermativa equivaleva a un’eresia; una risposta negativa rappresentava un’autoaccusa da peccatrice. Giovanna rispose così:

Se non lo sono, possa Dio mettermi lì; e se lo sono, possa Dio tenermici

L’arguzia e l’ironia di quella ragazza, una sempliciotta agli occhi del vescovo, fece andare su tutte le furie gli inquisitori, e, a partire dal 10 marzo, data della settima sessione, le udienze si tennero a porte chiuse. Il dibattito proseguì vertendo sempre sugli stessi argomenti, ma la questione degli abiti maschili fu quella che risaltò maggiormente. Già prima di essere catturata, la Pulzella indossava indumenti poco consoni al sesso femminile e in prigione rifiutò di abbandonarli, probabilmente, per paura di facilitare qualsiasi tentativo di stupro da parte dei soldati. Non è da escludere che Cauchon avesse intuito questo suo ragionamento e, in seguito, lo sfruttò come pretesto per mandarla al rogo.

Ingres incoronazione Carlo VII

Sul finire di marzo la giuria stilò un documento d’accusa ripartito in settanta articoli, poi condensati in dodici. L’inquisizione la riconobbe eretica, idolatra, veneratrice di spiriti maligni e, poiché ripudiava gli abiti femminili, incurante delle leggi della chiesa. Giovanna negò tutto e rifiutò di firmare l’atto di abiura, in cui, fra le tante cose, avrebbe dovuto ammettere che le  visioni erano frutto di dialoghi con Satana. A quel punto la procedura canonica prevedeva la pratica della tortura. I soldati scortarono la prigioniera in un luogo dedicato alle torture e le concessero una notte per meditare sul da farsi. Giovanna disse che mai avrebbe negato quanto affermava, e una commissione ristretta la convocò per la sentenza. Su quindici giudici presenti, soltanto tre votarono a favore della tortura. Si decise, allora, di procedere diversamente.

L’abiura e la ricaduta nell’eresia

Il 24 maggio del 1431 le autorità la scortarono nel cimitero della chiesa di Saint-Ouen, dove era stata allestita una grande pira, e le concessero un’ultima possibilità per abiurare e pentirsi. Stando al diritto ecclesiastico, in sede d’inquisizione, qualora l’imputato avesse invocato l’intercessione del papa la giuria si sarebbe dovuta rimettere al giudizio della santa sede. Giovanna cercò invano di far valere questo diritto, ma la richiesta fu ignorata. A pochi passi dal raggiungimento del suo scopo, Cauchon iniziò a leggere la sentenza, quando la Pulzella lo interruppe e acconsentì all’abiura. Le fu consegnato un documento in cui ammetteva la fondatezza dei capi d’accusa e si impegnava a non ricadere nel peccato, quindi, ad abbandonare le armi, gli abiti maschili e i capelli corti.

Giovanna d’Arco malata viene interrogata in prigione dal cardinale di Winchester, Paul Delaroche, olio su tela, 1824, Musée des beaux-arts, Rouen – Immagine di pubblico dominio

Il suo nuovo destino prevedeva il carcere a vita, ma, almeno in teoria, avrebbe dovuto scontare la pena in una prigione ecclesiastica, finalmente sorvegliata da donne. Nei fatti non fu così. La domenica mattina del 27 maggio, Cauchon si recò in visita alla prigioniera, nuovamente rinchiusa nel castello, e constatò che indossava abiti maschili. La versione ufficiale narra che la scelta fu dettata dall’esigenza di continuare a scongiurare i reiterati tentativi di molestie dei soldati, ma altre fonti indicano Cauchon come il responsabile di tutto. Secondo l’ipotesi alternativa, dietro esplicita richiesta del vescovo, quel giorno le guardie entrarono nella cella per svegliarla e le sottrassero gli abiti femminili, lasciandole solo quelli maschili. La Pulzella protestò ma verso mezzogiorno, per necessità, non poté far altro che vestirsi con gli unici capi a sua disposizione. Giovanna non lo sapeva ma aveva decretato la sua condanna a morte.

Morte di Giovanna d’Arco, quadro di Jules Eugène Lenepveu (1886-1890) esposto al Panthéon de Paris – Immagine di pubblico dominio

L’episodio degli abiti giocò a favore di Cauchon, che riunì ancora una volta la giuria per discutere dell’accaduto. Stando alla dottrina cattolica l’accusa di travestimento andava contestualizzata per verificare che non vi fossero delle attenuanti. Nel caso di Giovanna l’atto era legato a una comprovata necessità di autodifesa, ma la giuria era sorda a qualsiasi ragionamento logico e coerente e la dichiarò ricaduta nell’eresia. Alla presenza di Cauchon, il 30 maggio, due frati si recarono nella cella della Pulzella e la avvisarono della sentenza. La giovane si confessò e chiese che le venisse somministrato il sacramento dell’eucaristia. Martin Ladvenu, uno degli ecclesiastici, rimase interdetto, perché offrire la comunione a un peccatore rappresentava un controsenso. A riprova della grande farsa che fu il processo del 1431, Cauchon diede il suo benestare. Il 30 Maggio del 1431 la ragazza fu arsa viva sul rogo. Invocò Dio, la Vergine, l’arcangelo Michele, santa Caterina e santa Margherita. La ragazza era stata accompagnata da 200 soldati nella piazza Mercato Vecchio di Rouen, e questi imposero al boia: “Fa’ ciò che devi”. Il fuoco iniziò a salire, Giovanna chiese acqua benedetta e quando fu avvolta dalle fiamme gridò solo “Gesù”. Poi, nei minuti successivi, bruciata viva dalle fiamme, morì. Aveva 19 anni. Di lei rimasero solo le ceneri, il cuore e qualche frammento di osso. I resti furono gettati nella Senna.

Il processo di annullamento

Nel 1449, l’esercito di Carlo VII, capeggiato dal Bastardo d’Orléans, entrò vittorioso a Rouen e pose fine alla lunga egemonia inglese. Sia il sovrano sia il vecchio compagno d’armi di Giovanna si fecero promotori della sua riabilitazione e, nel 1452, papa Callisto III autorizzò la revisione del caso. Il 7 novembre del 1455 ebbe inizio il cosiddetto processo di annullamento. L’inquisizione, orfana dell’influenza inglese, poté operare senza le irregolarità che avevano contraddistinto l’evento di vent’anni prima. Furono interrogati più di cento testimoni e tutti i nodi vennero al pettine: l’accusa di travestimento fu facilmente confutata in virtù delle eccezioni previste dalla dottrina. Ne conseguì la revoca della condanna per eresia e, passando per il classico iter religioso, papa Benedetto XV proclamò santa Giovanna nel 1920.

Giovanna d’Arco che ascolta le voci, olio su tela di Eugene Thirion, 1876, Città di Chatou, Chiesa di Notre-Dame – Immagine di pubblico dominio

La sua storia ha attraversato lo spazio e il tempo ed è giunta fino ai giorni nostri, conquistando la letteratura, il cinema e la pittura. Da semplice contadina analfabeta, Jeanne d’Arc vive tutt’oggi nell’immaginario comune come vittima di una giustizia ingiusta. Di una chiesa al soldo del potere politico.


Pubblicato

in

da