La battaglia di Maratona: Nemesi dell’arroganza Persiana

Se c’è una cosa che la dea Nemesi proprio non sopporta è l’arroganza, in particolare quando è condita da una buona dose di presunzione. D’altronde lei, temibile divinità, si occupa di “dare ciò che è dovuto”, insomma di rendere pan per focaccia a chi mostra un’eccessiva hybris, ovvero troppo orgoglio.

La dea Nemesi – Immagine di pubblico dominio

È insomma un’implacabile dea della giustizia, ma non quella delle leggi degli uomini:

Lei compensa e ripara; vendica e castiga

Nel VI secolo a.C., Ramnunte, sulle coste dell’Attica, è il luogo dove viene praticato con maggior fervore il suo culto: lì c’è la sua casa, un grande tempio dove concepisce la bellissima Elena, la futura causa della guerra di Troia, quando Zeus si trasforma in cigno pur di possederla.

Ramnunte, Grecia – Immagine di Andreas Kakaris condivisa con licenza CC BY-SA 4.0 via Wikipedia

Deve aver sorriso Nemesi, quando dal suo tempio a Ramnunte vede sbarcare l’esercito dei Persiani, ritenuto praticamente invincibile, ma certo non da lei, che deve considerarli fastidiosamente arroganti.

Resti del tempio di Nemesi a Ramnunte – Immagine di C. de Lisle condivisa con licenza CC BY-SA 4.0 via Wikipedia

I preparativi

Il Gran Re, Dario I, vuole conquistare la Grecia, per punirla di aver sostenuto la ribellione delle colonie elleniche della Ionia. È un caldo mese d’estate (forse agosto o settembre) del 490 a.C., quando Dario I, forte di un esercito di 25.000 uomini (stima approssimativa), sbarca a Maratona, distante una quarantina di chilometri da Atene e circa 12 da Ramnunte.

Santuario di Nemesi a Ramnunte – Immagine di pubblico dominio

Forse, il Gran Re la immagina come una passeggiata, tanto è sicuro di conquistare Atene. In fin dei conti, ad attenderlo nella piana di Maratona, ci sono solo 9000 opliti ateniesi e un migliaio di plateesi, mentre gli spartani, impegnati nelle celebrazioni delle feste religiose in onore di Apollo, non possono lasciare la città.

La piana di Maratona oggi – Immagine di Tomisti condivisa con licenza CC BY-SA 4.0 via Wikipedia

I due eserciti si guardano da lontano per svariati giorni, e aspettano: gli ateniesi vogliono temporeggiare perché sperano che, nel giro di qualche giorno, a conclusione delle feste religiose, arrivino gli spartani; contano anche sulla scarsità degli approvvigionamenti persiani e, non ultima, sulla diffusione di malattie nel campo avversario, un piccolo spazio per così tanti uomini e cavalli che producono una montagna di escrementi. I greci hanno anche un motivo tattico per aspettare che siano i persiani ad attaccare: vogliono che la battaglia si svolga sul lato della piana dove sono accampati loro, perché il terreno è meno favorevole per la temibile cavalleria nemica.

Anche i Persiani hanno qualche buon motivo per aspettare a dar battaglia: se avessero attaccato i Greci per primi, loro si sarebbero trovati dal lato giusto della pianura per sfruttare al massimo la cavalleria, e poi forse sperano, in quell’attesa, di riuscire a conquistare Atene con l’arma del tradimento (come già accaduto in altre occasioni).

La battaglia

Alla fine, comunque pare che siano stati i Greci a uscire dalla situazione di stallo, probabilmente per le pressioni esercitate dalla stratego Milziade. Lo storico greco Erodoto racconta che i due eserciti si fronteggiarono a una distanza di circa otto stadi (1400 metri), che i Greci coprirono “di corsa”, o forse, “a passo veloce”, con addosso il non indifferente peso delle loro armature.

Opliti greci schierati secondo lo schema a falange in una raffigurazione moderna – Immagine di pubblico dominio

Tralasciando le contestazioni di alcuni storici moderni – molti ritengono poco credibile quella “corsa”, che avrebbe stremato gli opliti ancor prima della battaglia –
e comunque siano andate le cose, la carica dei Greci sbaraglia i ben più numerosi Persiani:

«Il nemico […] capì con orrore che [gli Ateniesi], lungi dall’essere facili prede per i loro arcieri, come aveva prima immaginato, non stavano per essere bloccati. […] L’impatto fu devastante. […] in quei primi terribili secondi di collisione, non ci fu altro che un’accozzaglia polverosa di metallo dentro carne ed ossa; poi la marea ateniese si abbatté sugli altri uomini, vestiti per la maggior parte solo con giubbotti trapuntati come protezione ed armati, forse, con nient’altro che archi o fionde». (Tom Holland, Persian Fire)

L’impossibile è accaduto: il grande esercito persiano è costretto a scappare, prendendo velocemente il mare con le sue triremi. Leggenda vuole che il messaggero Fidippide abbia corso per 42 chilometri, fino ad Atene, per annunciare Νενικήκαμεν, «Abbiamo vinto», e quindi morire per lo sforzo compiuto.

La gara della Maratona, nata dalla leggenda di Fidippide – 1ª edizione delle Olimpiadi Moderne – Strada da Maratona ad Atene, 1896 – Immagine di pubblico dominio

Nella realtà, è tutto l’esercito greco che si dirige a marce forzate verso la città, per impedire lo sbarco dei Persiani, che avevano fatto rotta verso Atene. Alla fine, i nemici nemmeno ci provano a ritentare una battaglia, e se ne tornano verso casa.

Ma la dea Nemesi, cosa c’entra con tutto questo?

La dea Nemesi

Ce lo racconta il geografo/storico greco Pausania:

“Ramnunte dista una sessantina di stadi [12 km. circa] da Maratona, percorrendo il sentiero costiero che porta ad Oropo. Le case della sua gente sono in riva al mare, ma un po’ nell’entroterra c’è un santuario di Nemesi, che è la dea più inesorabile per gli uomini orgogliosi. Sembra che anche i barbari sbarcati a Maratona abbiano suscitato la collera di questa dea: presumendo che nulla impedisse loro di impadronirsi di Atene, portarono il marmo da Paros per fare un trofeo come se l’avessero già conquistata. Con questo marmo, Fidia ha scolpito una statua di Nemesi, e sulla testa della dea c’è una corona con cervi e piccole immagini di Nike.”

I Persiani dunque, certi della loro vittoria, si portano appresso un grande blocco di marmo di Paro per erigere una stele commemorativa. Tanta arroganza non può essere tollerata da Nemesi che, chissà, forse dà una mano ai Greci…

Quel blocco di marmo viene poi usato per creare una gigantesca statua di Nemesi, alta quattro metri, posta all’interno del tempio. L’opera viene realizzata forse dal grande Fidia o, più probabilmente, dal suo allievo prediletto, Agoracrito di Paro.

Ricostruzione della statua di Nemesi a Ramnunte – Immagine di Jerónimo Roure Pérez condivisa con licenza CC BY-SA 4.0 via Wikipedia

Una statua magnificata da tutti quelli che hanno modo di vederla: Strabone, nella sua Geografia, scrive: «La statua di Nemesi, che alcuni considerano opera di Diodoto, mentre altri dicono sia di Agoracrito di Paro, [è] opera di grande successo sia per dimensioni che per bellezza e degna di competere con le opere di Fidia», e il romano Marco Terenzio Varrone la considera “superiore a ogni altra statua”.

La gigantesca Nemesi viene posta nel grande tempio di Ramnunte intorno al 430 a.C, dopo che questo era stato distrutto dai Persiani nel 480 a.C. (quando Serse I tenta una nuova conquista della Grecia), e poi ricostruito.

Nel 1812/13, un gruppo di ellenofili britannici della Società dei Dilettanti, effettua il primo scavo a Ramnunte e trova la testa della statua di Nemesi (oggi conservata nei magazzini del British Museum).

La testa della Nemesi, British Museum

Non che dica molto quel reperto, simile a “un’enorme palla di cannone, [con] gran parte della parte posteriore della testa tagliata e scomparsa, e l’intero lato sinistro raschiato fino a renderlo irriconoscibile; solo l’occhio destro e parte della pettinatura su quel lato danno prova di un bel lavoro” (descrizione dal sito di PennMuseum).

Verso la fine degli anni ’60, l’archeologo greco George Despinis inizia a rimettere insieme una serie di frammenti trovati a Ramnunte, circa 340, che consentono, nel 1972, una parziale ricostruzione della statua e della base sulla quale era posta, dove è scolpita la scena della presentazione di Elena alla madre Nemesi, da parte di Leda (secondo alcune versioni del mito è lei la madre di Elena, Clitennestra e dei Dioscuri).

Copia romana della statua di Nemesi a Ramnunte, Praga, Palazzo Kinský – Immagine di Zde condivisa con licenza CC BY-SA 3.0 via Wikipedia

La distruzione della statua di Nemesi, un capolavoro che aveva pochi eguali, si deve probabilmente ai cristiani, che nel IV secolo d.C. fecero scempio di templi e statue pagane, dopo l’editto di Tessalonica promulgato dall’imperatore Teodosio. Con lui, Nemesi non l’ebbe vinta: regnò fino alla fine della sua vita su un grande impero ancora unito e morì di malattia, cosa insolita per i potenti dell’epoca…

Annalisa Lo Monaco

Lettrice compulsiva e blogger “per caso”: ho iniziato a scrivere di fatti che da sempre mi appassionano quasi per scommessa, per trasmettere una sana curiosità verso tempi, luoghi, persone e vicende lontane (e non) che possono avere molto da insegnare.