Alle 3.15 del mattino del 13 marzo 1964, una donna fu assassinata in un sobborgo di New York, nel Queens. Si chiamava Kitty Genovese, aveva 28 anni, una personalità solare e, a detta degli amici, era molto più matura della propria età. Ma quel venerdì notte, chi e come fosse Kitty non ebbe alcuna importanza: molti conoscenti e vicini di casa rimasero insensibili alle sue grida di aiuto, e scelsero di non farsi coinvolgere in un assassinio.
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Il comportamento di queste persone fu stigmatizzato dalla stampa dell’epoca, in particolare dal New York Times, e studiato da psicologi e sociologi, che coniarono l’espressione “effetto spettatore” (o apatia dello spettatore, o effetto testimone).
Immagine dal documentario “The Witness”. Kitty Genovese fotografata nel 1959 nella casa dei nonni a Brooklyn.
In quella tragica notte del 1964, Kitty era uscita alle 2.30 dal bar in cui lavorava, nel Queens. Come al solito salì sulla sua automobile, per tornare nell’appartamento che condivideva con un’amica, a Kew Gardens. Per arrivare a casa la ragazza impiegava circa 45 minuti, durante i quali non si accorse di un’auto che la seguiva fin dalla sua partenza.
Alle 3.15 Genovese parcheggiò l’auto poco distante dalla porta di casa, ma non così vicino da sfuggire all’uomo che l’aveva seguita fin lì, Winston Moseley, un uomo di ventinove anni, sposato e padre di tre figli, senza precedenti penali. Almeno fino a quella notte.
Mentre Kitty percorreva i 30 metri che la separavano dall’uscio e dalla salvezza, Moseley la raggiunse e la colpì con due pugnalate alla schiena. La ragazza iniziò a gridare, cercando di allontanarsi dal suo assalitore. Diversi vicini sentirono Kitty urlare, ma pare che nessuno abbia intuito che si trattasse di una disperata richiesta d’aiuto. Solo uno, Robert Mozer, capì che la ragazza era stata aggredita (non pugnalata) e urlò “Lascia stare quella donna” contro Moseley, che scappò via. Kitty, gravemente ferita, cercò di trascinarsi verso il proprio appartamento, fuori dalla vista dell’uomo che aveva fatto allontanare l’aggressore.
Anche se alcuni testimoni affermarono di aver visto Moseley allontanarsi in macchina, l’uomo tornò a cercare la sua vittima dopo una decina di minuti, e la trovò, semi-cosciente, in un corridoio sul retro del condominio. L’uomo inferse altri colpi di pugnale a Kitty, la violentò, la derubò dei 49 dollari che aveva in borsa, e quindi si allontanò, questa volta definitivamente. La durata dei due distinti assalti era stata di circa mezz’ora in totale. Alle 3.45 del mattino era tutto finito. Eppure, le prime chiamate alla polizia arrivarono solo dopo le 4.00. Un’ambulanza portò via Kitty Genovese alle 4.15, ma la donna morì durante il trasporto in ospedale.
Tutta la dinamica dell’atto criminale, e la presunta indifferenza dei vicini di casa, suscitarono parecchio scalpore in città, specialmente dopo la pubblicazione di un articolo sul New York Times, il 27 marzo, che fece diventare il tragico avvenimento un simbolo dell’insensibilità dei newyorkesi, o quantomeno una dimostrazione della loro apatia, fino a divenire paradigma di un atteggiamento comune all’intera umanità.
Secondo il quotidiano, 37/38 persone avevano assistito agli avvenimenti, ma nessuno era intervenuto, per “non restare coinvolto”. Tuttavia, la dinamica dei fatti non si era svolta come la descrisse il giornalista, perché nessuno dei vicini vide l’intera sequenza dell’omicidio. Alcuni di loro pensarono che le urla fossero dovute ad un litigio amoroso, o che si trattasse di schiamazzi tra ubriachi, mentre nessuno vide il secondo assalto di Moseley, quello mortale.
Winston Moseley
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Tra l’altro, alcuni dei testimoni affermarono di aver allertato la polizia per segnalare un’aggressione, ma le telefonate non furono tenute nella giusta considerazione.
Moseley fu arrestato sei giorni dopo quella tragica notte, durante un furto. L’uomo che sembrava un semplice ladruncolo si rivelò un pluriomicida: confessò di aver ucciso Kitty Genovese, e prima di lei altre due donne, per motivazioni di carattere sessuale: l’assassino era probabilmente un necrofilo. Agghiacciante la motivazione che diede per l’omicidio di Kitty: quella notte si era alzato, lasciando la moglie a dormire nel letto, al solo scopo di “uccidere una donna”. L’uomo fu condannato alla pena di morte, poi commutata in carcere a vita. Morì in galera, nel 2016, senza mai aver mostrato segni di pentimento, anzi. Affermava di aver diritto alla libertà condizionale (mai concessa) perché “per una vittima all’esterno, è questione di una volta, di un’ora o di un minuto, ma per una persona in galera è per sempre”.
Malgrado l’efferatezza di un delitto così insensato, malgrado la commozione per la morte assurda di una giovane donna, ciò che maggiormente colpì sia l’opinione pubblica, sia psicologi e sociologi, fu il comportamento dei vicini di casa di Kitty. Due psicologi sociali, Bibb Latané e John Darley, proprio spinti dall’articolo New York Times, eseguirono diversi esperimenti, durante i quali si manifestarono quei comportamenti poi definiti come “effetto spettatore” (bystander effect): quante più persone sono presenti in una situazione di emergenza, tante meno interverranno per prestare soccorso, in conseguenza di un fattore psicologico chiamato “diffusione di responsabilità”. Ciascuno presume che qualcun altro, magari più qualificato, si assumerà la responsabilità dell’azione e dell’aiuto.
La vicenda di Kitty Genovese fu un evento scatenante che portò all’istituzione del 911, il numero unico per le chiamate di emergenza, attivo in tutti gli Stati Uniti e corrispondente del 112 europeo.