L’Isola del Diavolo: l’inferno in Terra per condannati a una Morte Vivente

Oggi gli abbandonati e inquietanti edifici penitenziari delle Isole della Salute sono visitati da migliaia di turisti in cerca di emozioni un po’ macabre, ma fino a pochi decenni fa erano un inferno per morti viventi

La famigerata Île du Diable, l’isola del Diavolo, fu così chiamata nel 1763 dai francesi, che avevano occupato un angolo del Nuovo Mondo, la Guyana francese, in Sud America. La piccola isola, insieme ad altre due, forma l’arcipelago battezzato Îles du Salut dal governatore francese dell’epoca, che sperava che questi piccoli lembi di terra fossero risparmiati dalle malattie tropicali che stavano decimando i coloni del continente.

Le tre isole presero il nome di Île Royale, Île Saint-Joseph, e Île du Diable. Per quest’ultima il governatore si ispirò non solo al nome dato dagli indigeni all’isola, che credevano fosse abitata da uno spirito maligno, ma anche per l’evidente ostilità del mare, infestato dagli squali e percorso da fortissime correnti, che si abbattono sugli scogli in onde martellanti. Il nome divenne quasi una profezia, e per un secolo assunse un significato letterale. L’Isola del Diavolo, come venne comunemente indicato l’intero arcipelago, sarebbe diventato uno dei luoghi più infami della Terra.

La Guyana Francese

La colonizzazione della Guyana da parte dei francesi fu “il fallimento più abissale, in termini di vite perse, negli annali della colonizzazione americana” (JR McNeill, Mosquito Empires, 2010). L’intento della Francia era quello di farla diventare una colonia agraria, ma 10.000 dei 12.000 coloni inviati morirono nel giro di due anni di febbre gialla, dissenteria e altre malattie tropicali. Il territorio non era adatto alla coltivazione, né le coste offrivano porti naturali per il commercio. Un luogo maledetto per gli Europei.

La Colonia Penale

Dal 1852, per cento anni, la colonia penale di Cayenne, conosciuta semplicemente come Isola del Diavolo, venne utilizzata sia per gli oppositori politici dei vari governi, sia per i detenuti comuni. Il penitenziario era costituito da diverse strutture, sia sulla terraferma che sulle tre isole, un famigerato inferno verde dal quale era praticamente impossibile uscire vivi: solo 2.000 degli 80.000 prigionieri condannati ai lavori forzati alla Cayenne riuscì a sopravvivere. Nessuna fuga era possibile perché, come diceva minacciosamente uno dei direttori:

Abbiamo due guardiani: la Giungla e il Mare, se non sarete mangiati dagli squali o non avrete le ossa spolpate dalle formiche, presto verrete a mendicare di tornare

La giungla rappresentava di fatto una barriera naturale: malattie, insetti, animali feroci, fiumi infestati dai piranha, calore insopportabile e popolazioni indigene pagate per catturare e riconsegnare i prigionieri rendevano impossibile la fuga attraverso di essa. L’altra alternativa, l’Oceano Atlantico, era altrettanto impraticabile: le correnti, gli squali, e le navi di pattuglia costituivano ostacoli insormontabili.

Solo la morte poteva essere una liberazione dalle torture subite: i condannati, durante il lavoro, erano obbligati a rimanere nudi, con l’eccezione delle scarpe e di un cappello, immersi nell’acqua fino alla vita, con l’obbligo di tagliare ogni giorno un metro cubo di legno duro:

Se non ci riuscivano avrebbero ricevuto come cibo solo un tozzo di pane secco

Chi non si atteneva alle regole e chi tentava la fuga era trasferito nell’isola di Saint-Joseph, soprannominata dai detenuti “mangeuse d’homme”, la mangiatrice di uomini. Qui gli uomini impazzivano, dopo anni trascorsi in isolamento, nel buio più totale, praticamente sepolti vivi dentro celle prive di finestre, e dalla spesse porte di ferro; non potevano parlare, nemmeno con le guardie che passavano loro il cibo attraverso piccoli pertugi.

Ma non erano più fortunati quei prigionieri che venivano calati nelle “Fosse dell’Orso”, dei pozzi di cemento coperti, a livello del suolo, da una griglia di ferro: qui i detenuti erano esposti a tutte le intemperie e preda dei pipistrelli vampiro. Molti prigionieri, con le gambe incatenate a una sbarra di ferro, sono stati lasciati nelle fetide celle dell’isola di Saint-Joseph fino alla morte.

E’ difficile credere che questo regime carcerario, dove i diritti umani erano totalmente calpestati, sia stato portato avanti da una “civile” nazione occidentale fino al 1953, anno della definitiva chiusura della colonia penale.

La più piccola delle tre isole, Île du Diable, era talmente inaccessibile che per raggiungerla veniva utilizzato un sistema di corde e carrucole. L’isola era riservata ai prigionieri politici; tra i tanti il più conosciuto è probabilmente Alfred Dreyfus, ingiustamente accusato di alto tradimento, che trascorse cinque anni (1895-1899) all’Isola del Diavolo in totale isolamento.

Le fughe

Henri Carriere è sicuramente il più conosciuto tra i pochi che siano mai riusciti ad evadere dall’Isola del Diavolo. Nel suo libro Papillon, da cui fu tratto anche un famoso film con Steve McQueen, descrive la terribile vita condotta nella colonia penale, e i suoi tentativi di evasione, nove in tutto durante i tredici anni trascorsi alla Cayenne.

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La sua ultima rocambolesca fuga riuscì grazie ad un sacco riempito con noci di cocco, usato come zattera, con il quale si gettò dagli scogli dell’Isola del Diavolo; dopo aver studiato il movimento delle onde, Carriere capì che la settima aveva la forza necessaria per trascinarlo al largo. Pubblicato nel 1970, Papillon divenne un best-seller, anche se molto controverso. Pare che in realtà Carriere abbia raccolto nel suo libro le testimonianze e le avventure di diversi detenuti, senza averle vissute di persona, se non in minima parte. Tra l’altro sembra che non abbia trascorso la sua prigionia su nessuna delle Isole della Salute, ma in un carcere sulla terraferma.

Altri due detenuti, in tempi diversi, sono realmente riusciti a compiere un’impresa che metaforicamente si potrebbe definire un viaggio dall’inferno al paradiso: dall’Isola del Diavolo alla Città degli Angeli.

Charles De Rudio

De Rudio era un nobile italiano, che negli anni del Risorgimento, si unì alla carboneria e partecipò ad un complotto per assassinare Napoleone III. Dopo essere stati scoperti, i quattro congiurati furono condannati a morte, ma per De Rudio e un altro cospiratore la pena fu commutata in ergastolo; nel 1858 fu deportato, insieme ad altri 200 detenuti, nella colonia penale della Cayenne.

Dopo aver trascorso un po’ di tempo ai lavori forzati sulla terraferma, De Rudio fu mandato all’Île Royale, da cui riuscì ad evadere nel 1859, al secondo tentativo. Insieme ad altri detenuti, De Rudio riuscì ad impossessarsi della barca di alcuni pescatori, e dopo molte peripezie, arrivò nella Guyana britannica. L’impresa aveva dell’incredibile: i fuggiaschi avevano navigato su un piccolo battello per quasi mille miglia, senza nulla da mangiare né da bere. Considerati come prigionieri politici, furono bene accolti dagli Inglesi. In seguito De Rudio si trasferì negli Stati Uniti, dove si arruolò nell’esercito, continuando a vivere numerose avventure:

Fu uno dei pochi sopravvissuti della battaglia di Little Big Horn

Dopo aver trascorso, tra Francia – Italia – Svizzera – Gran Bretagna, 10 anni della sua vita come rivoluzionario, un anno nell’inferno della Cayenne, e circa 30 come soldato dell’esercito degli Stati Uniti, alla fine De Rudio si stabilì a Los Angeles. Dopo essere sopravvissuto a molti inferni, non poteva scegliere un posto migliore per trascorrere gli ultimi anni in “paradiso”.

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René Belbenoit

Di un altro carcerato, di nome René Belbenoit, la vita sembra essere veramente romanzesca, letteralmente parlando. Tanto romanzesca da aver ispirato due film. Il primo, Condemned, del 1929, uscì mentre era ancora in carcere, sei anni prima della sua clamorosa fuga dalla colonia penale francese. Dopo essere divenuto una leggenda per l’evasione dall’Isola del Diavolo, René Belbenoit collaborò come consulente tecnico al secondo film ispirato in parte alla sua vita: Passaggio a Marsiglia, del 1944, interpretato da Humphrey Bogart. Scrisse anche un libro sulle sue esperienze nella colonia penale, “Ghigliottina Secca”, che quando uscì, nel 1938, non solo divenne un best-seller, ma fu anche il primo seme che fece crescere l’indignazione del mondo nei confronti del regime carcerario della Cayenne.

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Alla fine della 1° guerra mondiale, dopo aver combattuto con onore nell’esercito francese, Belbenoit fu arrestato per furto, e condannato a otto anni di lavori forzati nella Guyana. All’epoca era in vigore la cosiddetta legge del doppiaggio: alla fine della pena ogni detenuto, prima di tornare in Francia, doveva trascorrere un uguale numero di anni sul territorio della Guyana, ma se la condanna superava gli otto anni, era obbligato a rimanervi per tutta la vita.

Esiliare per sempre le persone indesiderabili era evidentemente lo scopo “eugenetico” del sistema giuridico francese

Belbenoit arrivò nella Guyana francese il 23 giugno 1923, era il detenuto numero 46.635: tanti ne erano fino ad allora arrivati dal 1852, anno di apertura della colonia penale. Le sofferenze patite da Belbenoit durante gli anni trascorsi in Guyana sono raccapriccianti, ma nonostante le malattie, la fame, le torture, lui non si arrese mai: riuscì a scrivere delle memorie che vendette, mentre era ancora detenuto, ad una coppia di giornalisti americani arrivati a visitare la colonia, Robert e Blair Niles. Sulla base di queste memorie, la Niles scrisse una storia romanzata “Condemned to Devil’s Island”, che poi ispirò il film del 1929.

Dopo svariati tentativi di evasione, mai riusciti, Belbenoit, nel 1930, arrivò alla fine della sua condanna, ma non poteva comunque lasciare la Guyana Francese. Grazie alla benevolenza del governatore, ebbe il permesso di allontanarsi per un anno, allo scopo di dimostrare di potersi guadagnare da vivere onestamente, e ottenere la libertà permanente. Dopo aver trascorso un anno a Panama, lavorando come giardiniere, Belbenoit scoprì che il governatore era cambiato, e sarebbe dovuto tornare in Guyana per sempre. Decise di partire comunque per la Francia, per ottenere giustizia, ma al suo arrivo fu arrestato e rispedito alla colonia penale. Era il 7 ottobre 1932.

Dopo aver trascorso due anni in isolamento, gli fu consentito di tornare sulla terraferma come “detenuto libero”. Insieme ad altri cinque compagni di sventura, Belbenoit riuscì ad acquistare una canoa, con la quale presero il mare, diretti verso Trinidad. Dopo 14 giorni di navigazione, e quasi 700 miglia percorse, gli uomini ormai disperati raggiunsero l’isola, ma non la salvezza: gli Stati Uniti erano la meta finale. Tutti i suoi compagni furono catturati, solo Belbenoit, dopo incredibili avventure, tra cui una permanenza di sette mesi con i nativi Kuna, alla fine, attraversando Costa Rica, Nicaragua, Honduras, El Salvador, riuscì ad imbarcarsi clandestinamente su una nave da carico che lo fece arrivare a Los Angeles. Era l’11 giugno 1937.

Anche qui, nonostante la fama derivata dal racconto delle sue avventure, dovette affrontare non pochi problemi, tra cui una detenzione di 15 mesi perché risultava essere entrato illegalmente. Lo sventurato René Belbenoit ottenne infine, nel 1956, la cittadinanza americana, ultima certezza di non esser più condannato da un tribunale francese.

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Sotto, il trailer del film: Papillon:

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