Il XX secolo è famoso per le atrocità compiute verso le minoranze e non solo: l’esempio più celebre sono sicuramente i campi di concentramento messi in funzione dai nazisti durante la Seconda Guerra Mondiale. Grazie alle testimonianze dei sopravvissuti e di alcuni dei carnefici che hanno confessato i loro crimini, come nel caso di Hans Münch, considerato l’uomo buono di Auschwitz, conosciamo fin troppo bene come funzionassero queste macchine della morte e a quali torture fossero destinati i malcapitati che vi finivano. Ma, se per questo e altri orrori abbiamo testimonianze orali, scritte e fotografiche, ci sono tragedie che conosciamo solo per nome, sappiamo che furono esperienze tremende ma non ne conosciamo i dettagli. L’esempio forse più lampante è quello dei gulag sovietici.
A differenza dei lager tedeschi, della maggior parte dei gulag non resta alcuna traccia e non si conosce neanche la posizione geografica. Convenzionalmente si parla di Gulag in Siberia, dimenticando che la regione in questione abbia una vastità pari a quella dell’intera Europa, quindi è davvero difficile poter identificare una zona ben precisa. Inoltre pochissimi riuscivano ad uscire vivi dai Gulag, dove le pene da scontare si rivelavano essere delle condanne a morte o ergastoli, e chi riusciva aveva imposto l’obbligo del silenzio su quel che aveva visto nei campi di prigionia.
Stalin, che forse più di tutti fu promulgatore dei Gulag come soluzione più semplice ed efficace per sbarazzarsi delle personalità scomode, tentò il tutto per tutto per mantenere una facciata perfetta agli occhi del mondo esterno. Impose così una dura linea intellettuale, di cui ne soffrirono tantissimi scrittori (come Majakovskij e Bulgakov per citare solo due tra i tanti), che dettava legge su cosa si potesse scrivere e pubblicare, che aveva la sua più grande manifestazione nella censura letteraria.

Con la morte di Stalin nel 1953, salì al potere Nikita Chruščëv, che diede il via a un forte processo di destalinizzazione: vennero abolite molte delle leggi precedenti, la cultura si aprì al mondo occidentale e i sopravvissuti delle Grandi Purghe ricevettero la tanto agognata libertà oltre al reinserimento nella società.
Questa nuova apertura culturale scosse nel profondo la società sovietica: nel 1958 venne pubblicato il celebre Dottor živago del poeta Boris Pasternak, che gli valse il Nobel, e la minaccia dell’esilio a vita in patria. Ma il vero terremoto arrivò nel novembre 1962, quando sulle pagine della rivista Novyj Mir, letteralmente il Nuovo Mondo, venne pubblicato una povest’, ovvero un racconto lungo, con il titolo Una Giornata di Ivan Denisovič.

Aleksandr Isaevič Solženicyn, autore del racconto, era un tranquillo insegnante di matematica e fisica in una scuola di provincia. Il racconto non era una semplice opera di fantasia: infatti Solženicyn aveva vissuto sulla propria pelle gli orrori dei gulag. Ma andiamo con ordine.
La storia di Solženicyn
Aleksandr Isaevič Solženicyn nacque l’11 novembre 1918 a Kislovodsk, una cittadina che si trova oggi nella provincia federale di Stavropol Krai, nella regione del Caucaso nella Russia meridionale. Sin da subito crebbe senza il padre, rimasto ucciso durante una battuta di caccia. Il piccolo Aleksandr crebbe così con la madre e una zia a Rostov. La sua infanzia coincise con gli anni della guerra civile russa, ma, anche se discendente da una famiglia di kulaki e figlio di un ufficiale imperiale, quindi affine al regime zarista, visse una vita abbastanza tranquilla, grazie soprattutto all’astuzia della madre nel tenere nascosto il proprio passato. Nonostante la madre lo incoraggiasse a proseguire i suoi studi letterari e scientifici, il giovane Solženicyn non poté trasferirsi a Mosca per seguire gli studi scientifici, per i quali si iscrisse all’Università di Rostov, mentre seguiva i corsi per corrispondenza di storia e letteratura dell’Università di Mosca.

Una volta laureato, nel 1941, Solženicyn era il prototipo dell’uomo sovietico: perfettamente indottrinato e fedele all’ideologia bolscevica, nonostante non apprezzasse la tirannia di Stalin. Per realizzare appieno la sua figura di perfetto uomo sovietico, allo scoppio della guerra in Russia si arruolò nell’esercito, ma a causa del suo cagionevole stato di salute fu mandato in una zona di periferia a guidare mezzi militari. Sotto sua richiesta fu mandato alla scuola degli ufficiali, dalla quale uscì con il grado di tenente d’artiglieria. Combatté in molte battaglie, e grazie al suo ingegno salvò diversi compagni dalla morte, un impegno che gli valse il grado di capitano. Purtroppo, però, tutto ciò non bastò a salvarlo.
Nel 1945 si venne a sapere che criticò Stalin in una lettera privata a un amico e, nonostante le critiche non fossero esplicite, ricevette una condanna a otto anni ai lavori forzati nei gulag e la successiva espulsione dall’Unione Sovietica. Da quel momento cominciò il periodo più difficile della sua vita. Passò il primo periodo in campi di lavoro correzionali; per poi essere trasferito in una šaraška, ovvero un laboratorio segreto dove lavoravano i prigionieri con ottime conoscenze scientifiche per conto del governo sovietico.
Ne uscì solo nel 1950 quando, ormai completamente disilluso dall’ideologia sovietica, venne mandato in un campo di correzione per prigionieri politici, a causa della sua mancata collaborazione con l’NKVD. Il campo non diede i risultati sperati, anzi: Solženicyn partecipò a diverse rivolte di prigionieri e rafforzò il suo desiderio di diventare scrittore grazie a un ingegnoso stratagemma: non avendo accesso a carta e penna imparò centinaia di versi a memoria sgranando un rosario fatto di pane molle creato per lui da alcuni prigionieri lituani.
Nel 1953 Stalin morì, e molti prigionieri ricevettero uno sconto della pena. Tra questi c’era anche Solženicyn, il quale si trasferì nel villaggio di Kok Terek, in Kazakhstan. Durante gli anni di prigionia la moglie chiese e ottenne il divorzio e Solženicyn, terrorizzato dal poter essere nuovamente tradito dai propri amici, decise di condurre una vita solitaria. Si ammalò gravemente di tumore che non venne diagnosticato subito e rischiò di morirne. L’anno successivo ricevette un permesso speciale per potersi curare all’ospedale di Taškent. La malattia fu solo l’ultimo di una lunga serie di eventi che spinsero l’autore ad abbandonare per sempre il marxismo e abbracciare una solida fede cristiana ortodossa e un pensiero filosofico all’opposto del socialismo sovietico.
Una volta rientrato nella Russia europea, Solženicyn poté occupare quella che era la sua posizione “naturale”, ovvero quella di insegnante nella scuola di secondo grado. Di notte, però, dava sfogo alla sua vena da scrittore, riversando in fiumi d’inchiostro l’incubo che erano stati gli anni di prigionia e creando così dei veri e propri capolavori. Non si fidava più degli amici di vecchia data che avrebbero potuto tradirlo una seconda volta. Decise così di affidarsi a nuovi amici, tutti ex zek come lui. E ora addentriamoci nel racconto sui Gulag.
Chi sono gli zek?
Con il termine zek in russo si intendono i prigionieri e gli ex prigionieri dei gulag. E’ la forma abbreviata di zaključjonnyj kanaloarmeec, una locuzione che indicava i detenuti condannati ai lavori forzati. Dallo scritto di Solženicyn apprendiamo la gerarchia all’interno dei campi di lavoro: al vertice stavano le guardie, e subito sotto i detenuti, chiamati pridurki, che avevano il compito di sorvegliare i compagni. All’ultimo gradino della piramide sociale vi erano i rabotjagi, letteralmente gli sgobboni. Il termine rabotjagi deriva dal termine rabota che in russo significa lavoro, ma il lavoro dei detenuti non era certamente leggero e inoltre non era retribuito, quindi non si parlava di forza lavoro, bensì di forza di schiavi, che in russo si dice semplicemente rab.
Una giornata di Ivan Denisovič è un dettagliatissimo resoconto di una tipica giornata di un lagernik, letteralmente un prigioniero, Ivan Denisovič per l’appunto. Non siamo ancora alle atrocità descritte in Arcipelago Gulag, ma questa povest’ ne è una perfetta anticipazione.
Solženicyn si dedicò febbrilmente al suo racconto lavorando di notte, ma sapeva benissimo che in URSS non sarebbe mai stato pubblicato. Aveva visto come il regime avesse rovinato la vita a Boris Pasternak per il suo romanzo che gli valse il Premio Nobel a cui dovette rinunciare. Solženicyn decise di mantenere il suo lavoro segreto e di ricorrere al samizdat, letteralmente l’autopubblicazione clandestina, così come stavano cercando di fare altri autori, i quali volevano evitare la censura del Partito per raccontare gli orrori del gulag.
La svolta arrivò nel 1961, quando il segretario del Partito, Nikita Chruščëv, non solo denunciò pubblicamente i crimini di Stalin, ma confermò la decisione di proseguire con la sua politica di “destalinizzazione”. Solženicyn si sentì confortato da questo cambio di rotta al vertice del Partito, nonostante le alte sfere non condividessero appieno il pensiero del segretario, tanto da pensare di pubblicare la sua povest’. Negli stessi giorni il direttore della rivista Novyj Mir, Aleksandr Tvardovskij, affermò che grazie al nuovo segretario del Partito c’era più libertà nello scrivere, ma nessuno ne approfittava. Solženicyn colse al volo l’opportunità: inviò alla rivista la sua povest’, ancora con il titolo originario di šč-854. Inutile dire che Tvardovskij ne fu allo stesso tempo entusiasta e terrorizzato: sapeva di avere dell’ottimo materiale tra le mani, ma sapeva anche di poter passare dei seri guai con la censura governativa se avesse pubblicato il testo senza chiedere il consenso del Partito. Il testo venne inviato anche allo stesso Chruščëv, il quale ne fu talmente entusiasta da dare personalmente il consenso alla pubblicazione con il titolo modificato.
Una Giornata di Ivan Denisovič ebbe lo stesso effetto di un terremoto per la società sovietica. Per la prima volta la gente comune si trovò davanti alle atrocità dei gulag, senza filtri propagandistici né linguistici, mentre gli ex zek trovarono la bandiera sotto la quale riunirsi per la prima volta, affermando che tutto quello che veniva descritto all’interno era nient’altro che la verità.
Il racconto descrive una giornata del detenuto Ivan Denisovič Šuchov, che ci descrive i malumori e i sentimenti condivisi delle guardie e dei detenuti. Il clima è rigidissimo, il termometro segna -27 gradi, ma nonostante ciò i detenuti devono andare a lavorare perché il regolamento li esula dal lavoro solo se la temperatura raggiunge i -40 gradi. Già il semplice alzarsi dal letto e fare colazione è una prova di resistenza: anche se le condizioni fisiche non sono le migliori, non ci si può fare esulare dal lavoro il giorno stesso, anche perché i posti disponibili sono stati già presi dai detenuti che possono corrompere guardie e infermiere; mentre se ci si attarda per la colazione la speranza di trovare del cibo appena decente svanisce in un attimo.
Una procedura a cui nessun prigioniero può sfuggire è sicuramente la perquisizione, che viene ripetuta più volte nel corso della giornata per evitare rivolte o assassinii nel cuore della notte. Šuchov ha paura anche a nascondere un pezzo di pane da mangiare durante la giornata perché ricorda “che i piantoni di turno erano stati picchiati già due volte per aver rubato“. Le perquisizioni, almeno la mattina, sono molto sbrigative al campo: “il detenuto si slacciava la casacca e ne apriva le falde. E così cinque detenuti per volta andavano incontro a cinque guardie“. Hanno poi uno scopo ben preciso: la mattina si poteva portare il cibo per evadere, la sera le armi per una rivolta. Tutto è reso molto più difficile dal freddo pungente, e se anche un solo detenuto si attarda lasciando gli altri al gelo, detenuti e guardie cominciano a sbraitare e bestemmiare contro il malcapitato, se non addirittura a picchiarlo quando capita sotto tiro.
Oltre alle perquisizioni sono molto frequenti le conte dei prigionieri, per essere sicuri che il numero di prigionieri che esce al mattino sia lo stesso che rientra la sera. E questo riguardava soprattutto le guardie, che non avevano una vita più semplice rispetto ai detenuti. All’interno del campo, “l’uomo è più prezioso dell’oro. Se porti dietro il filo spinato una testa di meno è la tua che salta.”
I prigionieri sono divisi in squadre e ogni squadra spera di non finire al “villaggio socialista”, ovvero la zona più sperduta e completamente all’aperto dell’intero campo. Ogni squadra ha un lavoro ben preciso: ci sono i pellicciai, i manovali, i falegnami e così via. Gli unici a cui vengono assegnati lavori leggeri, come lavare i pavimenti, sono gli ex membri dell’intelligentia, considerati inutili nel gulag, a differenza dei manovali che costituiscono la forza lavoro più importante.
Durante il lavoro non si fanno domande ai caposquadra o alle guardie: se non si impara ad arrangiarsi si è fregati. Le guardie vogliono il lavoro finito, non importa come venga portato a termine. Nel campo vige il detto:
Chi nasce pecora, il lupo se lo mangia
I gulag non sono certo da meno in quanto a crudele pianificazione della vita dei prigionieri dei campi di concentramento tedesco: esiste una gerarchia ben precisa e chi sta in fondo deve lottare per sopravvivere, ed è una lotta dove sopravvive solo il più forte o il più astuto, ma non sempre il più cattivo. Questo viene riassunto così: “Nel campo la squadra è fatta in modo che il capo non abbia bisogno di aizzare i detenuti, ma siano i detenuti ad aizzarsi l’un l’altro“.
La particolarità del racconto è che non conosciamo solo i pensieri del protagonista, ma siamo circondati da un coro che narra la propria storia a turno. In questa narrazione corale troviamo i personaggi più disparati: il dispotico Volkovoj che terrorizza il campo, il religiosissimo Alëška, lo sciacallo Fetjukòv che nella società moscovita svolgeva un lavoro d’ufficio, e Bujnovskij, capitano della marina, che con il suo racconto ci mostra quanto poco tollerante fosse il regime stalinista. Valido e famoso capitano della marina, durante la guerra si ritrovò a lavorare su una fregata inglese, con lo scopo di migliorare gli sforzi delle due nazioni per sconfiggere i tedeschi e i giapponesi.
Nonostante le operazioni si svolsero per il meglio, l’ufficiale inglese decise di recapitargli un cesto in segno di gratitudine, e il governo stalinista interpretò tale gesto come fraternizzazione con il nemico e possibile spionaggio nei confronti del partito. Per tale motivo Bujnovskij si becca una condanna a venticinque anni. Ancora più drammatica è la storia di Sen’ka Klevšin: “gli si era rotto un timpano ancora nel ’41, poi era caduto prigioniero dei tedeschi, era scappato, lo avevano ripreso e rinchiuso a Buchenwald. A Buchenwald restò vivo per miracolo.” Una volta uscito dal campo di concentramento, venne acciuffato dai sovietici che lo ritenettero un collaborazionista tedesco e per questo lo condannarono al gulag.
Negli anni del terrore staliniano anche il solo finire nei campi di concentramento tedeschi viene visto come collaborazionismo con il nemico. I prigionieri del campo ci spiegano in base a quale criterio vengano assegnate le pene: “C’era stato un tempo beato in cui davano a tutti, senza distinzione, dieci anni. Dal ’49, invece era cominciata un’altra era: venticinque anni a tutti. Per dieci anni è ancora possibile farcela senza crepare. Ma provati un po’ per venticinque!“.
A differenza dei campi di concentramento nazisti, nei gulag i prigionieri possono ricevere lettere e pacchi dai familiari e possono a loro volta scrivere alle famiglie, a condizione che non si faccia parola della vita nel campo: “Scrivere del campo è come buttare sassi in un gorgo: tutto va in niente. Non potevi scrivere in che squadra lavori e com’era il tuo caposquadra Andrej Prokofievič Tjurin. Avevi più cose da dire a Kilgas, il lettone, che ai tuoi familiari“. Tutte le lettere in entrata e in uscita sono sottoposte a perquisizione, violando così la sfera privata di ciascun prigioniero.

La stessa cosa succede ai pacchi spediti dai familiari: ogni pacco è sottoposto a un’accurata perquisizione, per essere certi che nessun’arma possa entrare indisturbata all’interno del campo. Inoltre il contenuto del pacco non è a uso e consumo del solo destinatario: se si vuole ricevere il pacco per tempo, o semplicemente riceverlo, bisogna accettare il fatto che le guardie del servizio postale prelevino una quantità di cibo come “pagamento” per il servizio; una volta ricevuto, il contenuto del pacco va distribuito con i compagni della squadra, non tanto per generosità, quanto perché vanno ricompensati per alcuni favori fatti in precedenza.
Insomma, Solženicyn ci presenta uno spaccato di vita quanto più realistico possibile, con le sue difficoltà e la miseria umana nella sua massima espressione. La povest’ fu un vero successo in URSS, in quanto la gente poteva finalmente comprendere cosa fosse realmente la vita dei prigionieri dei gulag. Purtroppo però, questa libertà d’espressione durò molto poco. Nel 1964, infatti, Chruščëv venne “defenestrato” e al suo posto salì al potere Leonid Bréžnev, che mise fine alla politica di destalinizzazione e apertura verso l’Occidente del suo predecessore, tornando così a un periodo molto simile a quello staliniano, ma senza le purghe.
In questo clima, Solženicyn non fu in grado di pubblicare nel suo paese quello che fu il suo vero capolavoro, Arcipelago Gulag. Per le sue idee diametralmente opposte alla dottrina del Partito venne espulso dalla società degli scrittori nel 1969, mentre l’anno dopo ricevette il Premio Nobel per la letteratura. Purtroppo, a causa della censura sovietica, non potè ritirarlo. Nel 1974 venne definitivamente espulso dall’URSS e si rifugiò negli Stati Uniti. Si recò a Stoccolma per ritirare il suo premio e in quell’occasione pronunciò un discorso di denuncia nei confronti del suo paese e del trattamento riservato agli ex zek.
Una giornata di Ivan Denisovič è la pietra miliare dei racconti dei sopravvissuti nei campi di prigionia. Anche grazie a questa narrazione il mondo ha conosciuto l’orrore dei gulag e il loro letale meccanismo, un sistema che è ancora in uso in molti altri campi di prigionia sparsi per il mondo, ma di cui ancora, purtroppo, ignoriamo l’esistenza.